Associazione Europea di Libero Scambio
Alla fine del 1955 il rappresentante britannico nel Comitato Spaak (istituito alla Conferenza di Messina) abbandonò i negoziati che avrebbero portato alla firma del trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattati di Roma). Hugh Ellis-Rees, Presidente del Consiglio dei Ministri dell’OECE (Organizzazione europea per la cooperazione economica) spiegò ai capi delegazione le ragioni che avevano condotto gli inglesi a questa decisione: «Mentre noi abbiamo lavorato per l’adozione di principi generali per una maggiore libertà negli scambi e nei pagamenti su basi sempre più ampie, la creazione del Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea), come predisposto attualmente, costituirebbe un gruppo esclusivo e in questa veste potrebbe portare alla costituzione di un blocco discriminatorio» (v. Ducci, 1970). Il governo britannico, in realtà, non sentiva allora forti affinità con il continente europeo, mentre più intensi legami lo univano agli Stati Uniti e all’impero.
Pertanto, dopo la pubblicazione del Rapporto Spaak, accettato dai sei membri quale base per i loro futuri negoziati, nel luglio del 1956 il Consiglio dell’OECE decise di istituire, su proposta britannica, uno speciale comitato di lavoro – il Working party n. 17 – al fine di studiare le forme e i metodi di associazione tra i Sei e il resto dell’OECE. La prima proposta ufficiale per la costituzione di un’area di libero scambio (European free trade association – EFTA) fu infatti avanzata da Harold Macmillan (allora ministro dell’Economia) in sede OECE nell’ottobre del 1956. Nei mesi successivi Macmillan prese contatti con i singoli membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per sondare eventuali aperture, mentre il negoziato venne avviato in forma ufficiale nel febbraio del 1957.
Dato che gli inglesi non potevano accettare la possibilità di condividere una parte di sovranità con le altre nazioni europee o siglare con esse un’unione doganale soggetta a un controllo sopranazionale, la loro idea era quella di elaborare un piano alternativo, nella speranza che potesse rappresentare un progetto verso il quale sarebbero potuti convergere i Sei di Messina. Tale progetto venne però percepito come un tentativo di minare la costituenda Comunità economica europea («una macchinazione inglese per sabotare i negoziati CEE») ed essendo per di più dotato di clausole economiche insoddisfacenti non rappresentò in nessun momento una probabile alternativa o un potenziale accordo complementare a quello del Mercato comune (MEC; v. Fauri, 1996). Contrariamente alle speranze britanniche, che contavano seriamente sull’effetto EFTA per destabilizzare i negoziati, i Sei condussero a termine con successo le trattative per la Comunità economica europea e firmarono nel marzo del 1957 i Trattati di Roma (v. Kaiser, 1996).
I negoziati per l’istituzione di un’area di libero scambio proseguirono, ma su basi alquanto fragili: ai Sei non piaceva l’idea di un accordo che escludesse l’agricoltura e non prevedesse una Tariffa esterna comune (TEC). L’agricoltura andava lasciata fuori dall’accordo EFTA in quanto il Regno Unito preferiva continuare a rifornirsi di beni agricoli dall’impero. L’agricoltura inglese soddisfaceva solo per metà le richieste dei consumatori britannici; il resto veniva importato, per la gran parte dai paesi del Commonwealth, i quali vantavano un accesso agevolato al mercato inglese grazie alle preferenze imperiali. L’altra caratteristica peculiare alla base dell’accordo di libero scambio era quella di non prevedere una tariffa esterna comune. In questo modo, date le diverse aliquote daziarie, i beni potevano entrare nell’EFTA a prezzi differenti, con il rischio di essere successivamente rivenduti nei paesi membri con tariffe più elevate, a prezzi più convenienti. A rimetterci sarebbe stato il MEC che aveva una TEC più elevata, mentre la Gran Bretagna avrebbe beneficiato dei bassi dazi e, in certi casi, addirittura nulli, sulle materie prime importate dall’impero. Il ministro italiano Guido Carli suggerì un complicato piano (noto come “Carli plan”) per trovare un compromesso sulla TEC e avviare una lenta armonizzazione tariffaria, ma era troppo macchinoso per avere successo.
Da una parte, quindi, vi era la Gran Bretagna che non voleva accettare l’idea di una tariffa esterna comune che avrebbe indubbiamente aumentato il costo dei prodotti alimentari provenienti dal Commonwealth, dall’altra, vi erano i Sei che non ammettevano la possibilità che gli inglesi importassero prodotti agricoli e materie prime dall’impero a un prezzo più conveniente rispetto al resto d’Europa. I negoziati fra i membri del MEC, la Gran Bretagna e gli altri paesi interessati (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera), continuarono sino al novembre del 1958, quando i francesi dichiararono apertamente che senza un’unica tariffa comune attorno ai confini dei futuri membri e senza la possibilità di un’armonizzazione nella sfera economica e sociale, non sarebbe stato possibile continuare i negoziati. Il rifiuto francese condizionò tutti i membri della CEE, i quali, in realtà, si appoggiarono volentieri al categorico rifiuto francese in quanto nessuno di loro aveva mai considerato l’eventualità di mettere in crisi il Tratto di Roma scegliendo la soluzione britannica.
L’atto istitutivo dell’EFTA venne infine firmato il 4 gennaio 1960 da Gran Bretagna, Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia e Svizzera, con l’obiettivo di creare un’area priva di restrizioni al commercio interstatale. Nel 1961 vi aderì la Finlandia e nel 1970 l’Islanda, mentre negli anni successivi lasceranno l’area di libero scambio per accedere alla CEE: Gran Bretagna, Danimarca, Portogallo, Austria, Finlandia e Svezia.
Al 2008 l’EFTA è composta da soli quattro membri: Liechtenstein (dal 1991), Islanda, Norvegia e Svizzera. All’interno di quest’area possono circolare liberamente prodotti agricoli e industriali, incluso il pesce. Elemento portante di tale istituzione, in mancanza di una TEC, è la possibilità di stabilire l’origine dei singoli prodotti esportati da un paese membro all’altro. Le regole preposte a tale scopo indicano quali beni possono circolare liberamente fra gli Stati membri. Solo prodotti “interamente fabbricati” o “sufficientemente lavorati” in uno Stato membro possono godere dell’accesso preferenziale agli altri mercati, anche se la globalizzazione del processo produttivo ha reso oggi sempre più difficile l’identificazione del paese di origine di un prodotto e pochi beni sono fabbricati senza input di origine esterna. Di conseguenza, una delle funzioni principali delle regole di origine è determinare in quale proporzione il bene di produzione nazionale può contenere materiali importati da paesi al di fuori dell’EFTA. Solo se il prodotto rientra nei parametri stabiliti dalle regole di origine esso non perde lo status preferenziale all’interno dell’area di libero scambio, altrimenti, se gli input esterni sono determinanti, non può circolare liberamente. Per concludere, va notato che nel 2005 il commercio intra-EFTA sul totale degli scambi dei quattro paesi membri aveva una incidenza modesta, pari allo 0,63% (v. EFTA, 2006).
Francesca Fauri (2008)