Carrillo, Santiago
C. nacque il 18 gennaio del 1915 a Gijon, città industriale e portuale delle Asturie, nel nord della Spagna. Il padre, Wenceslao Carrillo, era un operaio metallurgico e importate militante socialista. Nel 1923, quando Wenceslao fu nominato redattore capo del periodico “Il Socialista”, l’intera famiglia si trasferì a Madrid. A tredici anni C. iniziò a lavorare come fattorino in una tipografia del Partito socialista operaio spagnolo (Partido socialista obrero español, PSOE). Dopo breve tempo divenne redattore de “Il Socialista”, occupandosi della cronaca municipale, e cominciò a militare nel movimento Gioventù socialista (Juventudes socialistas, JS). Nel 1934, a diciannove anni, venne eletto segretario generale della JS. La situazione sociale e politica di quegli anni, nei quali la Spagna viveva l’effimera esperienza democratica della Seconda repubblica, era molto tesa e nelle file socialiste si verificò un processo di radicalizzazione che fu particolarmente accentuato tra i giovani. C. fu uno dei protagonisti di questo processo, e la sua partecipazione nell’insurrezione dell’ottobre 1934 gli costò il carcere, dove vi rimase fino al trionfo elettorale del Fronte popolare nel febbraio del 1936. Dopo la sua liberazione andò a Mosca, dove firmò l’accordo che sancì l’unificazione delle gioventù socialiste e comuniste. C. divenne segretario generale della nuova organizzazione, le Gioventù socialiste unificate (Juventudes socialistas unificadas, JSU), le quali si situarono, fin dal primo momento, nell’orbita comunista. C. aveva abbracciato pienamente l’ortodossia leninista e nel novembre dello stesso anno aderì al Partito comunista spagnolo (Partido comunista de España, PCE), diventando vicepresidente del comitato esecutivo.
All’inizio della guerra civile spagnola, appena ventunenne, C. occupò un posto di grande responsabilità come consigliere dell’Ordine pubblico nella Giunta di difesa di Madrid, dirigendo la resistenza della capitale contro l’attacco delle truppe di Franco. Secondo un’accusa peraltro mai provata, C. si sarebbe reso responsabile in questa occasione dell’esecuzione in massa di migliaia di civili in una località nei pressi di Madrid. In dicembre C. lasciò il suo posto nella Giunta di difesa per concentrarsi sulla sua attività di segretario generale delle JSU.
Dopo la fine della guerra civile iniziò il lungo esilio di C., che si trasferì dapprima in Francia, poi nell’Unione Sovietica e infine in America, come rappresentante dell’Internazionale giovanile comunista, che sarebbe stata sciolta nel 1943. Dalla fine dell’anno precedente, però, C. aveva assunto l’importante carica di membro dell’esecutivo politico e di responsabile della riorganizzazione del PCE in Spagna. Per svolgere questo ruolo tornò in Europa nel giugno del 1944, stabilendosi a Lisbona sotto falsa identità. Da qui si trasferì in Algeria e infine, nel settembre del 1944, in Francia, dove assunse la direzione del PCE in un momento particolarmente difficile. Quando alcune unità di guerriglia comunista cercarono di attraversare la frontiera spagnola con l’intento di scatenare un’insurrezione, scontrandosi però con una ferrea resistenza, C. prese la decisione di ritirarle.
Negli anni seguenti C., stabilitosi in Francia, fu uno dei principali dirigenti del PCE in esilio, il più importante di fatto a partire dalla metà degli anni Cinquanta. Fedele a Stalin fino alla morte di questi, si identificò poi con la nuova linea di Chruščëv. In accordo con la politica di coesistenza pacifica propugnata a livello mondiale, C. appoggiò nel 1956 un nuovo orientamento strategico del PCE, incentrato sul superamento delle divisioni della guerra civile e nella convergenza delle diverse fazioni nella lotta contro la dittatura di Franco in nome della riconciliazione nazionale. Nel gennaio del 1960 fu eletto segretario generale del PCE, carico che mantenne per più di venti anni, fino al 1982.
Dopo l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle forze del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968, che fu fortemente condannata dal PCE, C. iniziò un rapido distacco dall’Unione Sovietica. I dirigenti più apertamente prosovietici furono espulsi dal PCE e la nuova rotta venne confermata dal VIII Congresso del partito, che si tenne alla periferia di Parigi nell’estate del 1972.
Questo Congresso segnò anche un’inversione di tendenza nell’atteggiamento dei comunisti spagnoli nei confronti del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Inizialmente il PCE, al pari degli altri partiti comunisti europei, aveva denunciato la Comunità economica europea come un’iniziativa capitalistica e come uno strumento della Guerra fredda diretto contro i paesi socialisti; tuttavia, dall’inizio degli anni Sessanta, comprendendo il ruolo che l’europeismo poteva giocare come collante dei diversi settori dell’opposizione spagnola, C. aveva stemperato la sua posizione critica. Dopo l’incontro avvenuto a Monaco nel 1962 tra diversi vari membri dei diversi orientamenti democratici ed europeisti dell’opposizione spagnola – incontro al quale non furono invitati i comunisti –, C. affermò che la decisione relativa all’ingresso della Spagna nel Mercato comune si sarebbe potuta prendere solo dopo il ristabilimento della democrazia. D’altro canto la posizione sempre più critica assunta dalla fine degli anni Sessanta verso la repressione della libertà nell’Unione Sovietica portò C. ad adottare un atteggiamento più favorevole nei confronti del progetto di integrazione europea. Il dibattito su questa questione, fu, per iniziativa di C., il più importante del VIII Congresso. Qui emerse chiaramente che i comunisti spagnoli, pur continuando a considerare la CEE come un’organizzazione capitalistica, si risolsero nondimeno ad adottare una risoluzione favorevole all’Adesione della Spagna, lasciando a un periodo successivo la decisione sulla completa integrazione.
Il nuovo orientamento si basava su considerazioni economiche: poiché l’Europa era il principale mercato per le esportazioni spagnole, sarebbe risultato dannoso mantenersi al margine dell’integrazione. Più importante ancora però risultò l’argomento politico, secondo cui era necessario evitare che l’atteggiamento nei confronti della CEE diventasse un fattore di divisione delle forze democratiche spagnole. Considerato il notevole consenso esistente in Spagna a favore dell’integrazione nell’Europa, una politica di opposizione alla Comunità avrebbe potuto condurre all’isolamento del PCE. D’altro canto era ancora possibile lottare, all’interno della CEE e in cooperazione con importanti partiti comunisti quali quello francese e italiano, per reimpostare il progetto europeo in termini socialisti.
Poco prima del ristabilimento della democrazia in Spagna, C. divenne uno dei principali sostenitori del c.d. Eurocomunismo, un orientamento politico basato sulla convinzione che i metodi autoritari adottati nell’Unione Sovietica ostacolavano il progresso verso una genuina società comunista e che era necessario rifiutarli nell’Europa occidentale, dove era possibile avviarsi al socialismo seguendo la strada della libertà. La nascita dell’eurocomunismo avvenne nel luglio del 1975, quando le delegazioni dei partiti comunisti italiano e spagnolo, riunite a Livorno, adottarono una dichiarazione congiunta basata su questi principi. Superate alcune perplessità iniziali, il Partito comunista francese aderì alcuni mesi dopo a questa posizione e il termine “eurocomunismo”, coniato inizialmente da un quotidiano italiano, fu alla fine assunto dai dirigenti dei tre partiti: Enrico Berlinguer, C. e Georges Marchais.
Quando la transizione verso la democrazia in Spagna era già avviata e poco prima della legalizzazione del PCE, si tenne a Madrid, nel marzo del 1977, un “vertice eurocomunista”, presieduto da Berlinguer, C. e Marchais, che valse un significativo riconoscimento al leader del PCE, pur contribuendo ben poco alla chiarificazione del concetto di “eurocomunismo”. Il problema di fondo era stabilire fino a che punto i comunisti europei potevano allontanarsi dal modello sovietico senza perdere la propria identità finendo per abbracciare posizioni tipicamente socialdemocratiche. In realtà, era un problema che non si sarebbe mai risolto e avrebbe condotto alla fine al fallimento della strategia eurocomunista. Le prime elezioni libere dopo quaranta anni, tenute nel giugno dello stesso anno, mostrarono che il PCE riscuoteva minor consenso dei suoi rivali socialisti, in quanto ottenne solamente il 9% dei voti a fronte del 30% conseguito da questi ultimi.
Durante la campagna elettorale, C. aveva giocato a fondo la carta dell’eurocomunismo, vale a dire dell’allontanamento da Mosca. In questo periodo pubblicò il libro Eurocomunismo y Estado, nel quale abbandonò la concezione leninista dello Stato e si mostrò molto critico nei confronti del modello sovietico. Il problema era che, nonostante si presentasse come portabandiera del socialismo democratico, il PCE aveva meno credibilità del PSOE. Anche se la partecipazione dei comunisti nella lotta alla dittatura contro Franco era stata assai più rilevante di quella dei socialisti, i loro sacrifici non furono premiati in termini elettorali. La stessa figura di C., legata al ricordo della guerra civile e con un lungo passato stalinista alle spalle, esercitava un’attrattiva molto minore rispetto al giovane dirigente socialista Felipe González per gli spagnoli che aspiravano al modello di libertà e prosperità incarnato dai paesi dell’Europa occidentale. Sfumarono così le speranze di C. che il PCE potesse diventare il principale partito di sinistra in Spagna, una prospettiva condivisa forse dal dirigente socialista francese François Mitterrand, il quale fino ad allora aveva mostrato un interesse maggiore per il PCE che per il PSOE. C. era anche in buoni rapporti con il dirigente socialista portoghese Mario Soares, secondo il quale l’impronta moderata del PCE contrastava favorevolmente con il radicalismo del Partito comunista portoghese.
I comunisti spagnoli non condividevano la sfiducia verso la Comunità europea manifestata dai comunisti portoghesi e greci. Il programma elettorale del PCE nel 1977 proponeva il duplice obiettivo dell’ingresso della Spagna nella Comunità europea e della sua democratizzazione, e il partito approvò la richiesta di ingresso nella Comunità che il governo Suarez presentò dopo le elezioni. Tuttavia nel discorso eurocomunista di C. il processo di integrazione europea non aveva un ruolo di particolare rilievo. Egli non lo analizzò nel suo libro Eurocomunismo y Estado, limitandosi a proporre una strategia comune della sinistra per «contribuire in modo decisivo alla creazione di un’Europa unita». I sondaggi dal canto loro dimostravano che gli elettori comunisti condividevano l’europeismo della maggior parte degli spagnoli. L’appoggio all’integrazione nella CEE dell’elettorato del PCE era addirittura superiore a quello dell’elettorato degli altri partiti. Nel 1979 approvava l’integrazione europea il 67% degli elettori comunisti e il 56% del resto dell’elettorato spagnolo, percentuali che nel 1983 salivano rispettivamente al 72% e al 65%. Questo europeismo, tuttavia, si sarebbe attenuato nel tempo. Secondo un’inchiesta condotta nel 1993, solamente il 58% degli elettori della sinistra unita, la coalizione elettorale capeggiata dal PCE, era favorevole all’Unione europea, percentuale identica a quella dell’insieme dell’elettorato spagnolo.
Nel frattempo C. non era più a capo del PCE. I modesti risultati elettorali del 1977 rappresentarono l’inizio di una crisi interna che indebolì seriamente il partito minando la posizione del suo segretario generale. La reazione iniziale di C. fu quella di accentuare il suo orientamento eurocomunista. Quando, nel novembre dello stesso anno, si recò a Mosca per partecipare alla celebrazione del sessantesimo anniversario della rivoluzione bolscevica, le autorità sovietiche lo invitarono a non pronunciare alcun discorso. Poco tardi dopo C. si recò negli Stati Uniti, invitato da diverse università americane, e in questa occasione annunciò una decisione personale che ebbe un forte impatto mediatico: il PCE avrebbe abbandonato il leninismo come elemento distintivo della propria identità. Questa proposta fu accettata dal Comitato centrale del partito nel gennaio del 1978, ma la contestazione della posizione di C. guadagnò presto terreno tra le file comuniste. Questa contestazione si sviluppò inoltre in due settori contrapposti, quello dei fedeli alla tradizione pro-sovietica del partito, che dopo l’approvazione dell’intervento sovietico in Afghanistan nel dicembre del 1979 furono etichettati come “gli afgani”, e quello di quanti desideravano un approfondimento dell’eurocomunismo, denominati “rinnovatori”. I risultati delle elezioni generali del febbraio 1979, nelle quali i comunisti ottennero un incremento alquanto modesto dei voti, accentuarono la crisi.
Il PCE condannò ufficialmente tanto l’intervento sovietico in Afghanistan del 1979 quanto il colpo di Stato polacco del 1981. L’allontanamento dalle posizioni sovietiche era, quindi, inequivocabile. Il partito conservava tuttavia la sua fedeltà alla rivoluzione di ottobre, che sin dalle sue origini costituiva il principale segno della sua identità. C. dal canto fece ricorso al metodo tradizionale delle espulsioni per combattere la crisi interna. Alla fine del 1981 furono espulsi vari membri dissidenti della corrente dei “rinnovatori”, con grande costernazione degli eurocomunisti italiani e altrettanta soddisfazione dei dirigenti sovietici.
L’anno successivo arrivò il verdetto delle urne. Nelle elezioni generali dell’ottobre 1982 un PCE in crisi ottenne meno del 4% dei voti e solamente quattro seggi, mentre il PSOE di Felipe González riportava una vittoria schiacciante. Nel novembre dello stesso anno, C., presentò le dimissioni da segretario generale del PCE. L’epilogo arrivò con l’uscita dal partito nel 1985, che pose fine a mezzo secolo di militanza.
C. è stato un uomo di incredibile longevità, non solo come uomo – è in procinto di compiere novanta anni – ma anche come politico. Di fatto, egli è l’unico politico spagnolo ad aver ricoperto un ruolo di una certa importanza tanto nella guerra civile, quando aveva poco più di vent’anni, quanto nel momento nella transizione democratica, quando ne aveva sessanta. A garantirgli questa lunga permanenza sulla scena politica è stata la sua capacità di “stare al passo con i tempi”. Dopo essere stato uno stalinista ortodosso si trasformò in un entusiasta della linea riformista di Chruščëv, e alla fine divenne il grande promotore dell’abbandono del modello sovietico da parte dei comunisti occidentali. Ciò portò all’integrazione del PCE nella politica di consenso che caratterizzò la transizione politica spagnola e al voto a favore della Costituzione del 1978.
Rispetto all’integrazione europea, il contributo più significativo di C. è stato quello di averne promosso l’accettazione da parte di un settore dell’opinione pubblica, che inizialmente aveva percepito l’integrazione come un progetto basato sui principi capitalisti e pertanto alieno ai suoi ideali. In retrospettiva, l’eurocomunismo di C. e di altri dirigenti comunisti potrebbe essere considerato come la reintegrazione nella tradizione democratica, che è il fondamento dell’Unione europea, di una corrente ideologica che durante mezzo secolo era stata attirata dal modello sovietico. In questo senso la condanna dell’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e l’accettazione del Mercato comune nel 1972 hanno rappresentato i momenti chiave della svolta ideologica del PCE. In entrambi i casi, l’impulso propulsore di C. risultò decisivo.
Juan Avilés Farré (2009)