Baffi, Paolo
B. (Pavia 1911-Roma 1989) nel 1932 si laurea in economia e commercio alla Università Bocconi di Milano dove, dal 1933, diventa assistente di Giorgio Mortara alla cattedra di Statistica. Nel 1936 entra al Servizio studi della Banca d’Italia, che poi dirigerà dal 1945 al 1956.
In quegli anni diviene membro della Commissione economica presso il ministero per la Costituente, presieduta da Giovanni Demaria. Dopo il 1956 diviene Consigliere economico della Banca d’Italia e della Banca per i regolamenti internazionali. Dal 1960 è nominato direttore generale della Banca d’Italia di cui diviene governatore quando, nel 1975, Guido Carli passa alla guida di Confindustria.
Anche se l’ interesse di B. per la questione della compatibilità fra vari regimi di cambio e la politica economica, in particolare quella monetaria, si sviluppa negli anni Cinquanta e Sessanta (v. Baffi, 1957; Id., Studi, 1965; Id., Considerazioni, 1968), è principalmente nel corso degli anni Settanta (quando diviene anche professore incaricato di Storia e politica monetaria presso la facoltà di Scienze politiche di Roma) e soprattutto nel periodo del governatorato che assume un ruolo importante nel dibattito sul processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
Sono gli anni successivi al crollo del sistema monetario internazionale fondato sul dollar-exchange standard ereditato dalla conferenza di Bretton Woods del 1944. Il passaggio a un regime generalizzato di cambi flessibili permette certo di svalutare per risollevare le esportazioni, ma al costo di creare maggiore incertezza, favorendo la speculazione sul mercato internazionale dei capitali, e di accrescere l’inflazione, particolarmente dannosa in un’economia di trasformazione fortemente esposta alle importazioni come quella italiana.
Sono anche gli anni dell’austerità, della crisi della bilancia dei pagamenti, dei prestiti del Fondo monetario internazionale che chiedono come contropartita il controllo di un nuovo aggregato monetario, piuttosto inconsueto per l’Italia: il credito totale interno. Diventa quindi sempre più aspro e diretto il contrasto e l’effetto-spiazzamento reciproco tra finanziamento del settore pubblico e di quello privato. Vincoli monetari esterni e gradi di manovra della politica nazionale si trovano così sempre più ai ferri corti, lasciando spazi di manovra che vengono ancor più schiacciati dalle pressioni espansive di una classe politica che, al di là di spinte clientelari, deve oggettivamente fare i conti con una situazione sociale particolarmente turbolenta (non dimentichiamo che stiamo parlando degli anni più bui dell’esperienza terroristica nazionale).
Proprio nel ruolo di governatore B. si trova quindi ad affrontare in maniera diretta e concreta la propria posizione nei confronti di un progetto di rilancio del processo di integrazione europea, quello del Sistema monetario europeo (SME).
Non v’è dubbio che B. fu tra i maggiori e più coerenti rappresentanti dell’opposizione allo SME, ma si tratta di un giudizio che deve essere qualificato. In quanto rappresentante della già difficile autonomia dell’autorità monetaria in Italia, B. era convinto che un sistema di cambi fissi, anche se con parità aggiustabili, non fosse coerente con l’assetto istituzionale della politica economica in Italia.
Con governi che, in risposta alle tensioni sociali e alle profonde crisi strutturali degli anni Settanta, aprivano il cordone della borsa e con un meccanismo di collocazione del debito pubblico che poneva una responsabilità alla Banca d’Italia come acquirente residuale obbligatorio del Tesoro, era evidente la difficoltà di trovare coerenza fra obiettivi interni (crescita del reddito, piena occupazione, bilanci in ordine) ed esterni (pareggio di bilancia dei pagamenti) di politica economica.
La politica monetaria si sarebbe trovata, in presenza di un vincolo di cambio, a servire due padroni che solo casualmente avrebbero potuto condividere gli stessi obiettivi. Secondo B., in un sistema economico caratterizzato da rigidità istituzionali di varia natura (spesa pubblica governativa e locale, rivendicazioni salariali ecc.) le autorità monetarie avevano il compito di veicolare le aspettative degli agenti economici con azioni discrezionali. Aggiungere un ulteriore grado di rigidità al sistema poteva significare il tracollo: perdita di credibilità, di competitività, di strumenti insomma indispensabili per la conduzione della politica economica.
In tale atteggiamento, B. appare inizialmente in assoluta continuità con lo schema neoricardiano ufficialmente portato avanti da Carli: in presenza di un sistema salariale che fissa le retribuzioni in maniera indipendente dall’andamento della produttività ed anzi perfettamente indicizzate all’inflazione, la politica monetaria era destinata al fallimento, e anche i tentativi di moderazione salariale potevano avere successo solo in presenza di «costanza della spesa pubblica e flessibilità del cambio» (v. Baffi, Disavanzo, 1976, p. 447).
Ma nel corso degli anni lo scetticismo di B. verso ogni disegno di integrazione monetaria in Europa viene argomentato facendo sempre più ricorso alla letteratura sulle aree monetarie ottimali, essenzialmente nella versione originaria (ci riferiamo al noto saggio di Robert Mundell del 1961, A theory of optimum currency areas), peraltro largamente utilizzata nel dibattito (v. Masini, 2004) sullo SME da coloro che avversavano tale scelta. Secondo tali teorie, un’area composta da più Stati poteva passare ad un accordo valutario, o a una moneta unica, solo con un efficiente mercato dei fattori, soprattutto del lavoro. In presenza di shock asimmetrici, se i salari non fossero stati flessibili e il lavoro mobile sul piano territoriale, si sarebbe rischiato di mettere a repentaglio la credibilità e quindi la tenuta del cambio, oltre che alimentare speculazioni sulle valute più deboli.
Su queste basi, B. giudicava la Comunità economica europea un’area monetaria non ottimale. Per sostenere un sistema di cambi sostanzialmente fissi occorreva, come ebbe a ribadire con forza in più occasioni nelle varie “Considerazioni finali” all’assemblea di BankItalia e soprattutto nel corso di un’audizione alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato (v. Baffi, I cambi, 1978), aumentare i margini di oscillazione dei cambi bilaterali, istituire e fornire liquidità ad un Fondo monetario europeo a favore delle operazioni di sostegno delle banche centrali, accrescere la dotazione dei fondi strutturali a fini di redistribuzione del reddito.
Senza queste condizioni, un sistema economico pieno di rigidità come quello italiano sarebbe stato spazzato via ai primi venti della speculazione internazionale o di shock asimmetrici, sia quelli comunemente considerati nella letteratura sul lato della domanda, sia sul lato dell’offerta (come gli shock energetici e tecnologici).
Mentre però la maggior parte dell’intellighenzia politica ed economica del paese credeva fermamente nell’effetto benefico dell’integrazione europea come veicolo di comportamenti virtuosi, nel senso che i soggetti responsabili delle rigidità del sistema Italia sarebbero state costretti a rivedere i propri atteggiamenti, B. era pessimista nei confronti della possibilità che il vincolo esterno costituito dall’accordo di cambio potesse scardinare le tare ataviche del sistema istituzionale italiano. Non credeva, in particolare, che avrebbe posto dei freni agli abusi del potere politico su quello economico. Questo suo profondo scetticismo lo etichettò nel tempo in maniera indelebile come un avversario del processo di integrazione europea, come egli stesso ebbe a lamentarsi con Carli (v. Carli, 1993, p. 353).
Certo la sua vicenda personale non poteva fornirgli ottimismo nei confronti del tessuto civile, politico e istituzionale italiano: proprio mentre prendeva avvio l’esperimento del sistema monetario europeo, B. pagava in prima persona la colpa di aver disposto un’ispezione bancaria “scomoda” che lo portò a una denuncia alla Procura per abuso di potere e al ritiro del passaporto.
Una vicenda dalla quale fu poi completamente dichiarato estraneo, ma che ormai aveva colpito irrimediabilmente alle fondamenta la fiducia dell’uomo pubblico, il quale accettò probabilmente con disincanto la carica di governatore onorario, l’incarico di professore ordinario di Politica monetaria alla Sapienza e la presidenza della Società italiana degli economisti dal 1980 al 1982. Fu ancora consigliere e poi vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali.
Nei suoi ultimi anni B. fu ancora una volta dalla parte “storicamente perdente” del percorso di integrazione europea. Di fronte alle tesi di coloro che spingevano per un passo istituzionale concreto verso una moneta unica in Europa (che sarebbero sfociate nel Rapporto Delors del 1989 e divenute poi il “manuale” per l’adozione dell’euro), B. aderì alle tesi della concorrenza monetaria (nella versione proposta coi contributi di Hayek degli anni Settanta, riportata alla superficie del dibattito pubblico negli anni Ottanta da Vaubel), come testimoniano articoli sui quotidiani dell’epoca e una lettera a Carli (v. Carli, 1993, p. 358).
Una tesi, quella della concorrenza fra valute e della moneta parallela, che negli anni Settanta aveva avuto il merito di rilanciare il processo di integrazione in Europa, ma che nel 1989 appariva ormai una battaglia di retroguardia e si apprestava infatti a essere utilizzata dal governo inglese per contrastare il progetto di moneta unica proposto dal Comitato Delors (v. Delors, Jacques).
Protagonista nel dibattito e nel potere istituzionale relativo al percorso di integrazione europea, B. potrebbe insomma essere definito un antieroe di quel disegno istituzionale, testimone e latore di timori troppo grandi di fronte a un processo storico di tale portata, che richiedeva (e tuttora richiede) una lucida follia per essere portato a compimento. Una follia che la figura di uno studioso rigoroso come B. certo non poteva che rifuggire.
Fabio Masini (2010)