Albertini, Mario
A. (Pavia 1919-ivi 1997) fu docente all’Università di Pavia – dove insegnò storia contemporanea, scienza della politica, dottrina dello Stato e filosofia della politica – e dirigente del Movimento federalista europeo (MFE) – di cui fu segretario dal 1966 al 1970 e presidente dal 1970 al 1995 – e dell’Unione europea dei federalisti (UEF), di cui fu presidente dal 1975 al 1984. Fondatore nel 1959 della rivista “Il Federalista”, pubblicata anche in inglese dal 1984 con il titolo “The Federalist”, ne rimase direttore fino alla morte.
I fondamenti metodologici della teoria politica
Per delineare la personalità intellettuale di A. si impone un confronto con Altiero Spinelli, il fondatore del MFE, il cui merito maggiore fu quello di avere portato il Federalismo sul terreno dell’azione. Avendo deciso di concentrare ogni energia sull’azione per la Federazione europea, Spinelli si comportò come se si potesse trovare la teoria federalista già elaborata nei classici del pensiero federalista.
A. fu un continuatore di Spinelli, il quale scrisse di lui: «È bene che ci sia nel MFE un tipo di Saint-Just». Egli sviluppò l’autonomia del federalismo soprattutto sul piano teorico, superando il maestro su questo terreno. L’elaborazione teorica di A. si è sviluppata in stretta relazione con le scienze storico-sociali. Queste permettono, attraverso l’analisi delle strutture della produzione e del potere, di conoscere le condizioni oggettive nelle quali sono immersi i nostri comportamenti e che non dipendono dai nostri desideri, per quanto nobili siano. In base a questa conoscenza, si può distinguere, sia pure con un largo margine di approssimazione, ciò che nella storia deve essere attribuito al corso oggettivo degli eventi e ciò che invece può essere determinato dalla libera volontà, cioè dalla progettazione politica. Le scienze storico-sociali contribuiscono dunque a definire lo spazio che nella storia appartiene rispettivamente alla necessità e alla libertà. Esse svolgono una funzione indispensabile per l’azione politica. Quindi, solo se si riconosce il posto che occupa la necessità nella storia e si conoscono le leggi che governano il funzionamento della società è possibile individuare gli spiragli che si aprono all’intervento trasformatore dell’azione umana.
L’atteggiamento di A. nei confronti della scienza era analogo a quello del giovane Marx, secondo il quale la prova della verità del pensiero sta nella capacità di trasformare la realtà. L’approfondimento teorico è dunque per A. espressione di un’esigenza pratica. Il modello elaborato da A. per l’analisi politica è il risultato della sintesi di diverse teorie: il materialismo storico, la teoria della ragion di Stato, la teoria dell’ideologia.
Il materialismo storico
Il materialismo storico è la teoria che considera il modo di produrre come il fattore determinante in ultima istanza del corso storico e del mutamento sociale. Il presupposto di tutta la storia umana sono gli individui reali che producono i loro mezzi di sussistenza. Il modo di produzione è la categoria che rappresenta la pietra angolare e il principio ordinatore dell’intera realtà sociale. A. ha sottoposto il materialismo storico a una revisione critica e l’ha considerato come il tipo ideale più generale sul quale è possibile fondare l’architettura delle scienze sociali. «Se non si confonde,» egli scrive, «il concetto di produzione sociale con quelli, meno generali, di classe o di economia in senso specifico, e se non si concepisce l’evoluzione della produzione come la causa necessaria e sufficiente, ma soltanto come la causa necessaria, del divenire storico, […] non si può non ammettere: a) che il modo di produrre sia davvero il fenomeno storico più generale; b) che ad esso debbano effettivamente corrispondere la dimensione e la natura degli altri fenomeni sociali (sociali in senso lato: economici, giuridici, politici, culturali ecc.)» (v. Albertini, Nazionalismo… 1999, pp. 109-110).
Lo Stato e il sistema mondiale degli Stati costituiscono il quadro giuridico e politico nel quale si svolge il processo produttivo. A essi Marx ed Engels attribuiscono un ruolo sovrastrutturale. Ciò non significa che tale ruolo sia irrilevante nella determinazione del corso storico. Senza lo Stato, cioè senza l’ordine pubblico e la difesa nei confronti degli altri Stati, e senza il sistema mondiale degli Stati, cioè senza un minimo di ordine internazionale, non sarebbe possibile il funzionamento del processo produttivo. Il rapporto che esiste tra i processi storico-sociali e le strutture politiche è, per utilizzare una famosa immagine di Lev Trockij, lo stesso che esiste tra il vapore e un cilindro a pistone. Il movimento dipende dal vapore, ma senza il cilindro a pistone, il vapore si volatilizzerebbe.
Le strutture del potere possiedono una “relativa autonomia”, obbediscono cioè alle leggi specifiche della vita politica, le quali solo “in ultima istanza” sono costrette a piegarsi alle esigenze della produzione. L’adozione di questa teoria consente ad A. di formulare un giudizio complessivo sulla società contemporanea e di identificare la tendenza di fondo della storia del nostro tempo, «la tendenza verso l’unità del genere umano». È una tendenza irreversibile: «Nelle prime tappe della rivoluzione industriale la crescita dell’interdipendenza dell’azione umana si sviluppa soprattutto in profondità, all’interno degli Stati. Con la lotta liberale e democratica della borghesia contro l’aristocrazia e la lotta socialista del proletariato contro la borghesia stessa, questa fase ha prima intensificato, e poi superato, la divisione in classi antagonistiche delle società evolute. Tuttavia, a causa di questa integrazione, essa ha rafforzato contemporaneamente la divisione dell’umanità in gruppi separati costituiti dagli Stati burocratici e idealizzati, nella rappresentazione ideologica, come delle parentele di sangue o di non si sa che cosa, le “nazioni”. La crescita in estensione dell’interdipendenza dell’azione umana farà saltare la divisione dell’umanità in nazioni». Secondo A., «siamo già entrati nel corso storico che disarmerà le nazioni, unendole nella Federazione mondiale». (ivi, p. 110).
La teoria della ragion di Stato
Il materialismo storico non è sufficiente a fornire le coordinate entro le quali collocare l’analisi federalista. L’azione rivoluzionaria è un’azione politica che tende innanzi tutto a trasformare le strutture del potere. Di qui la rilevanza dell’analisi politica. A. mutua dalla teoria della ragion di Stato l’ipotesi che nella vita politica prevalgano i comportamenti che rafforzano la sicurezza e la potenza dello Stato. La componente interna della ragion di Stato è espressione dell’esigenza dello Stato di affermare la propria sovranità rispetto agli altri centri di potere esistenti sul suo territorio, di attribuire cioè al governo il monopolio della forza e allo Stato il controllo sulla società civile. La componente esterna della ragion di Stato è la conseguenza della dispersione della sovranità tra molti Stati. Con il consolidamento della sovranità dello Stato moderno, la componente esterna è diventata la manifestazione più rilevante della ragion di Stato. A causa della divisione del mondo in Stati sovrani, che non riconoscono nessun potere superiore, la forza domina nelle relazioni internazionali e la sicurezza occupa il primo posto nelle preoccupazioni dei governi. «Ne consegue», scrive A., «l’insicurezza universale e un costante stato di tensione e di preparazione militare – la situazione chiamata a buon diritto dai federalisti “anarchia internazionale” – nonché la degenerazione autoritaria degli Stati. Ne consegue inoltre il disordine economico» (Id., 1993, p. 145).
Per garantire la sicurezza, i governi sono disposti a sacrificare ogni altro valore della convivenza politica e a impiegare qualsiasi mezzo, violando, se necessario, le norme del diritto e della morale. La ragion di Stato è una forza motrice cieca e irresistibile, che non sopporta limiti e si impone a qualsiasi uomo di Stato indipendentemente dai principi ai quali ispira la sua azione. Non è la libera scelta di un valore (la guerra piuttosto che la pace, l’autoritarismo piuttosto che la libertà), ma è il riconoscimento della necessità di adattare la struttura e la politica dello Stato alle condizioni interne e internazionali della sua sopravvivenza.
Solo nell’ambito del pensiero federalista la teoria della ragion di Stato può essere pensata con rigore. «Solo la finalità della pace», nota A., «che comporta il proposito di controllare nell’interesse generale la politica di tutti gli Stati e non solo quella del proprio, fa della politica internazionale un oggetto autonomo della volontà umana. In ogni altro caso, limitandosi ciascuno al proposito di controllare direttamente solo la politica del proprio Stato, la politica internazionale dipende soprattutto dall’andamento del cozzo fra gli Stati, cioè da un fattore che trascende la volontà di tutti […] Solo la teoria del governo supernazionale, ossia la conoscenza del fatto che si possono controllare i rapporti tra gli Stati, e del modo con il quale si può far cessare il loro cozzo, configura le relazioni internazionali come un processo fatto dagli uomini e sottoposto alla scelta degli uomini, e quindi anche come un’attività la cui causa è compiutamente nota e perfettamente spiegabile» (ivi, p. 144).
La teoria della ragion di Stato non è una legge eterna della politica, ma la teoria della politica di una fase della storia: quella dell’anarchia internazionale. Il federalismo consente di stabilire «il confine entro il quale il concetto [di ragion di Stato] può e deve essere applicato». Esso «deve essere pensato come qualcosa che sta con un certo tipo di organizzazione politica del genere umano (sistema di Stati sovrani ed esclusivi, difesa armata dell’indipendenza nazionale, necessità per ogni nazione di massimizzare le sue risorse di forza, subordinazione di tutte le nazioni alla gerarchia dei rapporti di forza e di tutti i valori a quello della difesa della nazione), e cade con un altro tipo di organizzazione (federazione mondiale, indipendenza delle nazioni assicurata dal diritto, eguaglianza delle nazioni come conseguenza della eliminazione della difesa armata e quindi anche della gerarchia stabilita dai rapporti di forza)» (ibid., pp. 220-221).
La concezione materialistica della storia e la teoria della ragion di Stato sono di solito considerate incompatibili, come le correnti di pensiero che le hanno prodotte. Tuttavia, se considerate complementari, permettono di chiarire correlazioni altrimenti inspiegabili. Per esempio, il materialismo storico spiega la relazione esistente tra l’industrializzazione e la nascita dei moderni Stati burocratici di dimensioni nazionali. Ciò che spiega la differenza tra la struttura rigida e accentrata degli Stati del continente europeo e quella elastica e decentrata della Gran Bretagna è un fattore politico: la pressione militare che gli Stati subivano ai propri confini era più forte sul continente che sulle isole. È un fattore che non ha un rapporto diretto con la struttura del sistema produttivo
L’ipotesi di A. è che il materialismo storico e la teoria della ragion di Stato siano modelli complementari. Il materialismo storico consente di spiegare il rapporto esistente tra una determinata fase dell’evoluzione del modo di produrre e la dimensione e la forma degli Stati, mentre il campo di variabilità non definito dal materialismo storico sarebbe coperto dalla teoria della ragion di Stato, intesa come teoria che si fonda sul principio dell’autonomia relativa del potere politico rispetto all’evoluzione del modo di produrre. L’ipotesi della complementarità, sembra permettere di avvicinarsi maggiormente di quanto non sia in grado di fare ciascuno dei due approcci alla conoscenza e alla previsione del corso della storia.
La teoria dell’ideologia
In terzo luogo, A. sviluppa la teoria dell’ideologia, intesa come la forma che il pensiero assume nella sfera della politica. Le ideologie, sulla base della loro proiezione verso il futuro e del tentativo, mai pienamente realizzato, di giungere a una conoscenza globale della situazione storica che le ha prodotte (le ideologie hanno sempre riunito conoscenze teoriche e mistificazioni), indicano alla volontà umana un valore da realizzare e i mezzi relativi.
La parola ideologia ha due significati. «Se è inevitabile, sul piano del linguaggio comunemente usato (dopo Marx), far corrispondere al termine “ideologia” l’automistificazione politica e sociale», nota A., «non è possibile tuttavia ridurre le “ideologie” (al plurale: liberalismo ecc.) alla pura e semplice “ideologia” (al singolare: automistificazione). Non ha senso identificare in toto il liberalismo, il socialismo, ecc. con l’automistificazione. Le grandi ideologie tradizionali, sino al marxismo, sono gran parte del nostro patrimonio di cultura politica e dei nostri strumenti di conoscenza dei fatti storico-sociali, anche se è vero che si tratta di un sapere in forma non critica (senza possibilità di controllo che non siano quelle della saggezza) e se inoltre è vero che, anche a causa di ciò, è in seno a queste ideologie che si manifesta l’ideologia come automistificazione». A. imposta così il nesso fra le due nozioni di ideologia: «Come processo mentale l’automistificazione dipende […] dalla confusione tra giudizi di valore e asserzioni di fatto. Ne segue che se si distingue e si isola il valore, si fa cadere tutto ciò che è fatto travestito da valore e si ricupera tutto ciò che è valore travestito da fatto. Ciò mostra che l’automistificazione non si manifesta (o può essere eliminata) se si elabora (o si rielabora) il valore in quanto tale, cioè come il modello di una situazione desiderabile, senza confondere l’elaborazione del modello o scopo con la conoscenza dei mezzi adeguati per conseguirlo» (ivi, p. 92).
Le ideologie sono schemi concettuali che servono a conoscere la società e la storia e a orientarne il cambiamento. Definiscono un progetto politico che mette in luce il senso di un’epoca storica attraverso l’affermazione delle istituzioni e dei valori corrispondenti. L’ideologia è, secondo A., la forma che assume il pensiero politico attivo. Essa rende possibile la convergenza di pensiero indispensabile alla coesione di un gruppo politico e alla coerenza dei suoi princìpi di azione. Si distingue dal pensiero filosofico e religioso per il suo carattere attivo, cioè per il suo orientamento verso l’azione.
Il federalismo come ideologia
Poiché le istituzioni sono condizionate dalla società, la quale costituisce l’infrastruttura delle istituzioni, e queste a loro volta costituiscono strumenti di governo che servono a produrre decisioni politiche e quindi a perseguire determinati valori, una definizione completa del federalismo esige che, accanto all’aspetto istituzionale, si considerino anche l’aspetto storico-sociale e l’aspetto di valore. Se studiato da questi tre punti di vista, il federalismo si presenta come un’ideologia che ha un aspetto di struttura (lo Stato federale), un aspetto di valore (la pace) e un aspetto storico-sociale (il superamento della divisione della società in classi e in nazioni).
L’aspetto di valore del federalismo è la pace. La relazione che esiste tra il federalismo e la pace è la stessa che esiste tra il liberalismo e la libertà, la democrazia e l’uguaglianza, il socialismo e la giustizia sociale. In questa prospettiva A. ricupera la visione kantiana, la cui attualità è messa all’ordine del giorno dalla crisi dello Stato nazionale e dalla crescita al di là delle frontiere degli Stati dell’interdipendenza dell’azione umana, di cui l’unificazione europea è l’espressione più sviluppata. Questi fenomeni vanno intesi come premesse della realizzazione della pace perpetua attraverso la costruzione della Federazione mondiale. Negare, con la Federazione europea, la nazione significa negare «la cultura della divisione politica del genere umano» e significa, nello stesso tempo, affermare «nella stessa sede delle nazioni» il «modello multinazionale, […] la cultura politica dell’unità del genere umano» (ivi, pp. 288-289).
L’aspetto di struttura del federalismo è lo Stato federale, che permette di superare le strutture chiuse e accentrate dello Stato nazionale verso il basso con la formazione di vere autonomie regionali e locali e verso l’alto con la realizzazione di effettive forme di solidarietà politiche e sociali al di sopra degli Stati nazionali.
L’aspetto storico-sociale del federalismo consiste nel superamento della divisione del genere umano in classi e in nazioni antagonistiche, che apre la via verso la formazione di una società federale, nella quale il lealismo verso la società complessiva coesiste con quello verso le comunità territoriali più piccole e nessuno prevale sull’altro. Nelle società federali finora esistite questo equilibrio sociale si è sviluppato parzialmente, perché, da una parte, la lotta di classe ha fatto prevalere il senso di appartenenza alla classe su ogni altra forma di solidarietà sociale e ha impedito che si radicassero forti legami di solidarietà nelle comunità regionali e locali e, d’altra parte, la lotta tra gli Stati sul piano internazionale ha determinato il rafforzamento del potere centrale a scapito dei poteri locali.
La concezione del federalismo come ideologia non permette solo di illuminare i limiti delle concezioni riduttive, che definiscono il federalismo come una mera tecnica costituzionale (Kenneth Wheare). La critica di A. si indirizza anche contro quelle correnti, come il federalismo integrale di Alexandre Marc o di Denis de Rougemont e quella che fa capo a Daniel Elazar, che danno rilievo al solo aspetto sociale. Si tratta, secondo A., di una concezione generica e storicamente indeterminata, che colloca le origini del federalismo nella notte dei tempi, quando si costituirono le prime forme di associazione fra tribù, e ne trova tracce in ogni epoca: nelle leghe tra le città-Stato della Grecia antica, nell’Impero romano, nell’età dei Comuni dell’Italia e della Germania medievali, nel Sacro romano impero e così via.
Secondo A., la democrazia rappresentativa è un requisito essenziale delle istituzioni federali. La prima Costituzione federale è dunque quella degli Stati Uniti, mentre non hanno carattere federale le formazioni politiche precedenti, come quelle sopra ricordate, le quali, pur presentando un’articolazione territoriale del potere, non avevano una struttura democratica. Possono tutt’al più essere classificate come manifestazioni precorritrici del federalismo.
Crisi dello Stato nazionale e unificazione europea
La definizione sopra ricordata ha consentito ad A. di periodizzare le fasi di sviluppo del pensiero federalista. La prima fase, che va dalla Rivoluzione francese alla Prima guerra mondiale, è caratterizzata dall’affermazione, sia pure soltanto sul piano dei princìpi, della componente comunitaria e cosmopolitica del federalismo contro gli aspetti autoritari e bellicosi dello Stato nazionale. Nella seconda fase, che va dalla Prima alla Seconda guerra mondiale, i criteri del federalismo furono impiegati per interpretare la crisi dello Stato nazionale e del sistema europeo delle potenze. Nella terza fase, cominciata dopo la Seconda guerra mondiale e tuttora in corso, l’impiego degli schemi concettuali e degli strumenti politici e istituzionali del federalismo è necessario per risolvere la crisi dell’Europa.
È più facile comprendere il significato del federalismo se si comincia a considerarlo dal punto di vista di ciò che nega piuttosto che da quello di ciò che afferma. Le determinazioni positive della teoria federalista si sono precisate attraverso l’esperienza della negazione della divisione del genere umano in Stati sovrani e della centralizzazione del potere politico. Poiché questi fenomeni si sono manifestati nella forma più netta nell’Europa delle nazioni, il federalismo si è venuto configurando innanzi tutto come negazione dello Stato nazionale.
A. ha elaborato una nuova teoria della nazione allo scopo di demolire il paradigma naziocentrico della politica, espressione di una cultura arcaica, incapace di affrontare i grandi problemi del mondo contemporaneo. Il metodo impiegato da A. è quello di definire la nazione in base all’osservazione empirica dei comportamenti degli individui. Il comportamento nazionale è un comportamento di fedeltà. Il riferimento oggettivo di questo comportamento è lo Stato, il quale però non è pensato come tale, ma come entità illusoria, alla quale sono collegate esperienze culturali, estetiche, sportive, il cui carattere specifico non è nazionale. Perché, si domanda A., quando un italiano guarda il golfo di Napoli, dice: «L’Italia è bella»? Alla base di quest’affermazione c’è un fatto politico. Gli individui, che frequentano scuole nazionali, celebrano feste nazionali, pagano tasse nazionali, fanno il servizio militare nazionale, che li prepara a uccidere e a morire per la nazione, esprimono questi comportamenti in termini di fedeltà a un’entità mitica, la nazione, rappresentazione idealizzata degli Stati burocratici e accentrati. Questa idealizzazione della realtà è il riflesso mentale dei rapporti di potere tra gli individui e lo Stato nazionale.
A. ha esteso la nozione di ideologia, che Marx aveva collegato alle posizioni di classe, ai rapporti di potere all’interno dello Stato. Su questa base è possibile demistificare l’idea di nazione, che era nata come idea rivoluzionaria e oggi si è trasformata in un fattore di conservazione. Nella misura in cui raffigura la divisione politica tra le nazioni come giusta e naturale e persino sacra, essa contrasta la tendenza di fondo della storia contemporanea, l’internazionalizzazione del processo produttivo, che esige che lo Stato si organizzi su vasti spazi politici secondo schemi multinazionali e federali.
La negazione dello Stato nazionale da parte del pensiero federalista si è manifestata fin dall’epoca della Rivoluzione francese, cioè fin dal primo apparire dell’ideologia nazionale. Ma per lungo tempo tale negazione si è espressa solo sul piano dei principi. Nella realtà storica non si erano ancora formate condizioni tali da permettere al federalismo di presentarsi come alternativa politica all’organizzazione dell’Europa in Stati nazionali e di tradursi in azione politica.
La situazione muta con l’avvento della società industriale, e più precisamente con la seconda fase del processo di industrializzazione, che «aumenta l’intensità e la frequenza dei rapporti fra gli individui di Stati diversi, ampliando così la sfera della politica internazionale» (ivi, p. 147). A questo punto comincia a manifestarsi un fenomeno nuovo: la crisi dello Stato nazionale. Questo è il concetto sul quale si fonda l’autonomia teorica del federalismo contemporaneo. Esso occupa il posto centrale che nella teoria liberale ha il concetto di “crisi dell’ancien régime” e nella teoria socialista e comunista quello di “crisi del capitalismo”. Esso permette di individuare la contraddizione di fondo di un’intera epoca e di formulare un giudizio storico globale su di essa. È questo un concetto che tanto Trockij quanto Luigi Einaudi hanno utilizzato per spiegare la Prima guerra mondiale. L’imperialismo tedesco è inteso come l’espressione negativa del bisogno di unità dell’Europa. L’alternativa a un’Europa unificata con la violenza sta per entrambi negli Stati Uniti d’Europa. Solo dopo la Seconda guerra mondiale diventa possibile perseguire questo obiettivo.
L’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) rappresenta il problema storico che sta al centro dell’elaborazione teorica di A. Egli ha elaborato una grande quantità di categorie analitiche che costituiscono un complesso apparato concettuale necessario a dominare teoricamente e praticamente il processo. Non c’è spazio, in questa sede, per illustrarne tutti gli aspetti. Ci limiteremo quindi a tracciarne le linee di fondo.
Dopo la Seconda guerra mondiale gli Stati nazionali «non sono più in grado di far fronte da soli ai due compiti fondamentali che si pongono a ogni Stato: quelli dello sviluppo economico e della difesa dei cittadini». Di qui la crisi del consenso verso le istituzioni nazionali. Ne consegue che i governi nazionali «si trovano permanentemente di fronte all’alternativa dell’impotenza nella divisione e della forza nella unità […] La loro stessa ragion di Stato […] li obbliga, senza via di scampo, a risolvere insieme i problemi» (ivi, p. 237).
Nel 1968 A. giunge alla conclusione che l’integrazione europea ha ormai assunto un «carattere irreversibile». Così argomenta questa asserzione: «L’integrazione nell’ambito dei Sei non è che lo stadio più avanzato di un processo più vasto di integrazione dell’attività umana a livello mondiale che sembra rivesta il carattere di un nuovo ciclo storico al suo inizio, ossia quello di una forza storica irreversibile. Un’evoluzione di questo genere non esclude, ovviamente, la possibilità di crisi, o addirittura di periodi di arresto e di involuzione, che potrebbero anche riguardare, in ipotesi, lo stesso Mercato comune [v. Comunità economica europea]. Ma esclude, in linea di principio, la possibilità di un ritorno stabile a forme di mercato nazionale chiuso». E conclude che l’irreversibilità del processo dipende «dall’evoluzione stessa del modo di produrre, cioè da un fatto storico primario» (ivi, p. 235).
A. ha dedicato gran parte delle sue energie intellettuali allo studio dell’unificazione europea, intesa come la prima espressione del corso sovrannazionale della storia. Il federalismo è la teoria che consente di conoscere e di controllare questo processo. Esso ha un ruolo analogo a quello svolto in passato dalle ideologie liberale, democratica e socialista: attraverso l’elaborazione e l’affermazione della cultura della pace, propone un progetto di società capace di dare una risposta ai maggiori problemi della nostra epoca e riapre la possibilità di pensare l’avvenire, che si era offuscata nell’ambito delle ideologie tradizionali a causa dell’esaurimento della loro spinta rivoluzionaria.
La Federazione europea si collocherà «sul terreno della negazione della divisione politica del genere umano». Questa è, secondo A., «la cosa storicamente più importante. La cultura nazionale, come teoria della divisione politica del genere umano, è la cultura che ha legittimato nei fatti, mistificando il liberalismo, la democrazia e il socialismo, sovietico o non, il dovere di uccidere. La cultura della negazione della divisione politica del genere umano è la negazione storica di questo dovere; è l’affermazione, nella sfera del pensiero, del diritto politico, e non solo spirituale, di non uccidere, e perciò il quadro storico della lotta per affermarlo anche in pratica, al di là della Federazione europea, con la Federazione mondiale» (ivi, p. 135).
Il gradualismo costituzionale
L’unità europea, come era stata pensata da Spinelli durante la Seconda guerra mondiale nel confino di Ventotene (v. anche Manifesto di Ventotene), non era una semplice previsione storica. Era l’obiettivo di un’azione politica. Dopo la guerra, essa divenne progressivamente una realtà economica e istituzionale, basata sull’interesse dei governi a collaborare tra di loro e a promuovere una politica di integrazione.
In relazione a questi sviluppi, l’obiettivo strategico che il MFE scelse fin dalla fondazione – materializzare l’adesione dei cittadini all’unità europea attraverso campagne di agitazione dell’opinione pubblica per preparare la convocazione di un’Assemblea costituente europea – si modifica nella prospettiva del «gradualismo costituzionale». Questa espressione, coniata da A., indica una svolta nella strategia federalista, che abbandona il massimalismo delle origini, trae una lezione dal successo del gradualismo economico e colloca l’obiettivo costituente alla fine di una serie di atti costituzionali intermedi, che rappresentano altrettante tappe della costruzione della Federazione europea. Queste tappe sono le Elezioni dirette del Parlamento europeo e la moneta unica (v. Unione economica e monetaria; Euro). A. individuò in anticipo quegli obiettivi e il MFE e l’UEF contribuirono a realizzarli, costruendo lo schieramento di forze politiche e sociali e il consenso dell’opinione pubblica necessari.
Il federalismo e le altre ideologie
La finalità della pace qualifica il federalismo come ideologia indipendente. La posizione verso la pace e la guerra distingue il federalismo dalle altre ideologie.
I teorici liberali, democratici e socialisti, quando hanno pensato all’avvenire delle relazioni internazionali, hanno immaginato che i popoli, divenuti padroni del loro destino grazie alla liberazione dal dominio monarchico e aristocratico o da quello borghese e capitalistico, non avrebbero più fatto ricorso alla guerra. Ciò che accomuna il liberalismo, la democrazia e il socialismo è la visione della politica internazionale chiamata internazionalismo, che interpreta la politica internazionale con le stesse categorie con le quali spiega la politica interna, imputa le tensioni internazionali e le guerre esclusivamente alla natura delle strutture interne degli Stati e considera la pace come una conseguenza automatica e necessaria della trasformazione delle strutture interne degli Stati. L’internazionalismo è una concezione politica che, dal punto di vista teorico, non riconosce autonomia al sistema politico internazionale rispetto alla struttura interna degli Stati e alla politica estera rispetto alla politica interna e, dal punto di vista pratico, considera prioritario l’impegno per realizzare la libertà e l’uguaglianza all’interno dei singoli Stati e assegna un ruolo subordinato agli obiettivi della pace e dell’ordine internazionale.
Al contrario, il pensiero federalista individua nell’anarchia internazionale il fattore che impedisce di consolidare la libertà, la democrazia e la giustizia sociale all’interno degli Stati e indica nella pace, cioè nella creazione di un ordine giuridico internazionale, la condizione per sconfiggere le tendenze bellicose e autoritarie sempre latenti nello Stato. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento del punto di vista ancora oggi prevalente, che considera prioritaria la riforma dello Stato rispetto all’obiettivo dell’ordine internazionale e ha l’illusione che la pace possa essere la conseguenza automatica dell’affermazione dei principi liberali, democratici e socialisti all’interno dei singoli Stati.
In definitiva, «mentre l’affermazione storica di ciascuna di queste ideologie costituisce una delle premesse della pace, la pace, a sua volta (come governo mondiale) costituisce la premessa necessaria della loro realizzazione completa, ciò mostra immediatamente che non si può costruire la pace con il semplice rafforzamento di queste ideologie» (ivi, p. 171).
La relazione tra il federalismo e le altre ideologie non è competitiva, ma complementare. Il federalismo «non si presenta come un’ideologia alternativa al liberalismo, alla democrazia e al socialismo che, avendo espresso e organizzato la liberazione della borghesia, della piccola borghesia e del proletariato, hanno assunto storicamente forme antagonistiche e reciprocamente esclusive, limitando così la realizzazione stessa dei loro valori di libertà e di uguaglianza – che in quanto tali sono complementari e non alternativi. Ne segue che il federalismo […] può svilupparsi solo collaborando ad un’affermazione sempre più completa dei valori di libertà e di uguaglianza mediante quello della pace, che solo nel federalismo trova la sua sistemazione morale, istituzionale e storica» (ivi, pp. 181-182).
Modelli normativi e filosofia della storia
Lo studio del federalismo ha rivelato l’esistenza di un aspetto di valore di questo concetto. Si tratta di una caratteristica propria di tutti i concetti cruciali del vocabolario politico a partire dalla parola “politica”. Machiavelli aveva osservato che i conflitti politici possono essere risolti con mezzi legali o con mezzi violenti. Questo fatto si presenta come una lacerazione nel tessuto della convivenza politica e una contraddizione nei significati della vita politica. L’analisi empirica della politica, che si limita a osservare la realtà com’è, si manifesta come un approccio parziale, che rinvia all’idea di un obiettivo non raggiunto: la politica emancipata dalla violenza.
A. aveva cominciato la sua riflessione sulla politica elaborando le proprie categorie nell’ambito della scienza politica, ma ben presto si rese conto che l’approccio descrittivo o empirico non consentiva di giungere a un’analisi completa dei problemi della politica. Secondo A., «La politica non è veramente sé stessa se lascia sussistere, accanto alla sfera dei rapporti veramente giuridici, una sfera di rapporti di forza e di sopraffazione […]. Questa idea […] della politica, pur essendo un aspetto costante del processo storico, cioè proprio un aspetto […] della politica nel suo farsi, non è ancora diventata uno degli elementi della conoscenza positiva della realtà sociale. Questa idea è ancora confinata nei campi dell’utopia e dell’ideologia […] Lo studio positivo dei fatti, d’altra parte, resta a sua volta confinato nel cosiddetto ‘realismo’ […], che in verità non è affatto realistico ma riduttivo perché non sa considerare reali gli ideali» (Id., 1974, pp. 105-106).
Lo studio di autori come Kant, per quanto riguarda la pace, e Pierre-Joseph Proudhon, per quanto riguarda la proprietà, mette in luce la possibilità di superare i limiti teorici di un esame separato dei due aspetti della politica. «Partendo da un dato primario di osservazione, le caratteristiche empiriche» dei rapporti di forza, che si manifestano rispettivamente nella proprietà o nelle relazioni internazionali, «e da un fatto primario teorizzabile, la trasformazione rivoluzionaria del comportamento umano, Proudhon ha potuto dimostrare che […] l’economia diventa se stessa, cioè può fondarsi davvero sul lavoro se, e solo se, svolgendosi sulla base del diritto e non sulla base di uno scontro degli interessi allo stato brado, toglie di mezzo la sopraffazione dei deboli da parte dei forti» (ivi, p. 106), e Kant ha potuto dimostrare che la politica diventa se stessa se, espulsa la violenza dalle relazioni internazionali, ogni Stato, anche il più piccolo, possa sperare la propria sicurezza e la tutela dei propri diritti non dalla propria forza, ma solo dalla forza collettiva di una grande Federazione di popoli. In definitiva, Proudhon e Kant pensavano che i rapporti di forza appartenessero alla sfera della patologia sociale e che i modelli normativi da essi elaborati rappresentassero «nel loro insieme il modello della società (fisiologia sociale)» (ivi, p. 107).
La disposizione mentale di A. verso la politica è quello dello scienziato, ma di uno scienziato che ha un atteggiamento attivo verso la politica. Ebbene, la politica è espressione del «tentativo di sottoporre il futuro ai piani della ragione. Ciò comporta, tra l’altro, che si ammetta la presenza della ragione nella storia (cioè che la storia abbia un senso); e comporta anche che si scelga di fatto il progresso – invece di chiedersi in astratto se è possibile o impossibile – evitando così l’errore catastrofico di applicare la ragione a tutto meno a ciò che decide di tutto, il corso della storia» (Id., Nazionalismo, 1999, p. 144).
A. ha dedicato una gran parte del suo lavoro teorico alla discussione dei modelli normativi, in particolare a quello della pace, che ha consentito di definire i lineamenti più generali del progetto federalistico.
La teoria della pace
Ricuperando la lezione kantiana che indica nella pace la finalità ultima del corso della storia, A. costruisce la teoria della pace come un modello normativo. La pace è il valore che consente di dare un ordine razionale al mondo e un senso alla storia. Essa è definita da Immanuel Kant in termini nuovi, che si allontanano dall’accezione che la parola ha ancora oggi: la pace intesa come mancanza di ostilità o come sospensione delle ostilità nell’intervallo tra due guerre (pace negativa). Secondo Kant, la pace non è uno stato di natura, ma è qualcosa che dev’essere istituito attraverso la creazione di un ordinamento giuridico e garantito da un potere superiore agli Stati (pace positiva). Definendo la pace come l’organizzazione politica che rende la guerra impossibile, Kant traccia una nuova linea di divisione tra pace e guerra e colloca la tregua (cioè la situazione nella quale, anche se sono cessate le ostilità, permane la minaccia che si riaprano) sul versante della guerra.
Tuttavia il dogma sul quale si fonda tuttora il pensiero politico dominante è che la nostra nazione costituisce il centro dell’universo politico. Il paradigma Stato-centrico considera la politica dal punto di vista dell’interesse nazionale e della sua promozione e non da quello del bene comune dell’umanità. Da una parte, nota A., «il mondo degli Stati […] è il mondo della guerra». D’altra parte, «all’interno di ogni Stato la politica è proprio l’attività con la quale si risolvono pacificamente i conflitti». Inoltre, «la storia presenta […] una tendenza costante verso l’allargamento della dimensione degli Stati, cioè verso la trasformazione di precedenti aree di guerra in aree di pace interna». Se la politica è «il processo di eliminazione graduale delle guerre, […] la guerra è l’espressione dell’imperfezione della politica e la pace è espressione della perfezione della politica» (ivi, p. 169).
A. ha sviluppato in diverse occasioni analisi sulla natura della Federazione mondiale. Qui ricordiamo quella che mette in relazione il governo mondiale con il controllo del processo storico. «Con l’idea del governo mondiale», osserva A., «acquisiamo la possibilità di pensare distintamente il processo storico non controllato e quello controllato. In questo caso […] la volontà generale, che si forma ormai anche a livello mondiale, non deve più sottostare alla necessità (come cozzo internazionale delle volontà nazionali). La volontà politica passa pertanto dalla sfera dell’eteronomia a quella dell’autonomia. E ciò comporta, nel contempo, il passaggio da una storia di carattere deterministico a una storia guidata dalla libertà» (ivi, p. 167). Con il governo del mondo, la politica mondiale cessa di essere il risultato dello scontro anarchico tra gli Stati e può diventare oggetto di scelte libere e democratiche. I fini della politica non sono più scelti sotto la pressione della necessità, ma dalla ragione.
Lucio Levi (2010)