«La pace non sarà garantita se il problema tedesco non troverà soluzione in un quadro generale», dichiara Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, il 6 dicembre 1944 davanti alla Camera dei deputati. «Per assicurare la pace», continua Spaak in questo celebre discorso, «bisogna costruire l’edificio che la manterrà». Questo comporta tre livelli: «Quello che domina e comprende gli altri due si chiama sicurezza collettiva. Il livello intermedio potrebbe essere definito alleanza europea, l’altro intese regionali» (v. Spaak, 1980, p. 59).
A qualunque livello ci si ponga, gli Stati devono capire che «non può esserci un’organizzazione efficace se non viene corretto il principio di sovranità nazionale assoluta e integrale». Ma, essendo impossibile chiedere «a ogni paese di sottoscrivere gli stessi obblighi in ogni angolo del mondo», è indispensabile che «le intese regionali siano una sorta di organo esecutivo della politica di sicurezza collettiva». Infine, parlando specificamente del Belgio, Spaak sottolinea «che il tempo in cui era possibile separare gli interessi politici del paese dai suoi interessi economici è completamente superato». Sicurezza politica e prosperità economica devono coincidere e, in quest’ottica, «o il Belgio vedrà accrescersi il suo spazio economico, o conoscerà ore difficili».
Questo discorso, che è anche un programma, è il frutto dell’esperienza accumulata in una trentina d’anni che hanno coinciso, dall’inizio della Prima guerra mondiale alla fine della Seconda, con un mutamento profondo dello scenario internazionale e hanno costretto i paesi piccoli, in particolare, a rivedere radicalmente le proprie posizioni e a elaborare una nuova “dottrina”.
Precisando che è necessario tener conto dell’evento fondamentale, rappresentato dall’indipendenza del Congo belga nel 1960, in termini di immagine ma soprattutto di perdita di una carta vincente sulla scena internazionale, questa “dottrina” può essere delineata come segue.
Il Belgio ritiene che il suo ruolo sia tutt’altro che trascurabile, a patto che vengano soddisfatte quattro condizioni: partecipare a intese fondate su regole di cooperazione e non di dominio; «esercitare all’interno di questi organismi una diplomazia della relazione e della concertazione, che dia ai rappresentanti belgi una posizione relativamente forte grazie alla continuità delle funzioni nel capo di questi rappresentanti, alle relazioni e alla capacità di farsi ascoltare che possono acquisire, alla conoscenza che hanno di possibilità di intraprendere iniziative realistiche»; identificarsi all’interno delle istituzioni con le finalità di queste ultime, piuttosto che adottare «una posizione di richiesta costante di tutela di interessi particolari di ordine economico o finanziario, o ancora di sollecitazione di appoggi diplomatici»; «intervenire con proposte ragionevoli […] senza dissipare il proprio credito moltiplicando le iniziative su qualsiasi argomento» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 3).
In altre parole, il Belgio che insiste sulla necessità di rispettare le regole e i meccanismi istituzionali vigenti, dà prova di una certa volontà di potere tipica dei piccoli Stati che trovano nella Comunità un mezzo per costringere i Grandi al compromesso.
La traduzione, assolutamente pacifica (v. anche Neutralità), di questa volontà di potere è la capacità d’influenza, che presuppone che il Belgio sia riconosciuto come un membro leale dell’organizzazione di cui fa parte. Sul piano europeo, dove la sua influenza è da lungo tempo superiore alle sue dimensioni e al suo peso reale, il Belgio non ha alcuna difficoltà a “partecipare al gioco”, dato che i suoi interessi economici vanno spesso in direzione dell’integrazione (v. Integrazione, metodo della).
Questa valutazione generale richiede, tuttavia, una qualche rettifica per quanto riguarda il periodo precedente ai Trattati di Roma. In effetti, se il Belgio, con il Lussemburgo, ha costituito quel “laboratorio dell’Europa” che è il Benelux, ricavandone importanti dividendi, e inoltre, dal patto di Bruxelles del 1948 in poi, ha svolto un ruolo trainante in termini di alleanze regionali, bisogna tuttavia sottolineare il fatto che il suo contributo alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alle iniziative successive non sarà esente da difficoltà.
Il Piano Schuman solleva forti resistenze negli ambienti industriali belgi, a causa della solidarietà esistente fra l’industria carbonifera e la siderurgia per il tipo di controllo finanziario esercitato su entrambi i settori dalle due grandi holding finanziarie – Société générale de Belgique e Société de Bruxelles pour la finance et l’industrie (Brufina). La vivace opposizione dell’industria carbonifera è legata, in particolare, alle gigantesche operazioni di modernizzazione richieste dagli impianti minerari valloni. Il fatto è che, come scrive il segretario generale del ministero degli Affari economici, Jean-Charles Snoy et d’Oppuers, nel giugno 1950: «Con o senza il Piano Schuman, il problema carbonifero belga dev’essere risolto!» (v. Dumoulin, 1988, p. 273).
Ma le resistenze non provengono solo dagli ambienti carboniferi, che trascinano anche quelli siderurgici. Nel 1950, il Belgio risolve la dolorosa questione della monarchia, con il passaggio dei poteri reali da Leopoldo III al figlio Baldovino, che salirà al trono l’anno seguente. Sul piano costituzionale, cioè l’ambito che al centro del dramma tra il 1940 e il 1950, non è previsto, come nella costituzione di altri paesi che saranno ben presto membri della CECA, una rinuncia alla sovranità nazionale a beneficio di istanze inter o sovranazionali. Questa situazione induce il ministro belga degli Esteri Paul van Zeeland a ottenere l’inserimento, nel Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, della clausola per cui la CECA si costituisce per una durata di 50 anni.
Quest’iniziativa, che rappresenta una garanzia agli occhi del Belgio, è anche il segno di una estrema prudenza, addirittura di una certa diffidenza, nei confronti di qualsiasi attentato alla sovranità nazionale. Fra il 1951 e il 1957 numerosi elementi denotano le difficoltà dell’ingresso del Belgio in Europa, malgrado le maggioranze parlamentari incoraggianti raggiunte in occasione delle votazioni relative ai progetti di legge che approvano i trattati.
Assai reticente nei riguardi della sovranazionalità della CECA, van Zeeland fino all’aprile 1954 avanza numerose difficoltà in merito alla Comunità europea di difesa (CED), in un primo tempo, e al progetto di statuto della Comunità politica europea (CPE), in seguito, a tal punto che i federalisti (v. Federalismo) l’accuseranno di essere stato «il sottomarino responsabile del siluramento della CPE» (v. Dumoulin, Dujardin, 1997, p. 197). Ma il ministro degli Esteri, che da un lato è fautore di una cooperazione europea limitata all’applicazione dei principi del libero scambio e dall’altro teme per ragioni attinenti alla politica interna che una revisione della costituzione riapra la questione reale, non è il solo a manifestare diffidenza. Il giovane Baldovino I, nell’agosto 1954, esprime la sua opposizione all’organizzazione, a Bruxelles, della conferenza che rappresenta l’ultima chance per la CED, annunciando che sarà in vacanza e quindi non potrà ricevere i partecipanti alla riunione, come impone la più elementare cortesia. Ancora nel febbraio 1957 il re minaccia di non firmare i Trattati di Roma.
Dal 1954 al 1957 il portafoglio degli Esteri cambia di mano; lo detiene Paul-Henri Spaak, in un governo composto da socialisti e da liberali che succede al governo dei cristiano-sociali al potere dal 1949.
Il ritorno di Spaak agli Esteri segna un cambiamento di rotta, anche se rimangono delle difficoltà. Dopo il fallimento definitivo della CED e, sulla sua scia, della CPE, Spaak, di concerto con i partner del Belgio all’interno del Benelux e in collaborazione con personalità come Jean Monnet, elabora uno scenario per uscire dalla crisi, il cui approdo, attraverso il memorandum Benelux, è la Conferenza di Messina alla fine di maggio del 1955.
Dalla creazione del Comité Spaak nell’estate del 1955 alla firma dei Trattati di Roma nella primavera del 1957, il ruolo del Belgio è trainante e illustra perfettamente il concretizzarsi della “dottrina” esposta in precedenza. Esperto di negoziati internazionali, adeguatamente affiancato e assecondato, una volta guadagnata la fiducia dei partner, Spaak fa entrare definitivamente il Belgio in Europa, non senza aver definito una linea di condotta che sarà ormai quella della diplomazia europea del paese. I suoi immediati successori – Victor Larock, poi Pierre Wigny – nel periodo in cui Spaak svolge le funzioni di segretario generale della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), in seguito i successori più lontani nel tempo – come Pierre Harmel –, dopo il suo ritorno agli Esteri dal 1961 al 1965, assicurano la continuità indiscutibile di una politica che ha conosciuto crisi importanti, fra cui quella delle relazioni con la Francia del generale Charles de Gaulle.
I momenti cruciali di questo conflitto sono noti. Da un lato, la crisi aperta dalla sospensione sine die dei negoziati relativi all’ingresso del Regno Unito nella CEE (29 gennaio 1963), dall’altro, la cosiddetta “crisi della sedia vuota”.
In seguito alla conferenza stampa del generale de Gaulle del 14 gennaio 1963, che annuncia la fine dei negoziati con il Regno Unito, Spaak denuncia energicamente «il metodo diplomatico adottato», giudicandolo «assolutamente inammissibile».
Attaccando la visione gollista di un’Europa «autarchica, egoista e insensibile ai problemi posti dalla sua stessa esistenza», Spaak si attira una bordata di critiche, non solo in Francia – “Candide” lo qualifica il 31 gennaio 1963 come l’“anti-gollista n. 1 d’Europa” – ma anche in Belgio. Il potente “Libre Belgique”, quotidiano della borghesia cattolica, come pure gli ambienti dei nazionalisti valloni francofoni, accusano Spaak di atteggiarsi a “campione dell’antigollismo, se non dell’anti Francia, e di lasciarsi trascinare verso la politica del peggio con il pretesto di sanzionare un procedimento ritenuto scorretto, rischiando così di provocare il crollo del Mercato comune e facendo il gioco delle forze tendenti a indebolire l’Europa”, a cominciare dagli Stati Uniti (v. “Courrier Hebdomadaire du CRISP”, 1965, p. 2).
Dopo la decisione del generale de Gaulle di mettere in atto la politica detta “della sedia vuota” – a Bruxelles e a Lussemburgo – in seguito al fallimento, il 30 giugno 1965, del Consiglio dei ministri della CEE sul regolamento finanziario della politica agricola comune, il meccanismo comunitario si blocca. Spaak allora si presenta come un uomo desideroso di trovare un compromesso con la Francia. Respingendo qualsiasi idea di rappresaglie, suggerisce alcune formule per riprendere i contatti a Sei, arrivando a suscitare nei suoi confronti riserve appena dissimulate negli ambienti comunitari europei e anche nei gruppi militanti del Movimento europeo, con cui era solito apparire profondamente solidale. Tuttavia, l’atteggiamento belga beneficia, fra gli altri, dell’appoggio di “La Libre Belgique”, mentre in Francia “Le Monde” del 3 luglio 1965 afferma che «in definitiva, è in Belgio, e più precisamente in M. Spaak, che si trova il migliore avvocato delle tesi francesi!».
Non può che sorprendere la diversità d’atteggiamento fra il 1963 e il 1965, non solo da parte del ministro degli Esteri, ma anche del governo e della maggioranza parlamentare socialista e cristiano-sociale. Tuttavia la contraddizione è solo apparente, perché, dopo le dichiarazioni di Spaak del gennaio 1963, in cui si parlava di «diktat» e di «umiliazione» a proposito del comportamento gollista, è innegabile che l’atteggiamento del 1965 mira alla riconciliazione e al ritorno della Francia al tavolo dei negoziati, in altre parole è un’iniziativa conforme alla “dottrina”.
In questa prospettiva, il rilancio europeo all’Aia nel 1969 è l’occasione per illustrare le opinioni di Pierre Harmel, secondo il quale i paesi delle dimensioni del Belgio «non sono efficaci sul piano diplomatico, se non per il valore delle idee di cui [si fanno] veicolo» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 5). In effetti, nell’aprile 1970, si costituisce il Comitato Davignon (v. Davignon, Étienne), che riunisce i direttori degli affari politici dei Sei. L’ambizione non è quella di creare un’Europa politica di tipo federale, o anche confederale, ma di assicurare una concertazione a sei sui problemi politici d’interesse comune: conferenza sulla sicurezza, Medio Oriente, relazioni con l’Est, badando al tempo stesso – in particolare da parte belga – di non spingersi troppo lontano prima che l’adesione britannica divenga effettiva. Questo comitato di alti funzionari si organizza, in un primo tempo, nel quadro dei Sei, senz’altro fondamento che la volontà degli Stati, e prepara le riunioni dette di armonizzazione a livello di ministri degli Esteri. L’originalità del sistema consiste nel dare alla consultazione tra paesi un carattere vincolante e permanente su tutte le questioni importanti di politica estera.
Questo tipo di comitato non pone problemi di dottrina: non è neppure il segretariato politico di una qualsivoglia confederazione di futura creazione. Per alcune materie coperte dai Trattati di Parigi e di Roma, si assicura la cooperazione della Commissione europea, sollecita il parere della Commissione quando i suoi lavori comportano conseguenze sulla CEE e i suoi servizi. È una formula d’attesa che, pur preoccupando i fautori di un’Europa sovranazionale, consente di scongiurare il pericolo di vederli provocare una crisi, come era accaduto in occasione del Piano Fouchet.
Durante questo periodo il Belgio si prefigge diversi obiettivi: l’Unione economica e monetaria, l’Allargamento delle comunità, il passaggio al periodo definitivo per la CEE, la cooperazione pragmatica nell’ambito politico per portare l’Europa comunitaria a esprimersi con una sola voce in materie come la conferenza sulla sicurezza o la crisi in Medio Oriente. Infatti, per citare Étienne Davignon, che spesso paragona l’Europa a Tarzan, bisognava constatare che era dotata di «una morfologia abbastanza sviluppata, ma ancora piuttosto sommaria dal punto di vista dell’eloquio» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 6).
La cooperazione procede attraverso “conferenze al vertice”, con momenti forti e momenti deboli. Quello di Copenaghen, nel 1973, è giudicato severamente dalla Commissione senatoriale belga competente. A Parigi, nel dicembre 1974, vede la luce la formula nuova del Consiglio europeo, che devono consentire di globalizzare e politicizzare ulteriormente i dossier sottoposti alle decisioni del Consiglio dei ministri della CEE. Ma il Belgio accoglie in modo tiepido la formula dei “Vertici”, in quanto a suo avviso spesso si collocano al di fuori del quadro istituzionale dei trattati, rischiando di costituire delle sovrastrutture, con pratiche e meccanismi di decisione paralleli, che anche sotto l’apparenza degli obiettivi comuni indeboliscono il dinamismo dell’integrazione, erodono palesemente le istituzioni comunitarie, già fortemente logorate, minacciano dall’esterno e intaccano dall’interno l’Acquis comunitario.
All’incirca nello stesso periodo, la Costituzione belga è finalmente adattata alle realtà scaturite dall’interdipendenza e dalla costruzione europea. L’articolo 25 bis introdotto nel 1970-1971 recita: «L’esercizio di determinati poteri può essere attribuito da un trattato o da una legge a istituzioni di diritto internazionale pubblico».
Al tempo stesso, questa revisione assicura il trasferimento di importanti competenze nazionali alle regioni e alle comunità culturali. Questo significativo riassetto dei poteri e delle istituzioni del Belgio non è che il primo di una serie che trasformano il paese in Stato federale e, di conseguenza, attribuiscono alle entità federate competenze definite in materia europea (v. Kerremans, 2000).
È nell’ottica della ricerca di un equilibrio fra le posizioni rispettive di comunità e regioni, il cosiddetto “consenso alla belga”, che bisogna inquadrare le posizioni del Belgio nel settore delle politiche comuni. La crisi degli anni Settanta, attraverso l’inflazione, la minaccia che pesa sull’occupazione, la crisi energetica e le conseguenze del primo allargamento, ha dimostrato che il punto di non ritorno non era poi garantito così saldamente come si era creduto e che l’Europa doveva compiere una scelta politica fra la salvezza collettiva e le formule nazionali protezionistiche, o ancora che l’opzione riguardava un’unione europea profonda e «una perdita marcata di indipendenza, perfino di autodeterminazione»(v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 11).
In questo contesto il primo ministro belga Léo Tindemans è incaricato di elaborare un rapporto sull’Unione europea (29 dicembre 1975) (v. Rapporto Tindemans). In esso propone che questa sia costruita sulla duplice base delle istituzioni comunitarie, d’ispirazione sovrannazionale o federale, e della cooperazione politica, d’ispirazione intergovernativa o confederale, a condizione che esistano fra i due apparati legami sufficienti per «definire una visione politica comune, globale e coerente”. Criticato sia dai federalisti, che ritengono che il rapporto si allontani dallo schema Monnet, sia dai fautori della rigida separazione fra sfera economica e politica, il rapporto offre «una concezione d’insieme dell’Unione europea […] che ha prevalso nel corso del tempo» (v. de Schoutheete, 1986, p. 528).
Durante i tre decenni successivi al rapporto Tindemans, «la continuità del ruolo integrazionista assicurato dal Belgio nell’Europa del dopoguerra» (v. Kerremans, Beyers, 1998), inaugurato da Spaak, non viene smentita. Lo testimoniano i “successi” collezionati, in genere, nel corso delle presidenze del Consiglio dei ministri (11 volte fra il 1958 e il 2001).
Mentre il Belgio, come Stato, diviene federale nel 1980 e lo spazio europeo, agli occhi di alcuni, diventa ciò che consentirebbe alle regioni – che aspirano a un’autonomia sempre maggiore – di sbarazzarsi del livello nazionale, la politica europea mantiene tutto sommato una notevole coerenza nella continuità. Servita da validi diplomatici e funzionari della Banca nazionale o del ministero delle Finanze e degli affari economici, è seguita con estrema attenzione, talvolta perfino incentivata, anche dal primo ministro. I governi guidati dai cristiano-sociali fiamminghi di Wilfried Martens, negli anni Ottanta, e di Jean-Luc Dehaene, dal 1992 al 1999, poi dal liberale fiammingo Guy Verhofstadt dal 1999 al 2007, sembrano seguire la stessa linea europea. Una linea che è quella di un “eccellente allievo della classe europea”, sebbene per molto tempo questa valutazione non sia stata valida nell’ambito della trasposizione del diritto comunitario in diritto nazionale. Ed è proprio il caso di parlare, da questo punto di vista, di berretto d’asino.
Nell’Unione europea a Quindici il Belgio appare come uno degli Stati più favorevoli alla prosecuzione dell’integrazione, come dimostrano, per esempio, le prese di posizione a sostegno della cooperazione rafforzata, dell’Europa della sicurezza e della difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), o ancora gli sforzi per ottemperare ai criteri di convergenza ed entrare nell’unione monetaria nel 1999. Agli occhi dei dirigenti belgi, l’allargamento a Est, preparato dall’adozione dei criteri di adesione da parte del Consiglio di Copenaghen del 1993, non dovrà attuarsi a scapito dell’“approfondimento”, cioè dello sviluppo di politiche comuni e del rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Quest’orientamento federalista talvolta li mette in contrasto con altri governi, in particolare quelli dei paesi più grandi, che sono decisi a salvaguardare i loro margini di manovra. Così, nel 1994, la candidatura del primo ministro Jean-Luc Dehaene a presidente della Commissione europea, sostenuta dalla Francia e dalla Germania, fallisce a causa del veto del governo conservatore di Londra. Dieci anni dopo, Guy Verhofstadt andrà incontro alla stessa sorte. Il governo britannico sembra serbargli rancore per le sue prese di posizione all’epoca della crisi irachena, durante la quale si era mostrato reticente nei confronti della politica americana e della sua iniziativa di riunire a Bruxelles, il 29 aprile 2003, un vertice della “vecchia Europa”, per cercare di rilanciare la politica europea di difesa. Nel 2004 il primo ministro belga è di nuovo ostacolato dal fatto di non appartenere al Partito popolare europeo, che si conferma il gruppo più importante del Parlamento europeo dopo le elezioni di giugno (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).
Per tutto il periodo che ha inizio a Maastricht (v. Trattato di Maastricht), la diplomazia belga è in prima linea nella battaglia per la riforma delle istituzioni comunitarie che precede le Conferenze intergovernative (CIG). È così nel 1996-1997, prima del Trattato di Amsterdam, nel 2000 prima del Trattato di Nizza e di nuovo nel 2003. Si tratta di pianificare il processo decisionale nella UE per renderlo più efficace e democratico, nella prospettiva dell’allargamento a venticinque, o anche a più paesi. Il governo belga si mostrato mostra favorevole a un accrescimento dei poteri del Parlamento europeo, che in effetti acquisisce nuove competenze a ogni Revisione dei Trattati. Auspica anche un rafforzamento della Commissione, che deve restare, a suo parere, «il motore della meccanica comunitaria», ma sembra avere qualche esitazione sul numero ottimale dei commissari. È favorevole anche all’estensione del voto a maggioranza qualificata, al Consiglio, che rappresenta una garanzia di sovranazionalità e passa attraverso una ponderazione dei voti nel Consiglio attribuiti a ciascuno Stato membro.
Nel 1997, prima ancora della firma del Trattato appena concluso, è il Belgio a prendere l’iniziativa di chiedere la riunione di una nuova CIG, per regolare i “punti irrisolti” di Amsterdam, cioè per trovare una soluzione alle questioni istituzionali rimaste in sospeso. Sostenuto dalla Francia e dall’Italia, ottiene una risposta positiva. Ma Nizza non riesce a regolare realmente i problemi. Per il Belgio, questo vertice rappresenta una doppia delusione. Da una parte, si scontra con i Paesi Bassi per la questione della ponderazione dei voti nel Consiglio, dove ne ottiene solo 12 contro i 13 del suo vicino (e 29 per ciascun paese “grande”), mentre in precedenza entrambi disponevano di 5 voti. Dall’altra, soprattutto, le decisioni prese dopo aspre contrattazioni non sembrano idonee a migliorare il funzionamento delle istituzioni, né il clima delle relazioni fra Belgio e Paesi Bassi, che nel 2005 sono turbate da una serie di incidenti, in seguito alle dichiarazioni del ministro degli Esteri e del vice primo ministro a proposito della “inconsistenza” del primo ministro olandese.
In questo contesto, il governo belga figura tra quelli che spingono per l’adozione di un nuovo metodo per riformare l’Unione europea. Assicurandosi il turno di presidenza dell’Unione europea nel secondo semestre del 2001, svolge un ruolo decisivo nella convocazione di una Convenzione europea incaricata di elaborare una costituzione. È il Consiglio europeo di Laeken, sotto la presidenza di Guy Verhofstadt, a decidere di mettere in cantiere la “Convenzione sul futuro dell’Unione europea”, che lavora a Bruxelles all’elaborazione del progetto di trattato costituzionale presentato nel 2004. Fra le tre personalità politiche a capo della Convenzione vi è l’ex primo ministro belga Jean-Luc Dehaene.
I voti negativi dei francesi e degli olandesi in occasione dei referendum organizzati nel 2005, in vista della ratifica del progetto di trattato costituzionale, sono per il Belgio un fulmine a ciel sereno. E nel momento in cui quella che non si configura come una crisi passeggera sollecita a trovare una soluzione, il primo ministro belga, in un manifesto politico presentato all’inizio di dicembre 2005, andando controcorrente, perora la causa degli Stati Uniti d’Europa. Così facendo, non si allontana dalla linea classica difesa dal Belgio. In occasione della sua presentazione, spiega che il manifesto costituisce una «sorta di protesta contro il fatto che nessuno sembra più orgoglioso di parlare d’Europa». E aggiunge: «è necessario far uscire l’Europa da questa spirale negativa degli ultimi mesi», offrire «un’alternativa al cinismo», tentare «un approccio più entusiasta, soprattutto tra i giovani che hanno votato “no” al trattato costituzionale». Perché oggi, continua il primo ministro, «gli uomini politici cercano di minimizzare l’integrazione europea», considerata talvolta come “un incubo”, “un insulto”, perché «tutto quello che va storto è colpa dell’Europa».
Denunciando il pericolo di perdere la direzione indicata dalla storia, il primo ministro belga ricorda che la direzione è quella della federazione, perché «tutti i paesi europei sono piccoli paesi». Quindi, «se l’Europa vuole avere un ruolo da svolgere, bisognerà integrarsi, come dimostra la storia americana».
In concreto, Verhofstadt propone la creazione di due cerchi concentrici di paesi. Da una parte, «un’organizzazione di Stati europei che vuole la pace e la stabilità» e, dall’altra, «un centro politico di paesi che condividano una politica socio-economica più coerente». Questo centro, questo nucleo, iniziatore degli Stati Uniti d’Europa, sarà composto dai paesi dell’“eurozona”, che fonderanno un governo socio-economico, investiranno nel progresso tecnologico, svilupperanno uno spazio di libertà, sicurezza e di giustizia e un esercito europeo.
Bisogna attribuire all’impegno europeo e all’attivismo del primo ministro Verhofstadt e del ministro degli Esteri Louis Michel, prima che questi diventi membro della Commissione Barroso (v. Barroso, José), quel che rappresenta una sorta di svolta in rapporto alla marcata prudenza dei loro predecessori, perché le “posizioni audaci”, perfino “poco diplomatiche”, dei due ministri li portano ad «impegnarsi in dibattiti senza concessioni» (v. De Winter, Türsan, 2001, p. 2).
In questo contesto, l’idea di un’Europa a due velocità non è affatto nuova. Il suo rilancio non suscita entusiasmo, se non, in una certa misura, nel Presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, che vi ritrova un’eco delle sue posizioni per la realizzazione di alcuni aspetti del Trattato. Per il resto, le reazioni sono negative o attendiste. Il 9 gennaio 2006, a Vienna, il cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel dichiara: «La Costituzione europea non è morta, ma non è in vigore» (“Die Presse”, 10 gennaio 2006). In altri termini, la questione posta alla presidenza austriaca mirava a verificare se questa avrebbe potuto rilanciare il processo di ratifica del trattato o ne avrebbe preparato l’atto di morte. Ma si può inquadrare la situazione anche in un’ottica più ottimistica, considerando che tutte le opzioni sono aperte: dall’organizzazione di un nuovo voto in Francia e nei Paesi Bassi alla rinegoziazione. In questo contesto, Schüssel ritiene “inopportuna” l’idea di un nucleo in un’Europa a due velocità, perché i paesi dell’Unione devono riflettere insieme sul suo avvenire. O, come sostiene il ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik, l’Europa deve passare dall’“autoanalisi” all’“autoterapia”.
È evidente che questo atteggiamento permette di guadagnare tempo, in attesa delle elezioni francesi e olandesi del 2007, in quanto le posizioni degli uni e degli altri appaiono contrastanti. I punti di vista di Chirac e Verhofstadt si scontrano con quelli del cancelliere tedesco Angela Merkel, per la quale far entrare in vigore alcune delle disposizioni della Costituzione tralasciando le altre, senza sapere che cosa ne sarà, metterebbe in pericolo l’equilibrio globale.
Se questa posizione attendista sia accompagnata da una riflessione, o addirittura da un lavoro in profondità, sul contesto generale è un interrogativo d’importanza capitale. Ora, a detta del primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker, che non ama a priori l’idea di un’Europa “a geometria variabile” o di un’Europa nocciolo duro, l’Europa è «in una fase di pausa piuttosto che di riflessione».
Quindi attendismo e anche deficit di quello che Jean-Claude Juncker denuncia come assenza del desiderio d’Europa. Nel giugno 2005, alla vigilia del referendum in Lussemburgo sul progetto di trattato – che rivela anch’esso un certo malessere – il primo ministro di questo piccolo paese, unito al Belgio da tanti legami, segnala che la sua generazione, l’ultima a conservare la memoria collettiva della Seconda guerra mondiale, è anche l’ultima per la quale la costruzione europea è un processo irreversibile destinato ad assicurare la pace. E, a proposito delle generazioni più giovani, per le quali questa memoria collettiva non esiste o ha acquisito lo status di storia museificata, si tratta di sapere quale Europa vogliamo a partire dal momento in cui sappiamo quello che non vogliamo più (v. Dumoulin, 2005, p. 31).
Quanto detto permette ora di trattare l’atteggiamento dell’opinione pubblica belga nei riguardi della costruzione europea. Se è ammissione generale che il Belgio è “un buon allievo dell’Europa”, in particolare per l’eccellente qualità del personale diplomatico incaricato delle questioni europee, un’altra costante è il relativo disinteresse dell’opinione pubblica per questi temi, addirittura l’assenza di considerazione per l’impatto della presenza delle istituzioni a Bruxelles.
Se pure, come si è già sottolineato, il voto sui trattati europei indica con chiarezza che nel Parlamento belga si è sempre trovata una maggioranza sostanziale a favore della costruzione comunitaria e che l’opposizione effettiva è stata in genere limitata, dai sondaggi d’opinione emerge mancanza di interesse, di informazione e di impegno. Nel 1973 i belgi considerati nel loro complesso sono, fra tutti i popoli europei, quelli meno interessati ai problemi della Comunità europea, meno informati di danesi, lussemburghesi o tedeschi, e si collocano in fondo alla lista dei sei paesi fondatori della Comunità circa l’atteggiamento favorevole. Una constatazione che non richiede rettifiche sostanziali nel corso del tempo (v. Bursens, 1999).
Come spiegava ai suoi tempi Jacques-René Rabier, inventore dell’Eurobarometro, i belgi non manifestano né ostilità, né una resistenza radicale al movimento di unificazione europea. La mancanza di informazione non può essere attribuita alle carenze dei media in materia. Si può tentare una spiegazione che mette in risalto quattro fattori: l’invecchiamento della popolazione, che comporta un allontanamento dalla vita socio-politica; la proporzione di lavoratori indipendenti, il cui comportamento politico risponde spesso a caratteristiche peculiari; l’allontanamento generalizzato del cittadino dalla res publica in un paese in cui, in generale, si ritiene che gli abitanti si preoccupino assai più delle realtà concrete e immediate che dei progetti di una certa ampiezza; il ruolo di polarizzazione dell’attenzione dell’opinione pubblica svolto dai problemi legati alla coabitazione di due grandi comunità linguistiche e culturali, fiamminga e francese, che compongono il Belgio.
A fronte dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, l’importanza della presenza dell’Europa in Belgio può apparire paradossale, perché laddove i belgi la percepiscono in generale come una fonte di fastidio per la circolazione automobilistica, soprattutto in occasione dei Consigli, di rincaro dei prezzi degli immobili e di scontento per i vantaggi reali o presunti di cui beneficia la funzione pubblica europea, sia i media che gli ambienti politici, sociali ed economici interessati hanno fatto di “Bruxelles” il sinonimo del luogo in cui vengono prese le decisioni europee.
L’equazione che nel vocabolario assimila Bruxelles all’Europa, e viceversa, ha una storia, che inizia con un fiasco spettacolare. In quella che appare come una «cacofonia totale» (v. Spierenburg, Poidevin, p. 46), il 23 luglio 1952, si apre a Parigi la conferenza dei Sei destinata a decidere definitivamente sulla questione della sede della CECA. Il Belgio ha già proposto e ripropone la candidatura di Liegi, luogo simbolico sul piano del carbone e dell’acciaio, in seguito a una energica azione di Lobbying da parte delle forze vive della Cité ardente. A tal punto energica che il governo e il Parlamento belga si schierano ufficialmente a favore di questa candidatura. Quindi Paul van Zeeland, ministro degli Esteri, è costretto a rifiutare la proposta olandese, appoggiata dalla Germania e dal Lussemburgo, di scegliere Bruxelles.
La Conferenza di Parigi, alla fine, decide di non decidere e di adottare l’abile proposta del lussemburghese Joseph Bech di cominciare i lavori a Lussemburgo, lasciando la questione della sede provvisoriamente aperta.
Non sembra che a Bruxelles la delusione sia particolarmente cocente, dato che sul piano nazionale la questione è stata risolta a favore di Liegi, ma è opportuno precisare che tre anni dopo, quando le circostanze la faranno di nuovo salire alla ribalta dell’attualità, affermerà con più forza le sue ambizioni.
All’epoca della Conferenza di Messina, poi dell’apertura dei lavori del Comitato Spaak, Bruxelles, come le capita regolarmente, ha avviato imponenti lavori pubblici. Questa volta, l’obiettivo di questo cantiere perpetuo che è la capitale belga è la preparazione dell’Esposizione universale del 1958 e, al tempo stesso, la risposta alla pressione del traffico automobilistico che, come accade dappertutto, conosce un notevole incremento.
Le conseguenze immediate della Conferenza di Messina, insieme alla prospettiva dell’Expo ’58, hanno avuto senz’altro un ruolo determinante nella volontà di Bruxelles di svolgere ormai una funzione più definita nel contesto della piccola Europa.
La prima riunione dei capi delle delegazioni che compongono il comitato uscito dalla Conferenza di Messina, meglio conosciuto con il nome di Comitato Spaak, ha luogo il 9 luglio 1955 nella sede del ministero degli Esteri belga a Bruxelles. L’organizzazione del lavoro adottata esclude fin dall’inizio che le riunioni in seguito continuino a svolgersi nel ministero. Infatti le commissioni che vengono istituite dovrebbero lavorare dal martedì al venerdì di ogni settimana, a partire dal 22 luglio. Per questo motivo due immobili sono destinati ai lavori del comitato, prima che quelli della conferenza preparatoria dei Trattati di Roma si tengano al castello di Val Duchesse dal giugno 1956 al marzo 1957. Sempre a Val Duchesse, nel 1957, si svolgono le riunioni del comitato provvisorio istituito a Roma in occasione della firma dei trattati.
Per quanto riguarda la sede, la decisione è rinviata fino all’ultimo, come nel 1952. A Parigi, il 6 e 7 gennaio 1958, viene affrontata la questione. E si decide di non decidere. L’assemblea si riunirà a Strasburgo, la Commissione a Bruxelles o a Lussemburgo. Quindi i Sei, contrariamente all’intenzione di insediare le istituzioni in un unico luogo, si ritrovano con tre “capitali”.
Il governo belga, e senz’altro parte dell’opinione pubblica, sono molto delusi dall’atteggiamento francese. Quindi la questione del comportamento francese in merito al problema della sede sarà spesso argomento di conversazione fra i diplomatici belgi attivi a Parigi e i responsabili francesi, sia prima che dopo il ritorno al potere del generale de Gaulle. Sotto questo aspetto, l’ambasciatore del Belgio a Parigi ritiene che l’importante sia guadagnare tempo.
Nei mesi successivi, l’ambasciatore o i suoi collaboratori incoraggiano Bruxelles a trarre vantaggio dalla situazione esistente che tende a diventare ogni settimana che passa sempre più permanente. Così, in previsione dei colloqui franco-belgi del 12 settembre 1958, l’ambasciatore raccomanda di non affrontare la questione, in modo da non provocare un’opposizione formale. In compenso, giudica auspicabile compiere un passo con Bonn, affinché il cancelliere non faccia promesse contrarie ai desideri del Belgio all’interno di un accordo generale franco-tedesco. Il ministro degli Esteri, Pierre Wigny, al corrente del punto di vista di Konrad Adenauer, che non intende cedere a nuove rivendicazioni di de Gaulle, in particolare per quanto concerne la capitale dell’Europa, non tiene conto di questi consigli. L’11 settembre, prima con Maurice Couve de Murville e poi con de Gaulle, affronta la questione della sede ed espone i suoi argomenti, alcuni dei quali avrebbero potuto provocare la collera dei fiamminghi. Oltre agli argomenti noti, infatti – Parigi è la capitale di una grande potenza, è già sede della NATO, dell’UNESCO, dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) – Wigny afferma che Bruxelles, come sede delle istituzioni, avrebbe potuto rendere alla Francia il servizio supplementare di francesizzare in qualche modo queste organizzazioni.
Al tempo stesso, Wigny cerca di convincere i lussemburghesi. Il 4 settembre 1958 ha un lungo incontro con Bech e gli comunica che se il Lussemburgo “cedesse” la CECA, il Belgio lo appoggerebbe nelle compensazioni, come per esempio l’Università europea. Mettendo in guardia il suo interlocutore dall’adottare una politica attendista, di cui altri partner, a cominciare dall’Italia, si avvantaggerebbero in materia di compensazioni che invece si potrebbero far prevalere in favore del Lussemburgo, Wigny subisce un rifiuto che Bech rinnova nel 1960.
Le considerazioni esposte finora consentono di sottolineare un punto essenziale. L’assenza di decisione fra i Sei in merito alla questione della sede, a partire dal 1958, permette di capire meglio che Bruxelles, per il suo status provvisorio, non è stata oggetto di piani a lungo termine per quanto riguarda l’insediamento dell’amministrazione europea, la quale si è installata in maniera disordinata fino al progetto di creazione di un quartiere europeo.
Nel 1958 la dispersione dei servizi amministrativi delle Commissioni CEE ed Euratom pone un problema facilmente comprensibile. Si impone quindi una centralizzazione. Nel 1961 inizia la costruzione di un enorme edificio noto con il nome di Berlaymont, che è concluso nel 1969. Fra queste due date, è stato firmato il Trattato di fusione. D’altronde, l’annuncio del ritiro della Francia dall’organizzazione militare dell’Alleanza atlantica da parte di de Gaulle, nel marzo 1966, spinge il governo belga a muoversi nella prospettiva di accogliere lo SHAPE in Belgio e poi il Consiglio atlantico a Bruxelles.
Dal principio degli anni Settanta, e parallelamente agli allargamenti successivi, l’aumento del numero degli impiegati legati al ruolo europeo e internazionale di Bruxelles non ha subito flessioni. Terza città di congressi nel mondo, sede di 419 missioni diplomatiche nel 2003, Bruxelles offrirà, due anni dopo, 100.000 impieghi, su un totale di 62.500, legati più o meno direttamente alle istituzioni europee, ossia 25.050 funzionari permanenti e temporanei, 8500 persone occupate in settori vicini (missioni diplomatiche, rappresentanze di città e regioni, giornalisti) e 67.000 impieghi indiretti.
A causa delle esigenze sempre nuove e indubbiamente anche per il fatto di non aver beneficiato per molto tempo dell’autonomia necessaria, essendo oggetto degli interessi fiamminghi e francofoni, Bruxelles, se si dà credito ad un numero consistente di osservatori, è stata letteralmente lasciata in balia dei promotori immobiliari e dell’assenza di una visione d’insieme circa il suo sviluppo.
Certo, l’Atelier de Recherche et d’Action Urbaine (ARAU) nasce nel 1968, seguito nel 1974 da Inter-Environnement Bruxelles, per rivendicare una prospettiva che sia oggetto di concertazione e di scelte democraticamente condivise in materia di urbanistica e di piani di sviluppo del territorio. Ma purtroppo sembra legittimo affermare che la “bruxellizzazione”, termine che designa uno smembramento urbano intenso a favore delle attività economiche, è proseguita. Alcune delle voci più critiche parlano di una “colonizzazione di Bruxelles da parte dell’Unione europea”.
Così, mentre l’“eurosfera” si sviluppa, veicolando immagini e pregiudizi generalmente poco favorevoli nella popolazione di Bruxelles, che critica lo status e la fiscalità privilegiati di cui beneficiano gli eurocrati, come pure le rivendicazioni che costoro formulano in materia di scuole, asili, ecc., la pressione sulle autorità locali, e perfino nazionali, è molto pronunciata.
A questo proposito, sono importanti gli anni che seguono le prime elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale nel 1979.
Il 20 novembre 1980, il Parlamento invita gli Stati membri a definire finalmente la sede delle istituzioni comunitarie. Il 7 luglio dell’anno seguente, decide di tenere le sue sedute plenarie a Lussemburgo e le riunioni delle Commissioni a Bruxelles. Una decisione che il governo lussemburghese impugna di fronte alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), avendo causa vinta e ottenendo l’accordo dei governi dei Dieci sul congelamento dell’insediamento delle istituzioni europee.
Di fatto è all’opera un lavoro sotterraneo: in particolare, i conservatori britannici ne sarebbero i principali artefici. Nell’ottobre 1985 uno di loro, il deputato Peter Price, presenta un nuovo progetto di risoluzione che viene adottato dal Parlamento.
Nel 1988, il deputato conservatore britannico Derek Prag prepara un rapporto dedicato al Parlamento, che la sua commissione politica adotta il 1° dicembre. Il 18 gennaio 1989, dato che quasi tutti i gruppi politici dell’assemblea hanno lasciato libertà di voto ai loro membri, i deputati adottano il rapporto in cui si chiede che, oltre alle sessioni ordinarie a Strasburgo, il Parlamento possa tenere delle sessioni speciali a Bruxelles.
Nello stesso anno Bruxelles diventa la Région de Bruxelles-Capitale. Il 18 ottobre, l’esecutivo regionale annuncia la sua volontà di realizzare un piano regionale di sviluppo, che sarà portato a termine tra il giugno 1992 e il marzo 1995.
Mentre il governo belga mantiene un silenzio assoluto, vengono messe in atto contemporaneamente “manovre politiche provenienti da Strasburgo per presentare Bruxelles come una città infernale”. Nel marzo 1990, l’annuncio dell’intenzione di costruire un nuovo emiciclo a Strasburgo, e le minacce di Roland Dumas di bloccare qualsiasi decisione sulle sedi di future istituzioni se non viene riaffermata solennemente la vocazione di Strasburgo come sede del Parlamento, avvelenano il clima. Queste manovre inducono l’ufficio del Parlamento, il 14 marzo, a pronunciarsi per il mantenimento di dodici sessioni ordinarie a Strasburgo.
Nel 1991, la questione della sede del Parlamento sembra mescolarsi a manovre che coinvolgono il problema della sede della Commissione. Nel gennaio 1991, durante la guerra del Golfo, il Parlamento tiene una seduta plenaria a Bruxelles che i francesi decidono di boicottare. In febbraio, il Bureau allargato decide di tenere d’ora in poi una “seduta di lavoro”, aperta a tutti i deputati, ogni mercoledì a Bruxelles.
A Maastricht si decide ancora una volta di non prendere decisioni, perché fallisce il tentativo di mediazione di Giulio Andreotti, orientato a inserire nel nuovo trattato un protocollo relativo alla sede definitiva del Parlamento, del Consiglio e della Commissione. Nel 1992, a Edimburgo, Bruxelles è confermata nel suo status di sede della Commissione e del Consiglio, mentre Strasburgo resta la sede del Parlamento dove si terranno dodici sessioni plenarie all’anno; le sessioni supplementari avranno luogo a Bruxelles.
Michel Dumoulin (2009)
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