Carli, Guido
C. (Brescia 1914-Spoleto 1993), governatore della Banca d’Italia dal 1962 al 1975, fu ministro del Tesoro dal luglio 1989 al giugno 1992 nel VI e nel VII governo presieduto da Giulio Andreotti ed ebbe il ruolo principale per l’Italia nel negoziato che avrebbe portato nel dicembre del 1991 al Trattato di Maastricht sulla moneta unica. Al Consiglio europeo di Madrid, nel giugno 1989, c’era stata la presa d’atto del Piano Delors (v. Delors, Jacques). Nei due semestri seguenti, quello francese e quello irlandese, l’unificazione monetaria e quella istituzionale presero un preminente aspetto politico, a causa dei mutamenti che si stavano verificando in Europa dopo il crollo dell’URSS e l’incipiente Riunificazione tedesca. Il Consiglio europeo di Strasburgo, nell’ottobre del 1989, decideva la convocazione della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) su questi temi, che avvenne alla fine del semestre italiano di presidenza il 15 dicembre 1990 (v. Presidenza dell’Unione europea).
Dunque proprio il semestre italiano sarebbe stato quello preparatorio della Conferenza intergovernativa. C., consapevole di tutte le implicazioni della posta in giuoco, notava nelle sue memorie come «oggi la maggioranza degli europei (i due terzi) è nata dopo o durante la guerra, e non ha vissuto quell’esperienza terribile. Se l’Unione Europea non verrà costruita oggi, vale a dire quando è ancora in vita quel terzo della popolazione europea in grado di ricordare, e persone come Helmut Kohl ancora governano, temo che il progetto non possa realizzarsi più». C. stesso apparteneva a quella generazione portandone i convincimenti, ed era così pienamente consapevole del profilo storico-politico che quella partita comportava. All’idea di una moneta unica però si era convertito lentamente. Vent’anni prima, quando Jean Monnet l’aveva incaricato di formulare un progetto di unione monetaria, vi si era applicato con non poche riserve, tanto che lo stesso Monnet si era rivolto in seguito a Robert Triffin e l’ipotesi formulata da quest’ultimo aveva trovato C. in netto dissenso. Nelle sue memorie sarebbe tornato su questo punto, sottolineando che un sistema di cambi fissi presuppone «necessariamente la convergenza delle economie reali», essendo «lo strumento più potente per avvicinare economie differenti». Di qui il dilemma che ne conseguiva, dinnanzi alla «volontà dei governi e delle popolazioni di vedere aumentata la protezione salariale e le prestazioni sociali che essi ricevono dallo Stato». Rinunciare poi all’obbiettivo della piena occupazione «negli anni Sessanta era considerato da tutti come inaccettabile» e poiché «il sistema di cambi fissi è fortemente intriso di volontà politica», si valutava che «per avere successo non avrebbe dovuto produrre sconvolgimenti sull’economia reale di quei paesi che erano impegnati a sostenere una crescita sostenuta». Considerazioni analoghe nel 1970 avevano portato C. ad essere parzialmente critico nei riguardi del Piano Werner (v. Werner, Pierre), che preconizzava un’unione monetaria tra i paesi della Comunità europea, sottolineando tra l’altro la fragilità del progetto istituzionale che lo sorreggeva, per la mancanza di un soggetto forte di politica monetaria che lo sostenesse, come sarebbe accaduto al Serpente monetario, che nel 1972 avrebbe mosso i suoi primi incerti passi, privo di un supporto istituzionale unitario, che non fosse quello delle Banche centrali dei singoli Stati. Tema che, in termini non dissimili, si sarebbe poi posto, in occasione del negoziato di Maastricht, sul modo di concepire la seconda fase di transizione all’Euro.
Queste considerazioni sulle conseguenze socio-economiche che un tal genere di vincolo esterno comportava sulla sovranità monetaria degli Stati restavano sottese nei riguardi della stessa istituzione dell’euro. Nei dibattiti in sede europea, alla vigilia di Maastricht, C. non si era trattenuto dal farne, a futura memoria, un qualche cenno, sottolineando che «voler costruire il Trattato per le generazioni future», basato solo sul presupposto della stabilità dei prezzi, «non può non portare conseguenze economiche e politiche». Ma con ciò era perfettamente consapevole del mutato quadro europeo ed internazionale che faceva dell’euro un’improrogabile necessità politica. Aveva inoltre maturato negli anni la convinzione, sigillata da quella sua ultima esperienza di ministro del Tesoro, che il vincolo esterno era per la politica interna italiana un approdo ormai irrinunciabile. Poiché l’Italia non aveva più, sotto questo aspetto, una classe politica “nazionale”, capace di una gestione della finanza pubblica consona ad esercitare la sovranità monetaria nel modo richiesto dalla sua stessa sua società industriale, ormai pienamente inserita nel contesto del mercato internazionale, non sarebbe stata, come poi il Regno Unito, o la stessa Danimarca, in grado di rimanere fuori dall’euro in modo virtuoso e magari proficuo, senza invece avere gravi conseguenze. Anche per altri paesi europei i vincoli esterni nel tempo erano serviti a giustificare scelte politiche che altrimenti non avrebbero trovato il necessario consenso nell’ambito del proprio sistema democratico. Ma in Italia si trattava di qualcosa di più, propriamente di un vizio interno alla sua democrazia incompiuta, che faceva del vincolo esterno un presupposto necessario del suo sistema economico e dello stesso suo ruolo nella comunità internazionale. Di tutto ciò C. era lucidamente consapevole, così da farne il principale obbiettivo, anzi l’unico che gli sembrava sempre più plausibile, nella sua responsabilità di ministro del Tesoro.
L’Italia si trovò dunque a gestire, nel secondo semestre del 1990, una fase cruciale per la Comunità sui due temi dell’unione monetaria e politica. Occorreva far maturare per l’una e l’altra partita due proposte organiche, che approvate dal Consiglio europeo di dicembre, costituissero la traccia di partenza delle due Conferenze intergovernative che a quella data dovevano aprirsi. Per l’unione politica il compito fu assunto dal ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, per l’unione monetaria l’iniziativa era nelle mani di C. Alla sua attenzione, oltre al Rapporto Guigou (v. Guigou Elisabeth) era pervenuto quello del Comitato monetario, allora presieduto da Sarcinelli. Quest’ultimo aveva elaborato una combinazione dei tre principi esposti dal Rapporto Delors: natura unitaria del processo verso l’unione monetaria, flessibilità nella partecipazione e necessità della convergenza economica, suggerendo criteri di tipo quantitativo i cui progressi, il Rapporto stesso lo sottolineava, dovevano essere “prescritti”, prima di passare alla seconda e alla terza fase, nella quale ultima le condizioni si sarebbero fatte più stringenti. Una dichiarazione della Bundesbank nell’ottobre 1990 era subito tornata infatti su questo punto, sottolineando che la transizione venisse compiuta esclusivamente in base a parametri economici “predefiniti”, piuttosto che sulla base delle scadenze di un calendario.
C. nei due semestri precedenti aveva seguito sia gli sviluppi politici, sia quelli della discussione tecnica che accompagnava il processo di avvicinamento alla moneta unica, come membro dell’Ecofin. Solo su un punto tuttavia si era fatto un passo decisivo in avanti, e cioè sull’armonizzazione del regime fiscale dell’IVA, che era di competenza dell’altro membro italiano dell’Ecofin, il ministro delle Finanze Rino Formica. Se la riunione dell’Ecofin del luglio 1990, sotto la sua presidenza, era stata più elusiva sui nodi del negoziato, quella di settembre permise a C. di stendere un ponderato Rapporto al Consiglio europeo. Rimanevano acquisiti due orientamenti di fondo: in primo luogo, sgomberando definitivamente il campo da ipotesi di un’“Europa a due velocità” (v. Europa “a più velocità”) che si erano affacciate ancora nella riunione dell’Ecofin di luglio, si ribadiva, fatta salva la posizione britannica, quanto il Rapporto Delors aveva già premesso, che «il fine ultimo dell’Unione economica e monetaria era una moneta unica, una politica monetaria basata sulla stabilità dei prezzi e condotta da una sola autorità monetaria» e questa doveva porsi come indipendente e assolutamente autonoma dall’autorità politica. Punto sul quale rimanevano divergenze, specie tra l’impostazione tedesca e quella francese, che rivendicava, nel definire il regime di cambio con le altre monete, in particolare il dollaro e lo yen, un ruolo dell’autorità politica e una determinazione congiunta, che C. nel suo Rapporto non poteva non mettere in luce, rinviando la soluzione a determinazioni successive e ad approfondimenti che chiamavano in causa il Comitato monetario, la Commissione europea e il Consiglio.
C. tuttavia riteneva fosse acquisito che l’indipendenza assoluta della Banca centrale concernesse l’offerta di moneta e i tassi di interesse come strumenti della politica monetaria e il loro impiego dovesse essere «liberamente deciso dall’autorità sulla quale incombe l’obbligo di mantenere la stabilità dei prezzi». Ne conseguivano quattro corollari, tre dei quali configuravano anche un primo approccio ai criteri di convergenza economica, su cui in particolare il ministro delle Finanze tedesco e la Bundesbank insistevano. Si configurava in primo luogo il divieto di finanziare bilanci pubblici con creazione monetaria e si poneva il divieto alle Banche centrali di concedere ai governi anticipazioni o sovvenzioni; in secondo luogo si stabiliva che nessuno Stato potesse beneficiare del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per operazioni di finanziamento dei propri disavanzi; in terzo luogo si postulava che disavanzi eccessivi non erano consentiti. Su quest’ultimo punto, riguardo al significato preciso da dare al termine “disavanzo eccessivo”, la discussione era ancora aperta e la sua definizione rinviata alla seconda fase del negoziato. Il quarto punto considerava l’istituzione del “Sistema europeo delle banche centrali”, conferendo ai suoi amministratori garanzie che assicurassero « al rispetto di ordine proveniente dall’esterno» e fossero, quindi, protetti contro provvedimenti di revoca quando i loro comportamenti risultassero «poco graditi all’autorità politica». E in quest’ultima considerazione deve cogliersi una eco implicita della situazione italiana e della stessa esperienza di C. e dei suoi successori come governatori della Banca d’Italia. Non mancava infine un riferimento al ruolo del Parlamento europeo, sottolineando che un trasferimento di sovranità quale quello che la moneta unica implicava non poteva non comportare un rafforzamento di quella istituzione, tema che sarebbe tornato alla ribalta nella Conferenza interistituzionale tenutasi a Lussemburgo l’8 ottobre. Circa il problema della transizione alle due fasi successive rimaneva da sormontare la pregiudiziale tedesca che, come si è accennato, anteponeva alla determinazione del calendario quella della fissazione di Criteri di convergenza. C., formulando tre diverse ipotesi, suggeriva una soluzione di compromesso nell’«indicazione di una data certa congiuntamente alla verifica del soddisfacimento di certe condizioni». Era un modo per passare senza remore alla fase due, per cui anche C. indicava la data del 1° gennaio 1993. E i criteri fondamentali per accedervi risiedevano nella piena attuazione dell’Atto unico europeo, e in particolare la liberalizzazione dei capitali e l’accesso delle monete nella banda stretta dello SME (Serpente monetario europeo), a cui l’Italia aveva già provveduto, e che C. aveva sollecitato, con un’anticipazione di tempi rispetto alla scadenza prefissata, in parziale disaccordo con lo stesso Carlo Azeglio Ciampi. C’era, in fine, nel Rapporto C. un’attenzione verso la posizione britannica, che si focalizzava su di un’ipotesi di “Ecu rafforzato” (v. anche Unità di conto europea). In quella fase del negoziato il contrasto con la Gran Bretagna andava infatti sfumato. Bisognava evitare contrapposizioni che, radicalizzandosi, avrebbero potuto portare ad un voto inglese contro l’euro che ne avrebbe messo in discussione la stessa sua realizzazione. La via di uscita si sarebbe trovata in seguito con la clausola di opting-out, che avrebbe garantito alla Gran Bretagna di rimanere fuori, senza precludersi in futuro una decisione diversa.
Il Rapporto C. aveva dunque una preminente valenza politica, commisurata al ruolo che egli svolgeva in quella congiuntura, che non era di natura tecnica, ma politica, ed era un ruolo istituzionale che lo poneva in quel momento nella posizione di negoziatore. Il dibattito metteva inoltre in luce che quel negoziato, per sua natura così complesso, vedeva, come si è già accennato, posizioni diverse all’interno degli stessi governi nazionali, articolando ulteriormente la mediazione politica che si andava svolgendo. La sede dell’Ecofin era quella in cui le posizioni si rifrangevano più rigidamente. C’era, ad esempio, più di una sfumatura nell’approccio al negoziato nella delegazione tedesca, tra le posizioni del ministro delle Finanze Theo Waigel e quelle di Helmut Kohl e di Hans-Dietrich Genscher. Così in quella francese dove il ministro delle Finanze Bérégovoy era più rigido su alcune questioni, spesso in netto contrasto con le posizioni tedesche.
E in effetti il Consiglio europeo di dicembre adottava nell’insieme le indicazione proposte da C. Accoglieva inoltre il punto di vista strenuamente patrocinato dalla Banca d’Italia, della costituzione della Banca centrale europea (BCE), a partire dalla seconda fase, con estesi poteri di intervento nella sua relazione col Sistema europeo delle Banche centrali (SEBC), sul presupposto della sua piena autonomia fissato nel documento di C. Soprattutto accoglieva il criterio di transizione suggerito da C. che abbinava la fissazione di scadenze determinate per l’inizio e la fine della seconda e terza fase con la fissazione di criteri predeterminati di convergenza, sebbene allo stato della discussione essi non avessero ancora carattere quantitativo. Era un successo considerevole della delegazione italiana che Andreotti non mancava di sottolineare. Era stato un negoziato complesso che aveva avuto come prima tappa il Consiglio europeo di ottobre, nel quale la regia di Andreotti aveva emarginato la posizione di Margaret Thatcher, che avrebbe voluto posporre nell’ordine dei lavori il problema dell’unione monetaria. La Thatcher sarebbe poi uscita di scena a novembre e il nuovo primo ministro inglese, John Major, avrebbe allineato la posizione inglese sulla clausola dell’opting-out.
All’indomani del Consiglio europeo di Roma, C. osservava che ormai non si trattava più di «studiare dei problemi e di formulare ipotesi di soluzione da illustrare nei rapporti e nei documenti, ma di redigere le norme del trattato, le disposizioni, aventi valore giuridico e istituzionale» e che si iscrivessero «nella vasta architetture giuridica e istituzionale della Comunità». Come avrebbe sottolineato Ciampi, era «essenziale che la sostanza del progetto non venisse modificata». Se ne preoccupava anche Andreotti che scriveva a C.: «Nella fase preparatoria del Consiglio europeo di ottobre, ha funzionato in maniera egregia un gruppo di coordinamento fra le amministrazioni maggiormente interessate alle vicende economico-monetarie comunitarie: la presidenza delm, il ministero del Tesoro, il ministero degli Esteri, la Banca d’Italia. Mi sembra utile che l’esercizio prosegua con costanza durante tutti i lavori della Conferenza intergovernativa». La risposta di C. era altrettanto assertiva, ma difficoltà crescenti avrebbero reso il gioco di squadra più difficile.
Il presidente della Bundesbank, Karl Otto Pöhl, era stato esplicito nell’indicare nella situazione finanziaria italiana il punto debole della trattativa, affermando che alcuni paesi non sarebbero stati in grado di partecipare all’unione monetaria e poiché nessuno di questi avrebbe accettato di essere relegato “al secondo rango”, aveva previsto un allungamento dei tempi, escludendo ogni ipotesi di svalutazione delle rispettive monete, anche se avrebbe poi escluso che in quella sua dichiarazione vi fosse un riferimento diretto all’Italia; ma il problema comunque così posto rimaneva e avrebbe prodotto conseguenze lungo tutto il negoziato. La posizione della Germania non era né nuova né inaspettata. Una sua chiara anticipazione si era manifestata, sempre attraverso le parole del governatore della Bundesbank, già nel giugno del 1990. All’origine della tenace riproposizione di questo tema da parte tedesca sempre la convinzione che l’unione monetaria non potesse essere in alcun modo fattore di una maggiore convergenza delle economie nazionali, ma soltanto certificazione e coronamento di una condotta virtuosa nelle economie dei paesi associati. Era la tesi contrapposta a quella del Piano Delors, secondo la quale la convergenza delle economie era frutto, non precondizione, dell’unione monetaria.
C. già nella seduta dell’Ecofin del 28 febbraio aveva avvertito che senza conseguire l’obbiettivo primario del SEBC, il rischio era quello di mettere in discussione la stabilità dei prezzi e determinare “il crollo del sistema”. La visione di un C., che in questa fase della trattativa si mostrava old and weak e perciò privo della lucidità per seguire il complesso evolversi del negoziato, non sembra corrispondere all’immagine che esce dai documenti finora consultabili. Sarebbe tornato più volte su questo tema con i medesimi accenti. Ma poiché conosceva bene la dinamica interna dei suoi interlocutori e delle istituzioni che rappresentavano, intuì che i tedeschi non avrebbero mai consentito di avviare il SEBC, se non quando e qualora si fossero create le condizioni della moneta unica. Da subito fissò invece la sua attenzione sui criteri di convergenza, per evitare che ne derivassero ostacoli insormontabili all’adesione italiana. In particolare, considerò quei criteri che tendevano a delimitare sia il deficit, sia il debito pubblico derivante dalle politiche di bilancio. Il documento tedesco vi aveva fatto un cenno perentorio, enunciando un’ipotesi che non si formalizzava ancora dal punto di vista quantitativo. C, notava che vi era ancora una «difficoltà di definizione sui disavanzi eccessivi» e che erano stai indicati più parametri: «debito/PIL, deficit/PIL, rapporto tra disavanzo e investimenti (golden rule)». Già nella seduta precedente del 26 febbraio C. si era fermato su questo punto, sostenendo che il criterio del “disavanzo eccessivo” non avrebbe potuto essere “rigido”, e che la sua interpretazione più che “statica”, avrebbe dovuto essere “dinamica”, cioè avrebbe dovuto valutare la linea tendenziale di avvicinamento a qualsivoglia parametro che la politica di bilancio di ciascun paese avrebbe intrapreso. Quando nella sede della Conferenza intergovernativa sarebbero state avanzate le prime ipotesi quantitative, che poi si sarebbero attestate sul 60% del rapporto debito/PIL e sul 3% del rapporto deficit/PIL, avrebbe ripetuto più volte l’adagio che «non ci sono numeri magici, niente dice che il 3,1 è cattivo e il 2,9 è buono», introducendo così un altro tema cruciale di negoziazione, la destinazione di questi parametri ad un protocollo da aggiungere al Trattato, piuttosto che il loro inserimento nel tessuto normativo di quest’ultimo, come avevano inteso in un primo momento i tedeschi, soluzione che consentiva una maggiore elasticità nelle valutazioni che il Consiglio europeo avrebbe potuto prendere a Maggioranza qualificata, invece dell’unanimità che altrimenti si sarebbe resa necessaria (v. Voto all’unanimità).
L’Italia era tra i paesi in maggiore difficoltà e C., nella sede dell’Ecofin, si dovette impegnare, in quei mesi ed in ogni occasione, nel compito assai difficile ed ingrato di dimostrare come invece il paese avesse intrapreso il processo di risanamento dei suoi conti pubblici e come l’ultimo Documento di programmazione economica e finanziaria (DPEF) prevedesse un programma triennale di rientro. Faceva prendere inoltre all’Italia, in sede di negoziato europeo, una posizione molto netta e dura sulla questione della disciplina dei deficit eccessivi, difendendo a riguardo solo la clausola della loro valutazione dinamica in sede di giudizio finale, di cui per primo si era fatto promotore. Potremmo così dire che questa fu propriamente la “linea C.” in questo negoziato: presentare l’Italia, dinnanzi agli obblighi da assumere verso la Comunità, attestata su di una posizione “rigorosa” e non “lassista” (non a caso proprio C. aveva insistito per anticipare la liberalizzazione degli scambi e l’ingresso nella banda stretta dello SME), rendendo così plausibile il presupposto che c’era un implicito impegno a correggere la sua politica di bilancio.
Quando a quella lussemburghese subentrò la presidenza olandese, questa prese dunque in mano un negoziato allo stato incandescente e avrebbe messo nuova legna sul fuoco. Nella riunione dell’Ecofin di luglio vennero messe a punto le nuove procedure di sorveglianza multilaterale, rendendole funzionali alla misurazione dei criteri di convergenza e gli Stati membri furono tenuti, entro l’ottobre seguente, a comunicare i loro programmi di aggiustamento a medio termine, che l’Italia aveva anticipato con il suo ultimo documento finanziario.
Linee di tendenza non incoraggianti accrescevano i dubbi che già erano stati espressi, specie da parte tedesca, e di cui la presidenza olandese si fece carico, formulando a sua volta un progetto di Trattato che presentò alla Conferenza intergovernativa e che divergeva notevolmente dalle risoluzioni prese dai Consigli europei di Roma e di Lussemburgo. Vi tornava surrettiziamente l’ipotesi di un’Europa a “due velocità”, ponendosi come condizione che ad avviare l’unione monetaria dovessero essere almeno “sei” paesi. Quelli che non avessero potuto aderirvi, per non aver conseguito i criteri di convergenza, in un secondo momento avevano la facoltà di accedervi sulla base di un giudizio unanime dei paesi già entrati e che avevano avviato il regime della moneta unica. Già il numero “sei” era sospetto, perché rispondeva a quello dei paesi considerati dall’iniziale progetto della Germania. La procedura ulteriore di ingresso introduceva un principio non paritario che contravveniva a quella che era stata una regola fondamentale della Comunità, basata sulla partecipazione di tutti gli Stati membri alle sue decisioni.
C. nelle sue memorie attribuiva alla delegazione italiana il merito «di aver bloccato il tentativo effettuato dagli olandesi di stravolgere i risultati del Consiglio di Roma e peggiorare la bozza di compromesso già predisposta dalla presidenza lussemburghese». Certo egli ebbe una parte rilevante, come mostrano i suoi due interventi nelle sedi dell’Ecofin e della Conferenza intergovernativa. Nel primo dichiarava senza mezzi termini che le proposte olandesi erano «viziate da errori concettuali, economici e politici», e riferendosi alla formula a sei, affermava che adottarla significava «inserire nella nostra Comunità il principio della sovranità limitata», invitando a riprendere il discorso dalla ultima proposta lussemburghese. Nel secondo, polemizzava in particolare con la pretesa che il parametro dell’inflazione fosse determinato da quello corrente nel paese più virtuoso. Precisava inoltre, sviluppando un accenno già svolto nel primo intervento, che della proposta olandese non condivideva «né l’impostazione macroeconomica per cui la convergenza, oltre a richiedere la stabilità del cambio e la disciplina di bilancio», sarebbe stata principalmente «misurata in termini di stabilità dei prezzi e di vicinanza al paese con il minor grado di inflazione». Senza mettere in dubbio l’importanza di questo obbiettivo, continuava C., si voleva «rifiutare una convergenza basata solo su questo obbiettivo: […] gli anni veramente keynesiani nella politica economica, gli anni Cinquanta, erano anche anni di massima stabilità dei prezzi. Il voler costruire un Trattato per le generazioni future basato solo su quest’ultimo non può non portare conseguenze economiche e politiche». Prendeva poi l’occasione ancora una volta per riaffermare la necessità che la Banca centrale entrasse in funzione a partire dalla seconda fase
Il giudizio negativo sulla proposta olandese era predominante, anche se la posizione più recisa era stata quella di C. Ciò convinse la presidenza olandese ad abbandonare quel tentativo. Quindici giorni dopo la riunione informale dell’Ecofin, doveva imprimere ad Apeldorf una svolta decisiva al negoziato. Come si è già accennato usciva definitivamente di scena l’idea che la Banca centrale europea fosse istituita con la seconda fase e prese stentatamente forma quella dell’Istituto monetario europeo. I processi di transizione da una fase all’altra riprendevano tuttavia la loro originaria fisionomia. Il ministro olandese della Finanze, Willem Kok, faceva anche riferimento a criteri di convergenza che non dovevano essere «utilizzati in modo meccanico». Il principio inizialmente enunciato da C. sembrava aver fatto strada. Tornava del resto egli stesso a ribadirlo in quella sede, introducendo inoltre un necessario corollario, a cui abbiamo già fatto cenno, e cioè che la fissazione del saggio di inflazione cui fare riferimento, così come la definizione del carattere eccessivo del deficit di bilancio, per quanto basati su parametri predeterminati, poggiavano pur sempre su una concreta valutazione di carattere tecnico e in quanto tale, essendo per sua natura variabile, era destinata logicamente a comparire non nel testo del Trattato, ma in un protocollo annesso.
Dopo Apeldorf molti erano i problemi che richiedevano di essere precisati e più d’uno richiedeva un “impulso politico”. Quella che poteva dirsi tuttavia definitivamente chiusa non era solo, come si è già detto, l’entrata in funzione nella seconda fase della BCE, ma anche l’idea di conferire poteri consistenti all’Istituto monetario europeo. Ad Apeldorf si era comunque convenuto che ci si dovesse attenere a tre congiunti principi procedurali, quello di nessuna possibilità di veto da parte di un paese membro rispetto all’ingresso di un altro nella moneta unica, quello della non coercizione in base al quale nessun paese dovesse essere obbligato a parteciparvi, e quello della nessuna esclusione arbitraria, per cui non si sarebbe potuto escludere dall’unione nessuno Stato membro che rispettasse i criteri di partecipazione prescritti. Si trattava ulteriormente di stabilire quando doveva ritenersi, fatti salvi questi principi, che uno Stato membro prendeva la decisione irreversibile di aderire alla moneta unica.
L’altro tema che rimase incerto fino all’ultimo fu quello dei criteri di convergenza sul debito e sul deficit. La formula C. aveva trovato accoglienza nel rapporto finale del Comitato monetario ed era stata fatta propria da altri paesi. Trovò la sua definizione ultima, quale compare negli articoli del Protocollo sulla procedura concernente i deficit eccessivi annesso al Trattato, nella riunione della Conferenza intergovernativa del 4 dicembre. Tale soluzione fu il capolavoro di C. Egli aveva conseguito il suo obbiettivo di rendere possibile all’Italia di accedere alla moneta unica, così da contrarre quei vincoli esterni che gli parevano l’unica medicina possibile per curare i vizi della classe politica italiana. Quello che così conseguì nel negoziato sulla moneta unica gli fu specularmene negato nel contenere il contenimento del deficit di bilancio (durante la sua permanenza al Tesoro il debito italiano aumentò di dieci punti percentuali sul PIL). Anche a questo obbiettivo aveva dedicato il massimo impegno, sostenendo la privatizzazione del sistema bancario, delle imprese di proprietà statale e delle partecipazioni statali; aveva chiesto inoltre una riforma del sistema previdenziale e interventi drastici per ridurre la spesa sanitaria; ancora aveva invocato regole per avviare una politica dei redditi. Tutte cose che in parte si sarebbero fatte dopo. Ma, come egli stesso aveva ammonito, sarebbe stato troppo tardi per poter ancora avvantaggiarsi della tradizionale politica del cambio, ancorati ai criteri di convergenza monetaria per l’ingresso nella moneta unica, poi all’euro e al principio a cui essa era saldamente connessa della stabilità dei prezzi. Non a caso il ristagno dello sviluppo italiano può farsi risalire ai provvedimenti di risanamento finanziario del governo presieduto da Giuliano Amato, dopo la crisi valutaria del settembre 1992, alla successiva politica economica orientata verso l’ingresso dell’Italia nell’euro. Col vincolo esterno così conseguito si evitava d’altra parte di imboccare una deriva per il sistema economico italiano di tipo sudamericano, che avrebbe potuto allontanarlo lentamente dall’Europa.
Piero Craveri (2012)