Vertice di Parigi
Nella primavera del 1974 si realizzò un cambio della leadership politica sia in Francia sia nella Repubblica federale di Germania. In quest’ultima divenne cancelliere, il 14 maggio, il socialdemocratico Helmut Schmidt, ex ministro delle Finanze, subentrando a Willy Brandt, anch’egli esponente della SPD. In Francia, dopo la morte, avvenuta il 2 aprile, del presidente Georges Pompidou, il 19 maggio venne eletto all’Eliseo Valéry Giscard d’Estaing, le cui posizioni rispetto al processo di integrazione europea differivano sensibilmente da quelle del suo predecessore e del generale de Gaulle (v. de Gaulle, Charles). Giscard d’Estaing, infatti, auspicava un superamento del modello di Europe des États, senza spingersi fino all’Europa sovranazionale. In una dichiarazione rilasciata l’8 settembre 1966, pochi mesi dopo aver fondato la Fédération nationale des républicains et indépendants (FNRI), qualificando quest’ultima come «l’elemento centrista ed europeo della maggioranza», egli aveva affermato: «È necessario inventare l’Europa e questo sarà il compito della nostra generazione, definire e proporre gradualmente una costruzione originale: sarà l’Europa esistenziale». Giscard d’Estaing, inoltre, aveva aderito al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, nato su iniziativa di Jean Monnet, e si era espresso a favore dell’adesione del Regno Unito alle Comunità europee. Egli era convinto della necessità di un’autorità europea, ma riteneva che la Commissione non sarebbe divenuta l’embrione del governo dell’Europa a causa della resistenza degli Stati rispetto al trasferimento di competenze importanti a istituzioni sovranazionali. In un’altra dichiarazione del gennaio 1967, egli aveva sostenuto la necessità di organizzare, in maniera sistematica, la collaborazione dei governi e di garantire la convergenza delle loro politiche, rispettando, tuttavia, le loro prerogative. Si trattava di associare strettamente i due metodi: quello comunitario e quello intergovernativo. In tal modo Giscard d’Estaing usciva dal confronto tra confederazione e Stato federale, anche se egli appariva più vicino al primo modello, quello appunto confederale.
Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1974, egli aveva affermato di ritenere l’Europa una priorità, annunciando, in caso di sua elezione, un’iniziativa della Francia nel secondo semestre di quell’anno, nel periodo della sua presidenza di turno. Nel corso di una conferenza del Movimento europeo, il 2 maggio di quell’anno, egli chiarì ulteriormente quale fosse il suo programma di politica europea: andare oltre l’ambito economico, avviarsi verso una confederazione di Stati e, progressivamente, accrescere i poteri dei parlamentari europei, per giungere, a un certo momento, alla loro elezione a suffragio universale diretto.
Vi erano state diverse sollecitazioni ad avviare una stagione di riforme. Innanzi tutto, la Commissione europea, che il 31 gennaio di quell’anno aveva lanciato l’allarme sulla gravità della crisi della Comunità, chiedendo un rilancio della costruzione europea, migliorando anche il funzionamento delle Istituzioni comunitarie. Il Parlamento europeo, il quale, con una risoluzione adottata il 14 febbraio, oltre a rivendicare l’estensione dei suoi poteri in materia di bilancio, aveva anch’esso posto l’accento sulla debolezza delle istituzioni comunitarie e sulla necessità di metterle in condizione di agire. Infine la dichiarazione del primo ministro belga, Léo Tindemans, il quale il 21 giugno aveva affermato che solo la Francia avrebbe potuto imprimere un nuovo impulso al processo di integrazione europea.
Giscard d’Estaing riteneva che un rilancio del processo di integrazione economica si sarebbe realizzato solo nella prospettiva di una più stretta cooperazione politica, facendo leva su un rinnovato tandem franco-tedesco. Il 14 settembre 1974 riunì all’Eliseo i capi di governo degli altri otto Stati membri della Comunità e il Presidente della Commissione europea, François-Xavier Ortoli, raccogliendo il loro consenso rispetto al progetto di riunioni periodiche al vertice. Un nuovo incontro venne convocato per il 9 e 10 dicembre, sempre a Parigi, con la finalità di dare nuovo slancio al processo di integrazione. In quella sede, i capi di Stato e di governo confermarono la loro volontà di realizzare l’Unione economica e monetaria (UEM) e assunsero anche la decisione di istituire il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), dotando la Comunità di un importante strumento per affrontare la questione degli squilibri regionali. Le novità più rilevanti, però, furono quelle riguardanti l’assetto istituzionale. Venne stabilito, infatti, che i vertici dei capi di Stato e di governo, accompagnati dai ministri degli Affari esteri, si sarebbero tenuti con regolarità, tre volte all’anno e ogniqualvolta risultasse necessario, e tali riunioni periodiche avrebbero assunto il nome di Consiglio europeo, occupandosi sia delle problematiche comunitarie, per le quali era prevista la partecipazione agli incontri anche della Commissione, sia della Cooperazione politica europea (CPE).
Al fine di rendere meno complesso il Processo decisionale, venne inoltre deciso di limitare il ricorso al Voto all’unanimità nel Consiglio dei ministri solo alle questioni di importanza vitale, riaffermando, quindi, il principio originario del Compromesso di Lussemburgo. Vennero distinti più nettamente, inoltre, i ruoli del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) e del Consiglio, stabilendo che il primo dovesse occuparsi delle tematiche prevalentemente tecniche, riservando quelle più propriamente politiche al Consiglio. Alla Commissione sarebbero stati delegati più ampi poteri esecutivi e gestionali.
Se l’istituzionalizzazione delle riunioni al vertice era espressione della visione confederale, intergovernativa, della costruzione europea, l’altra importante decisione assunta a Parigi, superando il veto che sempre la Francia gollista aveva opposto, quella dell’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, rispondeva invece a una logica più sovranazionale e federale. Su questo punto, vi erano state numerose iniziative sia a livello di Assemblea parlamentare europea (ricordiamo il Progetto Dehousse del 1960) (v. Dehousse, Fernand), di Parlamenti nazionali e dei movimenti europeisti, mobilitando anche l’opinione pubblica, come le proposte di legge per le elezioni dirette di singole delegazioni nazionali al Parlamento europeo, ad esempio quella di iniziativa popolare per l’elezione a suffragio universale dei parlamentari italiani a Strasburgo, presentata al Senato della Repubblica l’11 giugno 1969, dopo una raccolta di firme lanciata dal Movimento federalista europeo, dal Consiglio italiano del Movimento europeo e dall’Associazione italiana del Consiglio dei Comuni d’Europa.
Infine dal Vertice venne affidato l’incarico al primo ministro belga, Léo Tindemans, di presentare entro la fine del 1975, dopo aver consultato i governi e gli ambienti rappresentativi della politica, dell’economia, della cultura e dell’opinione pubblica, una relazione di sintesi contenente una serie di proposte finalizzate alla trasformazione delle Comunità in un’Unione europea, richiamando le conclusioni del Vertice, svoltosi sempre nella capitale francese due anni prima, il 19-21 ottobre 1972, in cui i Nove si erano dati come obiettivo, appunto, quello di «trasformare entro la fine del […] decennio l’insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una Unione europea».
Le decisioni assunte a Parigi si basavano quindi su un sostanziale equilibrio tra metodo sovranazionale, comunitario e metodo intergovernativo. L’estensione delle competenze della Comunità e della cooperazione politica a più ampi settori richiedeva un più forte coordinamento al vertice, tra capi di Stato e di governo, in considerazione anche di una necessità di sintesi tra i diversi livelli, per la maggiore interdipendenza tra politiche nazionali ed europee. Di qui derivava la scelta di dare continuità e di convocare con regolarità le riunioni dei capi di Stato e di governo, che già si erano tenute a partire dai primi anni Sessanta, ma non con scadenze fisse, dando vita al Consiglio europeo, chiamato a definire i grandi orientamenti della politica comunitaria e a svolgere quasi una funzione di organo “d’appello” per risolvere questioni complesse e che non trovassero una composizione in altre sedi istituzionali comunitarie, come il Consiglio dei ministri. Il Consiglio europeo (che nasceva non in base a un trattato, ma con un accordo tra i capi di Stato e di governo e che avrebbe trovato una forma di istituzionalizzazione solo con l’inserimento nell’Atto unico europeo) era, però, come si è detto, espressione dell’approccio confederale, intergovernativo dell’integrazione. Rimaneva la questione della partecipazione dei cittadini alla costruzione europea. Da qui derivava la scelta di controbilanciare con una legittimazione democratica, tramite l’elezione diretta del Parlamento europeo, e con un potenziamento di quest’ultimo con il Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975, che accresceva i suoi poteri in materia di bilancio. L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo avrebbe coinvolto più direttamente non solo i cittadini nel processo di integrazione europea, ma anche i partiti politici, sollecitati a confrontarsi in una nuova arena politica, in un diverso spazio democratico di dimensioni continentali.
Paolo Caraffini (2016)