Camus, Albert
C. (Mondovì, 7 novembre 1913-Villeblevin, 4 gennaio 1960) è stato uno scrittore e attivista franco-algerino, vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1957. Dotato di una grandissima versatilità ha contribuito in maniera decisiva alla temperie artistica e intellettuale del XX secolo con un insieme di scritti che spaziano dal romanzo, alla drammaturgia, dalla saggistica filosofica a quella politica. In qualità di attivista e di intellettuale – di testimone che giudica “dall’interno” l’epoca a cui appartiene, accettando allo stesso tempo con gioia «la capacità di creare e l’onore di vivere» – si è battuto con forza contro i totalitarismi, contro l’avvilimento umano in ambito sociale e politico, contro la pena di morte, in favore della democratizzazione della vita internazionale, di una soluzione federale per la questione algerina e, a varie riprese, per un’unificazione politica dell’Europa. In tal senso è bene notare come quest’ultimo sforzo vada di pari passo con lo sviluppo di una riflessione originale sul concetto di “civiltà europea” che C., nato in Algeria e profondamente influenzato dal suo rapporto con lo spazio mediterraneo, non ha mai smesso di alimentare.
In una celebre conferenza ateniese del 1955 – L’avenir de la civilisation européenne – la civiltà europea appariva a C. come «il luogo della diversità di opinioni, delle contrapposizioni, dei valori contrastanti e della dialettica che non arriva mai a una sintesi». In tal senso, questa “civiltà pluralista” era prodotta da una persistente tensione. Non a caso, qualche anno prima, lo scrittore franco-algerino aveva creduto d’individuarne l’essenza in uno scontro sempre rinnovato tra due opposti principi: quello della dismisura nichilistica/assolutistica e quello della rivolta che dice no alla stessa in nome di una comune umanità. Per dirla con un celebre passo dell’Homme révolté (1951), «L’Europa non è mai esistita al di fuori di questa lotta tra il meriggio e la mezzanotte», lì dove il “meriggio” incarna l’esigenza di un criterio di valutazione dell’esistente – misura – connesso alla “natura umana” – ovvero alla capacità unica dell’uomo di rifiutare «di essere ciò che è» – mentre la “mezzanotte” rappresenta l’adesione a una visione fondata sulla totale disponibilità, strumentalità e plasmabilità – o dismisura – dell’uomo da parte dell’uomo. Il primo concetto viene a più riprese inteso tramite la metafora del Mediterraneo, di uno spazio e di una cultura che grazie alla sua luce vitale è capace di riconciliare gli uomini nel loro rapporto universale con la natura, nella loro fondamentale eguaglianza esistenziale, lì dove il secondo è invece concepito nei termini di un Settentrione in cui l’uomo, divinizzatosi, combatte contro la natura, nel discorso di una “ideologia tedesca” che riduce il mondo a un “deserto” e che, tramite il culto della conquista, divide l’uomo dall’uomo. In tal senso per C. – non essendo ancora terminata la lotta – sono possibili diverse idee d’Europa e, con esse, restano aperte diverse prospettive future per la civiltà del vecchio continente. Non a caso – nelle sue Lettres à un ami allemand, 1945 – ricorderà al suo interlocutore nazista che «noi non parliamo lo stesso linguaggio, la nostra Europa non è la vostra», per sottolineare come «io so che quando voi dite Europa […] voi non potete esimervi dal pensare a una coorte di nazioni docili guidate da una Germania di feudatari verso un avvenire favoloso e insanguinato […] l’Europa è a vostro avviso questo spazio circondato di mari e di montagne, tagliato da dighe, scavato dalle mine, coperto di messi nel quale la Germania gioca una partita in cui il suo solo destino è in gioco. Ma essa è per noi quella terra della ragione dove da venti secoli si persegue la più incredibile avventura dello spirito umano. Essa è quell’arena privilegiata in cui la lotta dell’uomo occidentale contro il mondo, contro gli dei, contro se stesso, raggiunge oggi il suo momento più difficile. Come vedete, non abbiamo una comune misura». Questa incommensurabilità ideale spiegava l’impegno di C. contro il nazionalsocialismo a fianco della Resistenza francese. Allo stesso tempo – proprio nella misura in cui l’Europa veniva descritta come la terre de l’esprit della lotta esistenziale dell’uomo, della rivolta – lo scrittore franco-algerino si rendeva conto che essa non poteva rinunciare alla lotta stessa senza far venire meno quella tensione che la caratterizzava come civiltà.
Proprio per questo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, il problema denunciato da C. diveniva quello di un’Europa che si degradava, rischiando di morire a causa di un pigro e cinico appiattimento sull’esistente. Un continente spirituale che finiva per disertare «questa lotta, facendo eclissare il giorno dalla notte», ovvero per accettare la legittimità del mondo coevo così com’era secondo i dettami di quanti pensavano che in Russia si fosse realizzato il socialismo e in America il liberalismo. A partire da questa premessa storicistica, questi ultimi sostenevano che fosse necessario scegliere tra i due campi dati in vista di un inevitabile conflitto finale. Ad avviso dello scrittore franco-algerino, piuttosto che prendere partito tra queste due opzioni totalizzanti, occorreva invece riaffermare la possibilità di un compromesso vitale tra giustizia sociale e libertà, una tensione generatrice che poteva alimentarsi pacificamente solo in Europa. Occorreva quindi – come scriveva in L’exil d’Helene, 1948 – lottare per fare sì che l’Europa scegliesse la creazione al posto dell’inquisizione, la misura al posto della dismisura, la costruzione di un nuovo ordine pacifico al posto dell’ennesima guerra mondiale che il nuovo spirito teocratico sembrava imporre come un destino per il vecchio continente. In tal senso gli europei dovevano manifestare ancora una volta la volontà di rivoltarsi contro l’esistente, di rifiutare la deriva barbarica che, fille de la desmesure, spingeva la società dell’epoca verso la bruttezza e la disperazione. Ma esisteva una tale volontà nel contesto occidentale del secondo dopoguerra, segnato dal coesistere di ideologie totalizzanti e dalla scarsa tendenza vitale di classi borghesi inclini a “vegetare”? A riguardo di quest’“Europa borghese”, nella conferenza ateniese precedentemente citata, C. affermava «vedo solo un nichilismo individualista, quello che consiste nel dire “noi non vogliamo né romanticismo né eccessi, non vogliamo vivere ai confini, né conoscere la sofferenza”. Se non volete vivere ai confini né conoscere la sofferenza, non vivrete, e, in particolare, la vostra società non vivrà». Contro il rischio di questo “fallimento morale” C. affermava la necessità di una rinnovata azione politica volta a far rinascere, con la sua estenuante tensione, la civiltà europea.
L’attenzione dell’intellettuale franco-algerino al riguardo era rivolta, sin dagli anni Trenta, a una rilettura dell’“internazionalismo”. Quest’ultimo, in una conferenza dedicata alla “Nuova cultura mediterranea” (1937), era indicato come quella forza che stava cercando di restituire alla civiltà occidentale «il suo autentico significato e la sua vera vocazione» contrapponendosi al nazionalismo di marca fascista. Contro le divisioni particolaristiche e le mitologie gerarchiche sostenute da quest’ultimo occorreva infatti promuovere un nuovo principio politico capace di unire l’Occidente rilanciandone la cultura comune. Si univa a questa presa di posizione la convinzione, affermata già nelle pagine di Le Soir républicain (1939-1940), che il federalismo fosse la soluzione giusta per creare un nuovo ordine internazionale democratico, giusto e stabile. Gli sviluppi della Seconda guerra mondiale lo avrebbero portato ad approfondire siffatta tematica. La guerra, secondo C., mostrava chiaramente come il mondo dello Stato nazione fosse definitivamente tramontato. La sfida, per la Francia e per l’Europa, diveniva allora, come scriveva in Combat il 3 novembre del 1944, quella di «creare una nuova civiltà o perire». Sfida inevitabile nella misura in cui l’Europa si trovava in una condizione di piena interdipendenza economica che rendeva indispensabili, dinnanzi all’inefficacia delle politiche nazionali, delle soluzioni internazionali che andassero nella direzione di una crescente solidarietà e integrazione tra gli europei. In tal senso occorreva procedere al più presto verso una federazione economica europea che tenesse conto di questa interdipendenza di fatto. Quest’ultima avrebbe messo le basi per un’indispensabile federazione politica che avrebbe sostituito gli Stati nazione con una nuova entità politica. Infatti, come affermava sempre su Combat (3 dicembre 1944), «Il giorno in cui saranno gettate le basi di una federazione economica dell’Europa, allora la federazione politica sarà possibile». D’altronde, considerate le nuove dinamiche della politica mondiale, non si poteva restare prigionieri del modello del passato. La Seconda guerra mondiale aveva definitivamente aperto il campo all’azione delle potenze extraeuropee che, organizzate su scala continentale, conducevano una politica che era ben al di là delle forze dei singoli Stati nazione. In un articolo del maggio 1945 – Remarques sur la politique internationales – C. denunciava l’attitudine di quegli europei dalla mentalità nazionalista che si ostinavano a vivere «nella confortante idea della loro superiorità culturale» mentre i russi e gli americani pensavano e agivano “su scala mondiale”, finendo così per vivere da soli nel presente al contrario degli europei che si attardavano nel loro passato. In tali frangenti la Francia trovava nel suo fondamentale compito europeo l’unica possibile via attraverso cui ricostituirsi dopo la tragedia della guerra e le sue devastanti conseguenze. Siffatta azione, finalizzata alla nascita di una federazione europea, avrebbe nel tempo – come sottolineato in L’Espagne continue d’être pour nous une plaie qui ne se ferme pas (dicembre 1945) – contribuito a rafforzare la prospettiva di una futura “federazione mondiale”.
Sulla base di queste idee, C. tra il 1944 e il 1945 avrebbe preso contatto con Altiero Spinelli, collaborando attivamente al Comité français pour la fédération européenne (CFFE). In particolare avrebbe contribuito all’organizzazione e alla promozione della “Conferenza federalista di Parigi” del marzo 1945 e alla redazione della Déclaration dello stesso CFFE (giugno 1944) in cui si affermava la priorità dell’azione per la federazione europea – «il primo degli obiettivi» – ai fini della rinascita della democrazia, della pace, della libertà e della giustizia sul vecchio continente. Fondare la democrazia su una nuova base capace di portare quest’ultima oltre la dimensione nazionale era, secondo l’intellettuale franco-algerino, l’unica possibile via per quanti non volevano piegarsi a scegliere tra eguaglianza e libertà. Lo ribadiva nel 1946 – in Ni victimes ni bourreaux – dove spiegava come per far venire meno il regime di dittatura internazionale che si era creato con la Guerra fredda occorresse dare vita a un nuovo ordine democratico su base mondiale, che solo avrebbe potuto far venire meno la logica vittima/carnefice che stava contrassegnando il Novecento, da lui non a caso definito come “il secolo della paura”. Era necessario quindi istituire un “nuovo contratto sociale” che risolvesse il problema di un nuovo ordine internazionale. La democrazia infatti – come ribadiva C. nella prefazione a L’Espagne libre, 1946 – «non ha frontiere» e «se minacciata in un posto è minacciata dappertutto». Proprio per questo non si poteva chiudere il discorso sulla stessa all’interno dei singoli spazi nazionali. A sua volta la pace, secondo la stessa logica, non poteva essere difesa in un’Europa divisa «in un ammasso di nazioni miserabili». Proprio per questo C. non esitava – ancora nel 1947 – a firmare un Premier appel à l’opinion internazionale per l’unità dell’Europa che, oltre a contenere la definizione di cui sopra, raccoglieva l’adesione di altre figure importanti quali Simone De Bevoir, Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty ed Emmanuel Mounier. Su questa scia il suo impegno sarebbe continuato anche nel corso della collaborazione con il Rassemblement démocratique révolutionaire (RDR), nato nel 1948 con l’esplicito intento di rifiutare la politica dei “blocchi” sovietico e americano. Durante i diversi eventi del RDR C. avrà modo, insieme ad altri, di ricordare l’importanza degli “Stati Uniti d’Europa” e la necessità di un’unione del vecchio continente ai fini di un’effettiva pacificazione dello stesso. Si trattava, come si è visto, di una prospettiva che era andata crescendo nel corso di tutti gli anni Quaranta insieme a una critica ferma e complessiva di quanti ritenevano necessario schierarsi entro quella divisione del mondo in Est e Ovest che spaccava l’Europa esattamente a metà. Come ricordava in una polemica contro i sostenitori occidentali della Spagna franchista, «noi siamo di quelli che non vogliono tacere su niente. È la nostra società politica nel suo insieme che ci rivolta lo stomaco. Non ci sarà salvezza se non quando tutti coloro che valgono ancora qualcosa l’avranno ripudiata in tutto e per tutto, per ricercare una via di rinnovamento al di fuori delle sue contraddizioni insolubili».
Battendosi per questo rinnovamento C. si trovò, anche negli anni Cinquanta, a sostenere l’idea di un’Europa unita politicamente ed economicamente secondo una logica che non corrispondeva a quella fissata dalla Guerra fredda. La sua era una rivolta nei confronti di un mondo che agiva secondo logiche nichilistiche, alimentate da dottrine totalizzanti e incapaci di tenere conto della complessità della loro epoca. Sottolineava a riguardo – L’avenir de la civilisation européenne, 1955 – come le ideologie dell’epoca fossero «in ritardo di cento anni» ed era per tale ragione che esse reagivano «così male alle proprie innovazioni», avvitandosi in una spirale viziosa che le conduceva verso il ritorno alla dimensione assoluta della teologia. «Non c’è niente di più convinto della propria verità, – affermava – di un’ideologia andata a male». Contro questa deriva che coinvolgeva l’intero mondo della Guerra fredda si proponeva di difendere l’ideale di un’Europa pluralistica capace di andare oltre le chiusure provincialistiche e sovranistiche che allora la caratterizzavano. Siffatto ideale si sarebbe realizzato tramite una lotta ben precisa, volta a «superare gli ostacoli e a fare l’Europa, l’Europa finalmente, dove Parigi, Atene, Roma, Berlino, saranno i centri nervosi di un impero di mezzo […] che in un certo qual modo potrà svolgere il suo ruolo nella storia di domani». Un’Europa che non si sarebbe potuta fare solo sulla, pur necessaria, buona volontà dei popoli europei ma tramite delle istituzioni comuni in quanto l’armonia tra gli europei non sarebbe durata per sempre. Istituzioni che, come abbiamo già visto, nel corso della sua opera erano state immaginate come espressioni una federazione democratica capace di andare oltre la ristrettezza politica dello Stato nazione. Il fine a cui avrebbe dovuto rispondere tale visione federalista, come scriveva nel 1947, restava per lui quello di dare vita a «una società dei popoli libera dai miti della sovranità, una forza rivoluzionaria che non si appoggia sulla polizia e una libertà umana che non sia di fatto asservita al denaro».
C. non si nascondeva le difficoltà insite in tale azione, che considerava necessaria ai fini della piena riuscita dell’auspicata rivolta contro il mondo nichilistico che lo circondava. Ricordava che, restando tale Europa toujours à faire, occorreva intanto dare un contenuto ai valori europei, senza per questo tralasciare la lotta politica. Si proponeva, quindi, di fare il possibile per influire sulla storia sostenendo che il compito di un intellettuale fosse quello di preparare il terreno sul piano culturale in modo che, al momento voluto, i “valori necessari” potessero servire “come fermenti” per una nuova creazione. Tale lavoro, da svolgere all’interno del dibattito pubblico europeo, era a suo avviso indispensabile. Infatti, come sottolineava, «il principale nemico di una civiltà è generalmente se stessa».
Tommaso Visone (2017)