Brandt, Willy
B. (Lubecca 1913-Unkel 1992) nasce nell’anno in cui cessa di vivere August Bebel, la grande figura del socialismo tedesco che sarà un punto di riferimento per la sua intera esistenza. All’ombra di Ernst Reuter, mitico sindaco di una Berlino che è una enclave per tre quarti libera nel buio oceano comunista, B. mostra nell’immediato dopoguerra più assonanze con la politica di Konrad Adenauer che con quella del suo partito: è contrario alla Comunità europea di difesa ma è fautore dell’adesione alla Alleanza atlantica. Sindaco dal 1956, nella crisi del 1958 avviata dall’ultimatum di Chruščёv assume una posizione di netto rifiuto del ricatto sovietico: da quel momento è il simbolo di una socialdemocrazia giovane, dinamica. Nel novembre 1959 è fra i sostenitori, nel programma di Godesberg, di un socialismo democratico e non dogmatico, le cui radici sono nel cristianesimo, nell’umanesimo, nella filosofia classica, nel primato del mercato e della concorrenza. Nelle elezioni dell’autunno 1960 B. è il candidato del Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD). Manifesta una vocazione chiaramente occidentale ma con accenti più nazionali di quelli del vecchio cancelliere. Raccoglie il 36,2% dei suffragi, contro il 45,3% dell’Unione.
B. cerca invano la solidarietà occidentale, che si limita ad una protesta verbale. Incerta ed ambigua anche la risposta del presidente John Fitzgerald Kennedy: essa «alza solo il sipario e rivela che la scena è vuota»: da lì egli comincia a pensare quella che chiama «la politica dei piccoli passi». Il 10 giugno 1963 Kennedy inaugura in un discorso alla American University di Washington una politica che, nelle parole di Arthur Schlesinger, avrebbe ridefinito l’intero atteggiamento americano verso la Guerra fredda. A B. questo appare come “un dono del cielo”. La svolta culmina nella visita a Berlino del presidente americano. Il Muro e la striscia di morte che lo completa rappresentano la continuazione della politica con altri mezzi, un tentativo disperato di guadagnar tempo, nella speranza di costringere o convincere gli abitanti dell’Est a restare. Berlino occidentale è in qualche modo una propaggine di Washington e i cittadini festeggiano i due loro sindaci, Kennedy e B. Kennedy, nel ricordare la Roma antica ed il civis romanus, sta dicendo ai berlinesi di essere cittadini americani e di aver diritto a una pari protezione.
A un convegno nella cittadina di Tutzing, tre settimane dopo, B. così sintetizza la sua futura strategia: il mutamento dello status quo passa attraverso il suo riconoscimento; la riunificazione non sarà un singolo atto, bensì un processo. Potrà realizzarsi solo con il consenso dell’Unione Sovietica. Il “cambiamento attraverso il riavvicinamento” è la proposta del suo addetto stampa Egon Bahr fatta propria da B. Una formula ancora piena di ambiguità delfiche più che di concretezza programmatica. La parità nucleare, l’esistenza del Muro, l’interesse del Cremlino di veder riconosciuto in Occidente, in particolare da americani e tedeschi, il proprio impero esterno delimitano il quadro internazionale.
Nel dicembre 1966 nasce la grande coalizione tra cristianodemocratici, CDU-CSU (Christlich-soziale Unione) e socialisti (SPD, Sozialdemokratische Partei Deutschlands), con Georg Kiesinger cancelliere, B. ministro degli Esteri. La SPD torna al potere per la prima volta dal 1930. B. è il primo ministro degli Esteri socialdemocratico della Seconda repubblica, dopo che Hermann Müller, nel 1920, era stato l’ultimo della prima. Riceve in dono dal partito un orologio che era appartenuto a Bebel e che egli terrà con sé fino alla fine dei suoi giorni. All’assunzione dell’incarico dichiara: «chi ha un senso anche minimo della storia non può non cogliere il cambiamento intervenuto allorché una persona delle mie origini e delle mie convinzioni diviene ministro degli Esteri tedesco» (v. Merseburger, 2002, p. 493). I suoi modelli sono Walther Rathenau e Gustav Stresemann, i due ministri degli Esteri della riconciliazione, rispettivamente con l’Est e con l’Ovest, della Repubblica di Weimar. Non facile è il rapporto con Kiesinger, che indulge in Consiglio dei ministri a dispute anche letterarie e filosofiche con Carlo Schmid, agli antipodi di un B. asciutto ed essenziale. Gli Stati Uniti sono immersi in quel momento nella guerra del Vietnam, cercano la distensione con l’Unione Sovietica ed il sostegno della economia tedesca ad un dollaro debole. B. è uno dei simboli della resistenza nella Guerra fredda. Ma si sottrae ad ogni tentativo di coinvolgimento nel conflitto nel Sudest asiatico: si limita ad offrire una nave ospedale.
La sfida maggiore nasce dalla recessione economica. Incoraggiata anche dal discorso di congedo di Adenauer («l’Unione Sovietica ha raggiunto le file dei popoli che vogliono la pace»), la coalizione pone accenti nuovi soprattutto nella politica estera. Un invito rivolto a Cecoslovacchia e Polonia, al loro «desiderio di vivere entro frontiere sicure, che oggi comprendiamo meglio di ieri»; l’allargamento dei «legami umani, culturali ed economici» con l’altra Germania sono i punti salienti del messaggio iniziale. Nel gennaio 1967 si stabiliscono relazioni diplomatiche con la Romania. Nel febbraio successivo il Patto di Varsavia pone limiti ad un ravvicinamento su basi puramente bilaterali e selettive. Mosca, su sollecitazione di Berlino, condiziona la normalizzazione al previo riconoscimento della Deutsche Demokratische Republik (DDR), una dottrina Ulbricht (v. Ulbricht, Walter) speculare e contraria alla dottrina Hallstein (v. Hallstein, Walter) (Karlsbad, aprile 1967). Si pretende altresì l’accettazione della frontiera Oder-Neisse; la rinuncia alle armi nucleari; la considerazione di Berlino occidentale come entità politica separata; la nullità ex tunc degli accordi di Monaco. Solo con la Iugoslavia vengono riprese normali relazioni.
La coalizione va comunque più avanti nell’assumere quella che i sovietici chiamano “la realtà di Yalta”. Mosca a sua volta risponde positivamente. Si sente più sicura dopo la repressione della primavera di Praga e dopo il fallimento delle riforme interne identificate con il Presidente del Consiglio Kossighin punta a una iniezione di modernità dall’Occidente. Nel contempo è preoccupata per l’ascesa e l’indipendenza della Cina ed una sua possibile intesa con gli Stati Uniti.
Nel dicembre 1966 la Germania entra a far parte del sistema di concertazione nucleare, nel contesto della nuova dottrina della risposta flessibile. Il 14 dicembre 1967 l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) aggiorna la sua dottrina strategica, ricondotta al doppio imperativo dell’equilibrio militare e della riduzione dei rispettivi armamenti (Rapporto Harmel) (v. Harmel, Pierre). B. è uno dei promotori del segnale di Reykyavik, giugno 1968, per una riduzione bilanciata delle forze convenzionali a partire dal luogo di massima contrapposizione, l’Europa centrale.
Al Congresso della SPD a Norimberga (marzo 1968) B. invoca il riconoscimento delle frontiere orientali della Germania e dell’Europa, la loro immodificabilità con la forza. Ancora nel Congresso di Karlsruhe, quattro anni prima, il suo partito aveva reclamato le frontiere del 1937. La novità segna lo spartiacque verso una diversa Ostpolitik e verso la rottura con la CDU. L’elezione a Presidente della Repubblica di Gustav Heinemann, il 5 marzo 1969, anticipa il cambio di coalizione. Heinemann, un uomo dai profondi sentimenti religiosi e dalle forti convinzioni pacifiste, era approdato all’SPD dopo aver militato tra le file della CDU ed essere transitato per un partito proprio. È particolarmente vicino ad una gioventù inquieta. All’inizio del 1969 aumentano i segnali di divaricazione nella coalizione. Nelle elezioni del settembre 1969 la CDU conserva la maggioranza relativa ma l’SPD raggiunge il livello più alto di consensi nella sua storia, il 42,7%.
Il 21 ottobre 1969 B., che giudica il voto come il «segno della definitiva sconfitta di Hitler», diviene il cancelliere di una coalizione social-liberale. Si richiama ai fondatori, al manifesto di Bebel per una «patria della compassione e della giustizia». Il messaggio centrale del suo programma: «osare più democrazia». È avvertibile la sensazione di una “nuova frontiera” secondo un modello kennediano che ha sempre affascinato l’ex sindaco di Berlino. Nel primo rapporto sullo stato della nazione egli afferma che l’onor di patria obbliga «a riconoscere la realtà». E la realtà è quella di due Stati tedeschi, peraltro non estranei l’uno all’altro. L’unità è vista come il recupero di una comune identità prebismarckiana, piuttosto che come ricostruzione della statualità del Secondo Reich.
Alla guerra era seguito in Germania un lento ma sicuro moto di espiazione, imposto dalle potenze occupanti, ma che i tedeschi dell’Est interiorizzano grazie alla tenacia di intellettuali come Heinrich Böll e di politici come Kurt Schumacher e B. I primi passi di Adenauer, invece, erano stati esitanti anche per agevolare la ricostruzione nazionale. Il cammino verso una coscienza di sé e delle proprie colpe non è agevole, la svolta avviene appunto con B. che invoca sin dall’inizio una esplicita assunzione di responsabilità. Sarà, assieme ai movimenti studenteschi del 1968, la premessa di una svolta radicale della Repubblica federale.
Uno dei primi atti di governo è la adesione al trattato di non-proliferazione. Bonn aveva rinunciato al nucleare già nel 1954, ma preferirebbe tenere aperta l’ipotesi di un possesso collettivo europeo e per questo vorrebbe inserire nel negoziato una riserva a futura memoria. B. considera tuttavia la adesione come il passaporto della Ostpolitik, laddove Adenauer aveva definito il Trattato a suo tempo una riedizione del Piano Morgenthau e Strauss lo giudica ora una Versailles di dimensioni planetarie. Il Trattato inaugura una sorta di cartello dei possessori di armamenti nucleari e vuole evitare il trasferimento di segreti e materiali ai non possessori. La partecipazione tedesca al nucleare aveva conosciuto una dura smentita allorché gli americani, dopo la crisi di Cuba, avevano rinunciato ad installare in Germania sistemi missilistici a medio raggio. Successivamente, l’amministrazione guidata da Lyndon Baines Johnson aveva proposto una flotta di sommergibili con a bordo un equipaggio misto dei paesi NATO. Progetto peraltro abbandonato anche per le riserve francesi e britanniche sulla inclusione della Repubblica federale.
La Ostpolitik diviene l’asse costitutivo del governo di B. e del suo ministro degli Esteri, Walter Scheel. La politica di Adenauer, a differenza di quella di Bismarck, non si era retta su una forza autonoma, bensì sulla disponibilità occidentale ad accettare come proprio il conflitto di Bonn con l’Unione Sovietica e a subordinare la strategia della distensione all’unità nazionale. Per B., dopo le crisi di Berlino e di Cuba, l’incubo dell’isolamento non è meno angoscioso di quello delle coalizioni. Nei tre anni del suo governo la Repubblica federale esce dalle trincee della Guerra fredda per divenire l’interlocutore privilegiato dell’URSS in Europa. I trattati con l’Unione Sovietica, la Repubblica Democratica Tedesca, la Polonia saranno l’equivalente di trattati di pace a conclusione della Seconda guerra mondiale.
B. recupera una lezione di Bismarck: mai tagliare i legami con San Pietroburgo. Decide di rendere legittime le conquiste sovietiche della Seconda guerra mondiale, anche perché si rende conto, secondo un’espressione del capogruppo dell’SPD in Parlamento, Herbert Wehner, che si può anche stare su una gamba sola, in questo caso l’ancoraggio occidentale, ma su una gamba sola non si può camminare. L’obiettivo della distensione non è il rovesciamento bensì la lenta trasformazione della condizione che i trattati sanzionano: “revisione attraverso la rassicurazione”. Respinto il bipolarismo ai margini dell’Europa, il centro sarà più libero di convenire, se non un destino comune, almeno una diversa convivenza. Ma per realizzarla sono necessari, all’interno dei due schieramenti, una disciplina meno rigida ed una fiducia reciproca più alta, perché la potenza egemone non sia costretta ogni volta a riaffermare il proprio imperio. Il peso della Repubblica federale deriva dalla collocazione strategica, dalla integrazione con l’Occidente, dalla sua dimensione economica: Bonn impara a salvaguardare il suo peso a Ovest per sfruttarlo a Est. La “primavera di Praga” non modifica il quadro negoziale della distensione: ne ribadisce piuttosto la necessità, evidenziandone nel contempo i limiti.
Le componenti della nuova politica sono: il legame con l’Occidente e in particolare con gli Stati Uniti; il consenso sovietico; la cooperazione economica e commerciale; una stabilità tale da rassicurare i detentori del potere nell’altra Europa; il rinvio degli obiettivi di lungo periodo in favore di modesti più immediati miglioramenti quotidiani. L’Europa di B. è quella che può essere immaginata da Berlino, come quella di Bismarck era stata pensata a partire dalla Prussia e quella di Adenauer muovendo da Colonia. Così, preliminarmente, B. opera tre concessioni. Conferma anche verso Mosca l’impegno alla non proliferazione nucleare che Adenauer aveva assunto solo nei confronti dei partner occidentali; asseconda i negoziati per la convocazione, a partire dal 1972, di una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che avrebbe sanzionato i risultati di Yalta; si rende disponibile a maggiori scambi economici e tecnologici. Nel breve cancellierato di B. i tre interlocutori principali sono Richard Nixon, Georges Pompidou e Leonid Brežnev.
La prima metà degli anni Settanta è caratterizzata dal proposito di Richard Nixon e di Henry Alfred Kissinger di perseguire una Realpolitik su scala globale. L’equilibrio avrebbe potuto essere modificato dalla sola Germania, se avesse deciso di subordinare tutto alla riunificazione. Nixon preferisce assecondarne la Ostpolitik piuttosto che rischiarne un distacco dalla NATO o dall’Unione europea. A Washington non mancano sospetti e incomprensioni. B. non ama Kissinger, che ritiene ragioni secondo le categorie concettuali di Bismarck e di Metternich. Mentre Kissinger diffida delle radici socialiste di B. e della sua volontà di andare troppo in fretta. Nelle memorie il segretario di Stato apprezza «il lungo viaggio del cancelliere dalla resistenza alla conciliazione» ma gli nega la capacità di «dominare quelle stesse forze che egli aveva scatenato»: ha cambiato il corso della storia ma, ad un certo punto di essa, «si è reso irrilevante» (v. Kissinger, 1982, p. 144).
Nei rapporti con la Francia già il ministro degli Esteri della “grande coalizione” aveva potuto confrontarsi con Charles de Gaulle. Questi aveva sempre mostrato considerazione per B., uomo della distensione e quindi vicino alla sua idea di un’Europa dall’Atlantico agli Urali e anche simbolo della resistenza al nazismo. De Gaulle ragiona secondo categorie storiche, usa ad esempio chiamare la DDR “Prussia”. Georges Pompidou ne raccoglie l’eredità: la forza nucleare; l’alleanza franco-tedesca; la non partecipazione al Comando integrato della NATO. Non ne condivide invece l’animosità verso gli Stati Uniti, la immagine di una Francia come egualmente minacciata dalle due superpotenze. B. e Pompidou non sono particolarmente vicini. Pompidou è un banchiere orgoglioso delle sue origini contadine, più antitedesco che antibritannico, esente dalla diffidenza gollista verso la “congiura” anglosassone. Per di più teme una eccessiva crescita della Germania attraverso la Ostpolitik. È una delle ragioni per le quali lascia cadere l’opposizione all’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea, e tuttavia trova in B. un alleato. B. giudica Danimarca e Norvegia, le loro socialdemocrazie a forte vocazione sociale, come pure la tradizione democratica britannica, altrettanti elementi suscettibili di arricchire il progetto dell’unificazione europea. Il primo ministro britannico Edward Heath è a sua volta alla ricerca di nuove vie della pace, attraverso l’integrazione continentale e la distensione con l’Unione Sovietica. Heath aveva viaggiato nella Germania nazista, assistito al processo di Norimberga. In un discorso ai Comuni nel primo dopoguerra aveva invocato una «Germania europea e non di un’Europa tedesca». È consapevole dei limiti dello Stato nazionale: «La sovranità non è qualcosa da depositare nei sotterranei come le riserve di oro per scendervi una volta la settimana a verificare che essa sia ancora lì» (v. Young, 1999 p. 246). B. e Heath rifiutano di seguire le piste battute per molti anni, monotonamente, dai loro predecessori.
Il mandato di B. coincide quasi perfettamente con quelli di Nixon e Pompidou, ma il rapporto personale più cordiale è con Brežnev. Bonn mette da parte le divergenze inconciliabili in favore di un nuovo modus vivendi riassunto nei concetti di distensione, cooperazione e normalizzazione, senza pregiudizio della diversa visione su questioni fondamentali, inclusa quella nazionale. Riconosce la Repubblica Democratica Tedesca e la sua giurisdizione sovrana sul suo territorio, l’autonomia e l’indipendenza dei due Stati negli affari interni ed esterni. Già nella dichiarazione programmatica nell’ottobre 1969 afferma di voler muovere da un geregeltes Nebeneinander a un Miteinander. Il 19 marzo 1970 si reca a Erfurt, nel cuore di quelli che erano stati i luoghi storici della socialdemocrazia, delle sue ricorrenti elaborazioni programmatiche (Eisenach; Gotha; Erfurt) per incontrarvi Willi Stoph, primo ministro della DDR. L’occasione nella quale riceve, sotto le finestre del suo albergo, una spontanea e improvvisata manifestazione di affetto dai cittadini dell’altra Germania è, nelle parole del cancelliere, «l’evento più carico di emozione della mia vita».
Il trattato con l’Unione Sovietica, cinque articoli ed un preambolo, firmato il 12 agosto 1970, crea il quadro di riferimento generale. La concessione più importante è nel riconoscimento della “situazione realmente esistente in Europa” e nel solenne impegno a rispettare l’inviolabilità delle frontiere di tutti gli Stati europei, inclusa quella con la Polonia. I sovietici avrebbero voluto definire le frontiere “immutabili” e non “inviolabili”, aggettivo quest’ultimo che lascia aperta una pacifica riunificazione. Un nuovo scambio di lettere, che richiama quello tra Adenauer e Bulganin nel settembre 1956, impegna la Repubblica federale a lavorare per la pace in un’Europa nella quale «la Germania possa recuperare la propria unità attraverso il libero esercizio della autodeterminazione». Una Risoluzione del Bundestag del maggio 1972 precisa, con il concorso dell’opposizione, che i trattati di Mosca e Varsavia non sostituiscono il trattato di pace. Alla firma del trattato, B. dichiara che venticinque anni dopo la capitolazione del Reich e quindici anni dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche è giunto il tempo di dare un nuovo fondamento ai rapporti con i vicini dell’Est: «niente è perduto che non sia già andato perduto a causa del criminale sistema nazionalsocialista»; è giunto il momento di «accettare i risultati della storia».
Il successivo Trattato di Varsavia, il 7 dicembre 1970, altrettanto breve, riconosce in primo luogo la frontiera dal Baltico, a Ovest di Swinemünde, lungo l’Oder e il Neisse, fino al confine con la Cecoslovacchia. Se ne conferma la inviolabilità, come si ribadisce il rispetto della integrità territoriale, presupposto per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. La Repubblica federale non avanzerà, neanche in futuro, alcuna rivendicazione. Ma una Germania riunificata sarà chiamata a sottoscrivere un nuovo trattato. Grande è il seguito che accompagna B. a Varsavia, per un evento che segna l’abbandono definitivo della Slesia, della Pomerania della Prussia orientale. B. si inginocchia dinanzi al monumento dei caduti del ghetto, uno dei grandi gesti di riconciliazione del dopoguerra, come la Messa di de Gaulle e Adenauer nella cattedrale di Reims. Dirà poi di aver fatto «sotto il peso della storia più recente ciò che gli uomini fanno allorché vengono meno le parole». Il “Time” lo proclama l’uomo dell’anno, per la terza volta un tedesco, dopo Hitler (1938) e Adenauer (1953). B. riceve anche il Premio Nobel per la pace, dopo Stresemann (1926); Ludwig Quidde (1927), un fautore del disarmo, Karl von Ossietzky (1935), un oppositore del nazismo.
L’accordo su Berlino delle quattro potenze è del 3 settembre 1971, un compromesso non privo di ambiguità, oggetto di controversia negli anni a venire, disciplina l’accesso tra le due Germanie secondo certe condizioni e procedure. Continua il controllo alleato sulla Germania, ma Bonn non è più sola di fronte all’Unione Sovietica e gli abitanti della città sono sottratti al permanente stato di assedio. La ex capitale diviene oggetto di una politica di sicurezza più che di riunificazione, la Repubblica federale rinuncia a eleggervi il proprio Parlamento ed a tenervi sedute del Bundestag e del Bundesrat. Per superare le resistenze dei tedeschi della propria parte, i sovietici sostituiscono nel maggio 1971 Walter Ulbricht con Erich Honecker ai vertici della DDR. Il dibattito nel Bundestag sui Trattati dell’Est, nel marzo 1972, è uno dei momenti più alti della storia parlamentare tedesca, paragonabile al grande confronto oratorio del 1848-49 nella Paulskirche di Francoforte.
Il Trattato fra le due Germanie, invece, è concluso l’8 novembre 1972. Bonn non riconosce il secondo Stato tedesco come straniero e non lo rivendica tuttavia come parte integrante del proprio territorio. La Repubblica federale aiuta l’altra Germania a sopravvivere, nel contempo ne mina la legittimità e tiene aperta la questione nazionale. Abbandona la pretesa di parlare a nome dell’intera Germania, rimane peraltro la posizione giuridica secondo la quale esiste una sola cittadinanza. Quella della DDR è dunque una sovranità ambigua e dimezzata. Tra le due Germanie solo nell’estate del 1974 si procede allo scambio di “Rappresentanze permanenti” presso quelle che vengono definite le «realtà dei rispettivi governi».
Le elezioni del 1972 si svolgono sotto il segno dei trattati ed il governo le trasforma in un plebiscito a proprio favore sulla distensione e sulla pace. L’insieme degli accordi, legati reciprocamente e politicamente, rafforza la posizione di B. A Ovest i tedeschi acquistano maggior peso, a Est più ampio margine di manovra. Il quadro è completo con lo stabilimento di relazioni diplomatiche con Ungheria e Romania e la difficile conclusione di un trattato con la Cecoslovacchia. Il negoziato, dopo la “normalizzazione” imposta da Gustav Husak, è reso più difficile dalla disputa sulla invalidità ex tunc oppure ex nunc degli Accordi di Monaco.
La Ostpolitik si inserisce nel quadro più vasto del processo di Helsinki, che coinvolge le due Europe, le due Germanie, Stati Uniti e Canada. Un piccolo triangolo Bonn-Mosca-Berlino all’interno di un triangolo più grande, Stati Uniti-Unione Sovietica-Repubblica federale, sullo sfondo della fine del sistema finanziario di Bretton Woods. Il processo è conforme alla nuova cultura tedesca del consenso, del negoziato, del multilateralismo. Se il Rapporto Harmel ne è in qualche modo la Bibbia, l’Atto finale di Helsinki ne costituisce il Libro delle preghiere e gli atti successivi una sorta di corpus juris canonico. Kissinger vi aderisce in cambio del negoziato per una riduzione delle forze convenzionali, con una singolare inversione dei ruoli: il segretario di Stato segue i vecchi schemi degli equilibri continentali; gli europei piuttosto lo spirito messianico di Woodrow Wilson e la sua fiducia nella democrazia e nella autodeterminazione.
Per i sovietici Helsinki significa l’unificazione economica dell’Europa attraverso la sua divisione politica. Il compromesso è tra riconoscimento delle frontiere e vantaggi materiali da un lato, diritti umani dall’altro, secondo un nuovo concetto di interdipendenza, anche se le rimostranze sulla libertà sono più spesso respinte da Mosca come interferenze negli affari interni. Da un lato il campo orientale, forte del vantaggio dell’uti possidetis, assiso sulle sue conquiste del 1945, 1956, 1968, come il drago Fafner sul tesoro nibelungico: Ich sitze und besitze. Dall’altro gli europei occidentali che si giovano di una generica protezione americana, come Enea dello scudo di Venere, e combattono con le armi leggere ed appuntite che da secoli sono le loro, restaurando la diplomazia del movimento contro l’immobilismo e il tentativo di fermare la storia, contro i muri visibili e invisibili eretti per impedire il dialogo tra gli uomini. Diviene così possibile lavorare anche sul fronte di un’Europa più larga, che includa i neutrali e crei le condizioni per collaborare meglio con l’Europa comunista e in primo luogo con quella tedesca.
Predicare l’interdipendenza per raggiungere l’indipendenza. La logica è dialettica, riconoscere lo status quo per superarlo. Gli stessi termini per riconciliazione (Ver– oppure Aussöhnung) si caricano di significato emotivo e quasi religioso e in essi l’espiazione (Sühne) ne è parte integrante. L’approccio tedesco nell’altra Europa è più accetto ai leader che non ai dissidenti della loro società civile. Se infatti la prima parte della formula centrale della Ostpolitik (“mutamento attraverso il ravvicinamento”) si dimostra giusta; la seconda, “liberalizzazione attraverso la stabilizzazione”, si rivela illusoria. Le tensioni sociali nei regimi dell’Est derivano dai loro squilibri interni e non dalle pressioni esterne. Se anche la Repubblica federale avesse cessato di concedere automaticamente la propria cittadinanza ai sudditi dell’altra Germania, questo non la avrebbe resa più accettabile. Alla stabilizzazione non seguirà la liberalizzazione. Per di più in alcuni momenti la strategia della Repubblica federale è sembrata come una rinuncia alla libertà: lo dirà Václav Havel alla Fiera del libro di Francoforte del 1989. Il realismo di cui B. parla ripetutamente è apparso in qualche caso vicino al cinismo. Certo B. sa che le rivoluzioni del 1953, del 1956, del 1968 non hanno portato a nulla. Non è, la sua politica, il riflesso del giudizio sui tedeschi nella Montagna incantata di Thomas Mann («amate l’ordine più della libertà, tutta l’Europa lo sa»). Se già Adenauer, nel lasciare il potere nel 1966, aveva detto che «la pazienza è l’arma più forte dei popoli sconfitti», B. ama definirsi un «patriota con responsabilità europee».
La socialdemocrazia tedesca sarà nondimeno posta sul banco degli imputati per la tendenza che avrebbe avuto a condiscendere al di là del necessario, una volta seppellita la lucida intransigenza di Schumacher, per gli sforzi compiuti al fine di assottigliare anche ideologicamente la discordia con i comunisti orientali, per le molte compromissioni cui l’SPD consente al pari di altri socialismi europei. Secondo l’accusa, i compromessi minano sottilmente nei paesi occidentali la attitudine non solo ad appoggiare le resistenze antitotalitarie, ma anche a comprenderle, seguirne l’evoluzione, valutarne le potenzialità. Simili cedimenti avrebbero avuto effetti perversi, non si sarebbero limitati a svalutare le aspirazioni dei popoli in cattività: avrebbero ristretto la libertà stessa nelle acque spesso stagnanti della distensione (v. Ash, 1993, pp. 279-298).
Nel momento del massimo trionfo comincia per B. il declino, percepibile anche nel suo distacco dagli altri due più autorevoli membri dell’SPD, Helmut Schmidt, il superministro dell’Economia, Herbert Wehner, capogruppo al Bundestag. Aumenta la distanza del cancelliere dagli affari interni. Emergono ostacoli nella politica verso l’Est, a cominciare dalla interpretazione dei trattati. Non mancano i contrasti con la sinistra del proprio partito, per le sue reticenze sul Vietnam. Il ravvicinamento con l’Unione Sovietica, culminato del viaggio a Bonn di Brežnev, nel maggio 1973, mostra i suoi limiti. Anche massicce importazioni di tecnologia restano senza effetto in un sistema rigido sino all’immobilismo. Brežnev, inoltre, insiste sui legami bilaterali, mentre B. vorrebbe parlare a nome dell’Europa.
Fuori dall’Europa, B. prosegue la politica di Adenauer per la riconciliazione con Israele. Golda Meir, in occasione della prima visita di un cancelliere, nel giugno 1973, ne esalta il comportamento «nell’ora più buia dell’umanità». Incontra Ben Gurion, che si è ritirato a vivere nel deserto del Negev, profeta più che politico e riscopre, visitando un kibbutz, alcune delle radici del socialismo europeo.
Anche nei confronti degli Stati Uniti B. invoca un ruolo maggiore di quello che Kissinger vorrebbe assegnarli, rivendica “un partenariato emancipato”, una “corresponsabilità globale”. Tensioni affiorano anche perché la Francia, a seguito del boicottaggio arabo, cerca una posizione comune europea che infastidisce Washington. L’ultimo incontro con Nixon, nel settembre 1973, è tra due leader che si apprestano a lasciare la scena. Nel gennaio 1974 la Francia esce dal Serpente monetario della Comunità economica europea perché non in grado di rispettarne le parità, un meccanismo che nel marzo 1972 era stato proposto dai due ministri delle Finanze Schiller e Valéry Giscard d’Estaing.
Lo scandalo Guillaume pone fine al cancellierato di B. Uno dei suoi più stretti collaboratori si rivela una spia della DDR, pericolosa non tanto per i documenti trafugati quanto per la capacità, grazie alla vicinanza personale con il cancelliere, di rivelarne i più segreti giudizi. B. lascia il 5 maggio 1974, in un modo quasi distaccato e con una dignità che fra l’altro colpisce favorevolmente nel confronto con il diverso, quasi contemporaneo abbandono di Nixon.
B., che resta presidente della SPD, diviene anche, a partire dal 1976, presidente della Internazionale socialista di François Mitterrand, Wilson, Olof Palme, Bettino Craxi e Felipe Màrquez González. È orgoglioso dell’appoggio fornito alla nascente democrazia portoghese come aveva fatto con quella spagnola sin dalla stagione della clandestinità. Nel dicembre 1977 assume la Presidenza della Commissione delle Nazioni Unite sui rapporti Nord-Sud, che conclude i lavori nel febbraio 1980. Ma resta senza seguiti la sua principale raccomandazione, vertici periodici ed informali dei principali leader politici dei due emisferi.
La decisione della Repubblica federale, nel quadro dell’Alleanza atlantica, di accettare nel dicembre 1979 lo schieramento degli euromissili sul proprio territorio per riequilibrare la minaccia sovietica degli SS-20, accompagnata da un invito a negoziarne lo smantellamento reciproco, divide B. da Helmut Schmidt, che gli è succeduto come cancelliere. B. inoltre, a differenza di Schmidt, è fautore di un partito che privilegi il rapporto con i giovani e sia sensibile alle istanze dei pacifisti, degli ambientalisti, degli avversari dell’energia nucleare. A partire dal 1987 mantiene solo la Presidenza onoraria della SPD ed in questa veste è partecipe della caduta del muro e della riunificazione, spinge i socialisti a superare le loro molte esitazioni e cautele in un’ora decisiva. Celebra l’evento con le parole di Lincoln: «A house divided in itself cannot stand».
Nonostante la sua immensa popolarità e la sua straordinaria comunicativa, B. resta fino in fondo un uomo segreto, afflitto da ricorrenti, insondabili malinconie, riflesso forse delle tante drammatiche prove racchiuse nella sua vicenda personale e politica. Alla sua morte gli viene riservato un funerale di Stato, come era successo soltanto a Rathenau e a Stresemann, due predecessori ai quali aveva voluto ispirarsi. Il Presidente della Repubblica Richard von Weizsäcker ricorda il gesto di Varsavia che «nessuno si aspettava. Nessuno ha dimenticato. Ha mutato la realtà. Ha indicato ai popoli nuove vie». Il cancelliere Kohl (Kohl, Helmut) definisce B. «l’uomo della riconciliazione sia tra l’Est e l’Ovest che tra il Nord e il Sud». Felipe González porta il saluto del socialismo europeo. Rudolf Augstein scrive su “Der Spiegel” che in precedenza soltanto la morte dell’imperatore Federico III e di Adenauer aveva avuto sui tedeschi un impatto altrettanto grande. Richiesto al momento di lasciare la presidenza del partito, nel 1987, quale fosse stato il motivo ispiratore della sua politica, B. aveva risposto senza esitazione «la libertà». Era stato fedele al testamento di Bebel in favore di una Germania patria della solidarietà e della giustizia. Aveva attraversato per intero il secolo breve dei due massimi totalitarismi e li aveva combattuti entrambi.
Silvio Fagiolo (2010)