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Clinton, William Jefferson

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“Bill” C. (Hope, Arkansas 1946) si iscrisse alla Georgetown University per seguire un corso di relazioni internazionali e cominciò a lavorare al servizio del senatore dell’Arkansas J. William Fulbright. Dopo il conseguimento della laurea nel 1968, ottenne una borsa di studio presso l’Università di Oxford. Al ritorno negli Stati Uniti si iscrisse alla Yale Law School e partecipò alla campagna presidenziale del candidato democratico George McGovern in Texas. Al termine degli studi a Yale, nel 1973 fece ritorno in Arkansas, dove intraprese la carriera politica. Nel 1976 prese parte alla campagna elettorale per Jimmy Carter. Fu eletto procuratore generale dell’Arkansas nel 1976 e governatore dello stato due anni dopo. Nel 1980 non ottenne la rielezione, ma riconquistò la carica nel 1982 e la mantenne sino al 1992.

Nel 1991 annunciò l’intenzione di candidarsi alla presidenza e l’anno successivo ottenne la nomination da parte del Partito democratico.

I temi di politica estera furono deliberatamente ignorati, o almeno trascurati, durante la campagna elettorale: in aperta contrapposizione rispetto al presidente uscente, George Bush, che definì il presidente della recessione, e nel riuscito tentativo di differenziarsi nettamente da lui, C. basò la propria piattaforma elettorale sui temi della politica interna, e in particolare sulla politica economica. Così facendo, C. captava l’orientamento dell’opinione pubblica statunitense, che dopo la fine della Guerra fredda tendeva a rifluire su posizioni isolazioniste, e cavalcava il diffuso malcontento per la crisi economica che attanagliava gli Stati Uniti.

La strategia fu efficace, e, avvantaggiandosi anche del fatto che il candidato indipendente Ross Perot sottrasse consensi a Bush, C. vinse le elezioni del novembre 1992, conquistando il 44% dei voti.

Le questioni di politica internazionale continuarono a rivestire un ruolo marginale anche durante i primi mesi di governo: l’amministrazione C. fece fronte in modo maldestro alla crisi in Somalia, in cui gli Stati Uniti erano stati coinvolti dalla decisione di Bush di inviare truppe in una missione che originariamente aveva carattere umanitario, e a quella in corso nell’isola di Haiti, dove un colpo di stato militare aveva deposto il primo presidente liberamente eletto, Jean-Bertrand Aristide.

La stampa e l’opposizione rimproveravano all’amministrazione C. la mancanza di un disegno organico di politica estera, di una dottrina che incarnasse un progetto di ridefinizione del ruolo degli Stati Uniti nel sistema internazionale profondamente mutato dalla fine della Guerra fredda.

Il solo elemento di coerenza e di continuità che emerse nitidamente sin dall’esordio dell’amministrazione era costituito dall’insistenza sulla necessità che attraverso l’azione internazionale il governo federale contribuisse a creare un mondo sicuro per i commerci e ad espandere i mercati per i prodotti statunitense. Nel quadro di un simile approccio, i primi obiettivi perseguiti da C. e dalla sua amministrazione furono la ratifica dell’Accordo nordamericano per il libero scambio (NAFTA), l’accordo che istituiva un’area di libero scambio tra Stati Uniti, Messico e Canada, ottenuta nonostante l’opposizione dei principali sindacati e di una parte del Partito democratico, e la ricerca di un dialogo permanente con i paesi asiatici allo scopo di incrementare gli scambi: nel luglio del 1993, C. fu impegnato in un viaggio nelle principali capitali asiatiche durante il quale concluse numerosi accordi commerciali, e riunì i capi di Stato dell’area pacifica nella neocostituita Asian-Pacific economic cooperative (APEC) con l’obiettivo di promuovere la costituzione di una zona di libero scambio. Da almeno due decenni l’importanza del mercato asiatico, e in particolare di quello giapponese, era in costante crescita, e aveva superato quella del mercato europeo. L’attenzione per questa realtà indusse nei governi europei la sensazione e la percezione che fosse venuto meno l’interesse degli Stati Uniti per l’Europa e le vicende dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), e che i rapporti avrebbero continuato a essere improntati a reciproca diffidenza. Indicativo in questo senso appariva inoltre il fatto che a ricoprire la carica di segretario di Stato fosse stato scelto Warren Christopher, esperto conoscitore della questione mediorientale con una scarsa dimestichezza con i problemi delle relazioni con l’Europa; la nomina di Stuart Eizenstat, figura di spicco nei circoli politici di Washington, e ambasciatore presso l’Unione europea, e di Richard C. Holbrooke, diplomatico di grande esperienza e molto rispettato, a capo dell’Ufficio per gli Affari europei del Dipartimento di Stato valse solo in parte a rassicurare gli europei. Del resto, la percezione di un disinteresse statunitense era alimentata dalla circostanza che la prima visita in Europa fu a lungo rimandata, e si svolse infine solo nel gennaio 1994.

In quell’occasione, il presidente statunitense ebbe modo di dissipare tutti i dubbi circa la sua devozione al processo di integrazione europea, esprimendo una posizione chiara e netta. Pronunciando un discorso a Bruxelles, egli si disse favorevole al rafforzamento dell’Unione europea, che avrebbe dovuto garantire la sicurezza attraverso l’integrazione delle economie di mercato, delle democrazie nazionali e delle forze di difesa. In seguito, in occasione di un summit svoltosi a Berlino nel dicembre dello stesso anno, C. definì l’Europa un alleato indispensabile per gli Stati Uniti. Nel corso dei mesi successivi, si precisò ulteriormente il favore nei confronti di un’Europa non solo integrata economicamente, ma anche dotata di una Politica estera e di sicurezza comune efficiente. Era in questo modo sovvertito l’approccio di Henry Alfred Kissinger, il quale riteneva che il progresso dell’integrazione europea sul piano politico avrebbe compromesso l’alleanza atlantica: al contrario, gli Stati Uniti di C. consideravano l’approfondimento dell’integrazione compatibile con il mantenimento dei legami transatlantici, e anzi auspicabile nella misura in cui avrebbe consentito la condivisione delle responsabilità e degli oneri economici. C. assegnava insomma all’Europa un ruolo complementare a quello degli Stati Uniti, in una prospettiva che sembrava richiamare la visione kennedyana dell’Europa come secondo pilastro dell’associazione atlantica (v. anche Kennedy, John Fitzgerald).

Si trattava del resto di una visione che si armonizzava perfettamente con il progetto di politica estera già illustrato e con il disegno che si andava delineando. In primo luogo, il rilievo assunto nella politica estera clintoniana dall’economia – in un discorso pronunciato di fronte al Congresso nel 1994, il presidente orgogliosamente rivendicò alla propria azione il merito di aver posto l’economia al cuore della politica estera – e dalla globalizzazione dei mercati giustificava, nonostante le apprensioni dei governi europei, l’opportunità di uno stretto vincolo con l’Unione europea: sin dagli anni Sessanta, la Comunità economica europea, e la Commissione europea in particolare, erano state tra i più saldi alleati degli Stati Uniti, e avevano costantemente sostenuto il disegno di promuovere la liberalizzazione dei mercati internazionali attraverso la partecipazione ai diversi round negoziali svoltisi in seno al General agreement on tariffs and trade (Accordo generale sulle tariffe e il commercio, GATT; v. anche Organizzazione mondiale del commercio).

Inoltre, nel contesto postbipolare degli anni Novanta, venuti meno il pericolo sovietico e con esso il timore che la ricerca di autonomia da parte degli europei preludesse a una scelta neutralista e al ritiro dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), si creavano le condizioni perché l’Europa coadiuvasse gli Stati Uniti nel mantenimento dell’ordine e della stabilità. Erano diffuse le aspettative che l’Unione europea potesse favorire la stabilizzazione del Terzo mondo, rafforzando le politiche che la Comunità europea aveva attuato nel corso degli anni attraverso le Convenzioni di Lomé. In particolare, C. e i suoi collaboratori ritenevano prezioso il contributo che l’Unione europea avrebbe potuto fornire attraverso l’allargamento agli stati dell’Europa centrale e orientale: l’apertura al libero mercato avrebbe promosso o rafforzato la democrazia in quei paesi, e la democrazia avrebbe garantito la stabilità dell’area. Ancora una volta, era una prospettiva coerente con la “dottrina” dell’allargamento democratico: elaborata dai responsabili della politica estera statunitense in risposta alle critiche rivolte all’amministrazione a proposito della mancanza di un progetto complessivo di politica estera, essa sintetizzava il concetto secondo cui il rafforzamento e la diffusione della democrazia avrebbero garantito la prosperità e la sicurezza dell’ordine internazionale.

L’allargamento dell’Unione europea si sarebbe dovuto svolgere parallelamente a quello della NATO, proposto dagli Stati Uniti nel Consiglio atlantico di Bruxelles del gennaio 1994, e definitivamente approvato nel 1996, di cui avrebbe attutito gli effetti agli occhi della Russia.

Considerando questi elementi, e facendo proprio il giudizio sovente espresso da Richard Holbrooke, Anthony Gardner (v. Gardner, 1997) ha definito C. il più grande sostenitore dell’integrazione europea dall’epoca di John F. Kennedy.

La collaborazione tra gli Stati Uniti e l’Europa si rivelò fruttuosa nell’ambito dei negoziati dell’Uruguay Round: le aspettative statunitensi non furono in questo senso disattese e, nonostante permanessero alcune divergenze, nell’aprile 1994 l’accordo fu sottoscritto. Grazie al sostegno dell’UE, gli Stati Uniti poterono inoltre coronare il progetto di riformare il GATT, attraverso l’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (nota con l’acronimo inglese WTO: World trade organization), la struttura permanente che dalla metà degli anni Novanta ne prese il posto.

Non mancarono tuttavia contrasti tra gli Stati Uniti e l’Europa. Particolarmente aspro fu lo scontro che si verificò a proposito delle leggi Helmes-Burton e D’Amato. La prima fu votata dal Congresso nel 1996, e firmata, seppur con riluttanza, dal presidente C., che nell’anno delle presidenziali non poteva esporsi alla critica di essere “soft on Castro”, e al rischio di perdere il sostegno della comunità di origini cubane. La legge rafforzava l’embargo nei confronti di Cuba, ed estendeva la giurisdizione statunitense alle imprese straniere che commerciavano con Cuba prodotti di provenienza statunitense. Dello stesso tenore era la legge D’Amato, che concerneva le relazioni commerciali con la Libia e l’Iran, e prevedeva la possibilità di adottare sanzioni contro gli Stati che avessero promosso investimenti a beneficio di questi due paesi.

Ambigui, o almeno problematici, furono i rapporti instauratisi tra gli Stati Uniti e l’Unione europea sul piano della politica estera in occasione delle crisi nei Balcani. Il conflitto in Bosnia costituì la prima verifica rilevante della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) introdotta dal Trattato di Maastricht. Tra il 1993 e il 1995, coerentemente con le posizioni espresse a sostegno del rafforzamento del ruolo dell’Europa come attore internazionale e come elemento di stabilizzazione regionale, l’amministrazione C. lasciò che fossero gli europei a intervenire diplomaticamente, e si limitò a offrire la disponibilità a appoggiare l’azione politica attraverso attacchi mirati da parte delle forze NATO. Solo nell’estate 1995, di fronte all’evidente fallimento della politica europea, gli Stati Uniti spinsero la NATO a intervenire con attacchi aerei contro i serbi, favorendo la conclusione del cessate il fuoco del 5 ottobre 1995. Parallelamente, l’amministrazione C. promosse un negoziato di pace fra le parti, affidato alla delicata mediazione del sottosegretario Holbrooke, che si concluse con gli accordi di Dayton, firmati a Parigi nel dicembre 1995. È stato evidenziato (v. Lundestad, 1998) che il piano proposto da Holbrooke non differiva in maniera sostanziale da quello presentato da Lord David Owen e Cyrus Vance (rispettivamente mediatore dell’UE e rappresentante dell’ONU) nel 1993, e affossato dagli Stati Uniti; d’altra parte l’Unione europea non disponeva della forza politica, della credibilità e delle risorse militari necessarie per imporre la propria mediazione alle parti in conflitto.

Del resto, proprio la constatazione dell’inefficacia della PESC fu all’origine di due iniziative che meglio di altre testimoniano l’appoggio costante all’integrazione europea e il favore con cui l’amministrazione C. guardava al rafforzamento dell’Unione europea: la Nuova agenda transatlantica e l’accordo denominato Combined joint task forces (CJTF). La Nuova agenda transatlantica fu sottoscritta a Madrid nel dicembre 1995 da C., dal primo ministro spagnolo Felipe Màrquez Gonzáles nella veste di presidente di turno dell’Unione europea (v. Presidenza dell’Unione europea), e dal presidente della Commissione europea, Jean Jacques Santer. Insieme all’annesso Piano d’azione, era volta a rafforzare la cooperazione tra gli Stati Uniti e l’Unione europea, e individuava gli ambiti e le politiche in cui questa collaborazione si sarebbe dovuta sostanziare. Con l’intesa sul CJTF, l’amministrazione C. forniva un altro contributo potenzialmente significativo al rafforzamento delle strutture europee deputate all’implementazione della PESC. La proposta risaliva all’ottobre 1993, quando fu avanzata dal segretario di Stato Warren Christopher al vertice dei ministri della Difesa della NATO, e fu approvata definitivamente a Berlino nel giugno 1996. L’accordo prevedeva la possibilità per i paesi membri di avvalersi delle infrastrutture dell’alleanza anche per operazioni non intraprese collettivamente dalla NATO. Ciò concretamente consentiva all’Unione dell’Europa occidentale (UEO) di porre in essere azioni senza la partecipazione degli Stati Uniti, e quindi di assolvere il compito di “braccio armato” dell’Unione europea assegnatole dal Trattato di Maastricht, usufruendo dei mezzi a disposizione della NATO.

Se l’intervento in Bosnia fu deciso a fronte dell’incapacità di proporre soluzioni credibili e dell’inazione dell’Europa, nel 1999 la decisione di impegnare la NATO nel confronto in Kosovo fu assunta mentre erano in corso i negoziati di Rambouillet patrocinati dagli europei. L’intervento di Madeleine Albright, ex rappresentante degli Stati Uniti presso l’ONU e segretario di Stato durante la seconda amministrazione C., fece tramontare la possibilità di raggiungere un compromesso, e determinò i presupposti per l’azione militare. A poco più di tre anni di distanza dalla fine della guerra in Bosnia, l’intervento in Kosovo, le modalità in cui maturò e il ruolo svolto dagli Stati Uniti e dall’Europa nella vicenda sembrarono indicare una svolta nella politica estera clintoniana verso la tradizionale posizione favorevole alla supremazia della NATO.

La scelta di procedere verso l’allargamento della NATO con largo anticipo su quello dell’Unione europea pareva inoltre confermare la tendenza a privilegiare l’alleanza militare piuttosto che l’integrazione economica e politica nell’Unione europea come strumento per la realizzazione dell’allargamento democratico.

Al termine del secondo mandato, e dopo aver sostenuto la candidatura della moglie Hillary al seggio di senatore dello stato di New York nelle elezioni del novembre 2000, C. si è ritirato dalla vita politica. Ha comunque continuato a prendere parte al dibattito politico e ha dato vita alla fondazione che porta il suo nome e ha sede a New York. Nel maggio 2004 C. ha ultimato e dato alle stampe la propria autobiografia, My life.

Daniela Vignati (2009)

Bibliografia

Gardner A.L., A new era in US-EU relations? The Clinton administration and the New Transatlantic Agenda, Ashgate, Aldershot 1997.

Lundestad G., Empire by integration: the United States and European integration, 1945-1997, Oxford University Press, Oxford 1998.

Peterson J. (a cura di), Europe and America: the prospects for partnership, Routledge, London-New York 1996.