Caffi, Andrea
C. nacque a Pietroburgo il 1° maggio 1887. Il padre, un alto funzionario dei teatri imperiali di origine bellunese, gli fece frequentare la “scuola riformata” di Pietroburgo, un liceo di grande prestigio per qualità di docenti e apertura internazionale. Iscritto in seguito all’Università di Berlino. frequentò i corsi di Georg Simmel ed ebbe come condiscepoli Antonio Banfi e Giacomo Perticone. Allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruolò volontario nell’esercito francese e, negli anni successivi, fu spettatore in Russia di una rivoluzione che, per i suoi esiti totalitari, finì per deluderlo profondamente. Eguale delusione, di lì a poco, gli avrebbe riservato il paese dei padri – scelto nei primi anni Venti come sua dimora – caduto vittima della dittatura fascista. Riparato in Francia, si stabilì prima a Versailles (1926-1929), dove collaborò al periodico culturale “Commerce” – una rivista che ospitò intellettuali come André Gide, Paul Valéry, André Malraux – e poi a Parigi dove, nel 1932, conobbe Nicola Chiaromonte ed ebbe inizio il sodalizio col movimento di Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà, interrotto, per ragioni politiche e culturali, nel 1935. Trasferitosi, l’anno dopo, a La Seyne sur Mer, vi rimase fino al 1938 quando tornò a Parigi, per riprendere, nel 1939, la via del sud. Furono gli anni che lo videro vicino al gruppo dirigente del Partito socialista italiano (PSI) e, in particolare, Giuseppe Faravelli ed Emilio Zannerini, con i quali firmò, nel 1941, la mozione che invitava le forze antifasciste a collaborare, sia pure a certe condizioni, alla guerra degli Stati democratici contro l’Asse. Con l’occupazione tedesca di Tolosa, nel 1942, C. continuò nella clandestinità la sua intensa attività politica e culturale ma non poté evitare nel 1944 l’arresto e le torture della milizia di Darmand.
Nel secondo dopoguerra, seguendo la sua vocazione di tessitore di collegamenti spirituali di confine, intrattenne rapporti con i più rappresentativi esponenti, italiani ed europei, della “repubblica delle lettere”, da Albert Camus a Franco Venturi, da Aldo Capitini a Nicola Chiaromonte. Quest’ultimo continuò a pubblicare sulla rivista “Tempo presente”, anche dopo la morte di C. – avvenuta a Parigi il 22 luglio 1955 – i suoi scritti e appunti, frammenti di una riflessione a tratti geniale e originalissima, incapace, tuttavia, di tradursi in opere compiute. C., infatti, come scrive il suo più autorevole biografo, Gino Bianco, «fu in un certo senso un testimone dell’impossibilità, per l’uomo del nostro tempo, di formulare un pensiero sistematico».
Mettere a fuoco le fonti e le letture di C. è impresa disagevole. Sicuramente influì sulla sua formazione il pensiero anarchico russo, e di esso più la linea che da Aleksandr Herzen porta a Lev Tolstoj che non quella che da Michail Bakunin porta a quel Pëtr Kropotkin che pure C. conobbe ed ebbe in grande stima, nelle prime fasi della rivoluzione russa. Non meno decisive, però, furono le lezioni berlinesi di Georg Simmel e, soprattutto forse, le letture del sociologo Georges Gurvitch che, con ogni probabilità, lo introdusse al pensiero di Pierre-Joseph Proudhon, un autore che avrebbe condizionato in maniera decisiva il suo Federalismo europeista. Se a questi pensatori si aggiungono “i profeti della crisi”, da Friedrich Nietzsche a José Ortega y Gasset, e la nuova letteratura europea, segnata dalla fenomenologia, dal primo esistenzialismo, dalla psicanalisi si può avere un’idea pur se ancora approssimativa dell’orizzonte culturale in cui si muoveva C., profondo conoscitore, tra l’altro, dei classici dell’Occidente antico e moderno.
Avvicinato spesso a figure come Hannah Arendt, Walter Benjamin, Theodore W. Adorno, C. sentì penosamente come loro il “male del secolo” – il totalitarismo – non come una parentesi, un incidente di percorso, bensì come l’approdo di una modernità “deviata” che, in nome dell’emancipazione, stava disseccando le fonti della vita e del mito.
Negli anni passati, gli studiosi hanno evidenziato nel pensiero di C. il nesso tra la critica implacabile dello Stato nazionale e il progetto federalista. «Finché vi sono Stati, era la tesi del saggio del 1935, Semplici riflessioni sulla situazione europea, «il sacro egoismo è la legge suprema, massima intelligenza […] Quello che porta l’Europa alla guerra non è il fascismo, ma l’assetto dell’Europa, divisa in Stati sovrani. Le spartizioni territoriali, i “corridoi”, le minoranze nazionali, la rovina economica creata dalle barriere doganali, non è il fascismo che li ha inventati o creati». Nel brano erano contenuti in nuce una interpretazione del fascismo e della guerra tanto acuta quanto storiograficamente sfortunata ma, insieme, un processo alla formazione dello Stato nazionale – alle origini della rottura col mazziniano Rosselli – che rivelava l’influenza di Proudhon sul suo appassionato lettore.
La presenza dell’anarchico francese, in effetti, si avverte in tutta la produzione di C.: sia nella critica del Risorgimento e dei suoi valori patriottici e nazionali, sia in quella della democrazia rappresentativa, sia, infine, nella denuncia dell’alienante burocratizzazione dei rapporti interpersonali prodotta da qualsiasi tipo di Stato. In uno scritto del dopoguerra, particolarmente significativo e ricco di accenti prefoucaultiani, L’avvenire del romanzo, si legge: «Lo Stato civile uniforme, democratico, laico, è un particolare necessario di quel rimaneggiamento del regime sociale e dello Stato che ha stabilito l’eguaglianza davanti alla legge, la coscrizione, la potenza in certo senso assoluta e impersonale del danaro, la libertà di esercitare una professione e di cambiare. L’intenzione sembrava esser quella di sopprimere per astrazione o d’ignorare radicalmente ogni “qualità intrinseca”, in quell’“unità” i cui caratteri distintivi si esprimevano in “grandezze” di tempo, di spazio, di volume, di livello, eccetera (classe d’età, domicilio, numero del reggimento, anni di servizio, reddito imponibile, diploma, patente, passaporto, “integrazione” in questa o quella colonna di cifre statistiche). Il risultato era, naturalmente, di ribadire la potenza e la supremazia del generale sul particolare, della macchina sociale sull’individuo».
L’attualità di C., tuttavia, non sta tanto nell’aver richiamato l’attenzione su processi di alienazione individuale e collettiva pur indotti dall’avvento della modernità, quanto nell’aver preservato dall’oblio il prodotto più alto della civiltà europea e occidentale, la “società”, intesa – in un’accezione cui non è estranea la lezione di Simmel – come «l’insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei, e in certo qual modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l’apparenza della libertà nella scelta delle relazioni nella loro durata e nella loro rottura: le pressioni non vi si esercitano, che con mezzi “morali”, mentre i moventi utilitari sono o realmente subordinati, oppure mascherati dalla politesse, dal piacere che si ha di trovarsi in mezzo ai propri simili, dalla solidarietà affettiva che si stabilisce naturalmente fra i membri di un medesimo gruppo. Intesa in questo senso, la “società” esclude per principio ogni costrizione, e soprattutto ogni violenza».
In polemica con una lettura materialistica della storia, ma senza indulgenze idealistiche, C. individuava nelle libere associazioni religiose, nei cenacoli dell’illuminismo, nei circoli dotti in cui si sottoponeva il potere alla critica disinteressata della ragione “umana”, la potenza spirituale in grado di minare «l’edificio del dispotismo di Luigi XIV come quello dell’autocrazia di Pietro il Grande». «Nel suo significato primordiale», ricordava C. anticipando la Arendt, «la nozione di politica si ricollega alla città greca, dove lo Stato, la società e il popolo erano (press’a poco) una sola e medesima realtà, e cioè una permanenza di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali volevano esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato ordine. Aristotele designa tali rapporti col termine di philìa».
Dino Cofrancesco (2010)