Introduzione
Il voto dell’Assemblea parlamentare francese del 30 agosto 1954, che aveva deciso il rifiuto della Francia di ratificare il Trattato sulla Comunità europea di difesa (CED), aveva altresì segnato la fine del progetto di Comunità politica europea, che avrebbe dovuto essere il risultato finale del grande dibattito nato e avviato con rapidità e successo dalla Dichiarazione Schuman del 1950 (v. Piano Schuman). Il voto era in effetti un prodotto dei mutamenti intervenuti nel frattempo non solo nella classe politica e nel governo della Francia, ma anche e soprattutto nella realtà europea e mondiale, che avevano fortemente influito sulla volontà politica dei governi europei e sull’opinione pubblica in generale.
In particolare in Francia la spinta europeista, che aveva motivato la politica estera francese dopo la Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, sembrava in via di esaurimento. La Francia stava vivendo la prima fase della decolonizzazione, dopo la fine travagliata della guerra d’Indocina: le perplessità nei confronti dell’ineluttabile riarmo tedesco crescevano in tutte le parti politiche, e anche la proposta di creazione di una Comunità politica rinvigoriva un nazionalismo mai represso. I governi francesi succedutisi negli ultimi anni, sensibili ai dubbi crescenti dell’opinione pubblica e soprattutto della classe politica e militare, avevano moltiplicato le reticenze alla ratifica, cercando di ottenere dai partner (ma anche dal Regno Unito, della quale si deprecava l’assenza e dalla quale si chiedeva una “partecipazione”) ulteriori garanzie nei confronti del riarmo tedesco. Dal gennaio 1953, dopo la caduta del governo di Antoine Pinay e la costituzione del gabinetto di Daniel Mayer, Robert Schuman non era più ministro degli Esteri, e già nel marzo 1953 il suo successore, Georges Bidault, otteneva l’abbandono di fatto del progetto di Comunità politica da parte dei ministri degli Esteri dei Sei, rinviando l’approvazione del testo redatto dall’Assemblea ad hoc (v. anche Comunità politica europea) a una data posteriore alla ratifica del Trattato CED da parte di tutti gli Stati firmatari (v. Preda, 1993, pp. 387-428).
Il voto dell’Assemblea francese poneva dunque fine al periodo della grande iniziativa comunitaria postbellica, segnando il fallimento del primo vero tentativo di dar vita a una struttura federale europea (v. Federalismo; Integrazione, teorie della). Del resto, come accennato più sopra, la situazione in Europa e nel mondo era alquanto mutata. La Francia era ormai nel pieno della lunga e dolorosa liquidazione del suo impero coloniale, la Germania stava rivelando la sua prorompente ripresa: salvo Konrad Adenauer, gli uomini della prima battaglia per l’unità europea erano usciti di scena, la scomparsa di Iosif Stalin e l’armistizio coreano riducevano, almeno nell’immaginazione di tutti, la minaccia dell’Est.
In conclusione, il solo risultato concreto di questo periodo rimaneva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che era il frutto superstite dell’invenzione monnetiana, e cioè del disegno di “integrazione funzionale” di Jean Monnet, espresso nella già citata Dichiarazione Schuman (v. Funzionalismo). Ma era giocoforza constatare che quando si era voluto passare dal funzionalismo episodico all’integrazione politica in senso federale, abbandonando la tesi gradualista delle origini, ci si era scontrati con la resistenza pesante della storia (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Paradossalmente (ma non troppo) la CED, concepita nel timore del riarmo tedesco, era fallita perché l’integrazione era stata considerata un male peggiore di quello che si voleva evitare, e perché non si voleva – soprattutto da parte francese – sottoscrivere un irrevocabile impegno politico (v. Gerbet, 1999, pp. 151 e ss.).
Il rilancio dell’integrazione da Messina a Venezia
La crisi seguita al fallimento della CED fu risolta secondo le tradizionali procedure diplomatiche. Il riarmo della Germania e la sua conseguente adesione all’Alleanza atlantica e alla sua organizzazione militare furono acquisiti mediante la creazione dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) con gli accordi di Parigi del 23 ottobre 1954. Quegli accordi ristabilivano la piena sovranità della Repubblica Federale Tedesca (RFT), davano vita all’UEO e alle sue istituzioni (una specie di simulacro di Alleanza europea cui, oltre ai Sei, partecipava anche la Gran Bretagna), e sancivano il riarmo della Germania nell’ambito dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) con talune importanti restrizioni. In breve, il riarmo della Germania era cosa fatta, e la stessa Assemblea nazionale francese che aveva rifiutato la CED lo ratificò a malincuore il 30 dicembre 1954, a debole maggioranza (287 voti contro 260). Pierre Mendes France, primo ministro francese dell’epoca, era riuscito – bene o male – a risolvere la crisi, restituendo la Sarre (che avrebbe dovuto diventare un “distretto europeo”) alla Germania e seppellendo per sempre l’integrazione militare e politica europea.
Tuttavia, la grande delusione non aveva del tutto scoraggiato i precursori, e Jean Monnet in particolare. Presidente dell’Alta autorità della CECA, si era dimesso il 3 maggio 1955 per consacrarsi al “rilancio” dell’integrazione europea. L’11 ottobre 1955 Monnet fondava a Parigi il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, nel quale dovevano essere rappresentati i partiti democratici e i sindacati dei paesi della CECA favorevoli all’integrazione europea dai loro massimi dirigenti, per riflettere e proporre le future iniziative d’integrazione europea.
Dal canto loro, i paesi del Benelux (Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi), che erano stati sempre favorevoli a iniziative comunitarie (anche perché la struttura istituzionale comunitaria – e la CECA ne era la prova – favoriva la considerazione degli interessi dei piccoli paesi) erano particolarmente attivi nel proporre e discutere iniziative di rilancio. Tre uomini di sicuro valore (Paul-Henri Charles Spaak, allora ministro degli Esteri del Belgio, Joseph Bech, primo ministro del Lussemburgo, Joan Willem Beyen, ministro degli Affari esteri dei Paesi Bassi) avevano preparato un memorandum (di cui l’olandese Beyen era il principale promotore), che inviarono il 5 maggio a Jean Monnet. Il memorandum proponeva la costituzione di un Mercato comune generale, escludendo quindi qualsiasi integrazione economica settoriale. A esso l’Assemblea parlamentare della CECA dette il 14 maggio un unanime consenso, approvando una risoluzione che auspicava una riunione dei ministri degli Affari esteri dei Sei per discuterla (v. anche Consiglio dei ministri).
Il memorandum del Benelux fu quindi inviato ai governi degli altri tre paesi: Italia e Germania reagirono a loro volta, ciascuna con un memorandum sostanzialmente positivo, mentre il governo francese (primo ministro era Edgar Faure) si asteneva dal prendere posizione, ma accettava la proposta italiana di discutere i vari progetti contenuti nei documenti degli altri paesi a una riunione dei ministri degli Esteri degli Stati membri della CECA, che il ministro degli Esteri italiano Gaetano Martino proponeva di tenere a Messina, sua città natale, dal 1° al 3 giugno 1955 (v. Conferenza di Messina). Il rilancio era in vista: nonostante le divergenze ancora evidenti (i francesi erano favorevoli all’integrazione settoriale, in particolare per quel che concerneva lo sfruttamento pacifico dell’energia atomica, le altre fonti di energia, i trasporti) mentre i consorti della Francia ritenevano che ormai l’integrazione economica settoriale aveva fatto il suo tempo e che era giunta l’ora di tentare la fondazione del Mercato unico generale (ancorché l’accordo non fosse completo fra di essi sull’estensione della liberalizzazione degli scambi e le tappe dell’integrazione economica).
Alla fine di due giorni di discussione, si raggiunse un accordo che lasciava impregiudicate le diverse proposte. La Conferenza, su proposta dei rappresentanti dei tre paesi del Benelux, decise di affidare a un gruppo di esperti nominati dai governi partecipanti, presieduto da una personalità politica di alto livello, il belga Paul-Henri Spaak, lo studio di tutte le proposte presentate alla riunione. I lavori del Comitato (passato alla storia come Comitato Spaak) furono efficacemente diretti dal suo presidente. La maggior parte delle riunioni si tenne a Bruxelles, e il testo finale (redatto da esperti di prim’ordine, quali il francese Pierre Uri e il tedesco Hans Von Der Groeben fu approvato nell’aprile 1956. Il suo contenuto (oggi considerato uno dei documenti decisivi dell’integrazione europea) rispondeva ai quesiti irrisolti a Messina. Innanzitutto constatava che l’integrazione settoriale sarebbe stata difficilmente realizzabile, salvo nel campo dello sfruttamento pacifico dell’energia atomica. A differenza delle altre fonti di energia, essa infatti poteva essere oggetto di un’organizzazione particolare, che contribuisse al suo sviluppo integrato, e a tale scopo il rapporto definiva la struttura e la missione di una comunità nucleare.
D’altra parte il rapporto Spaak studiava la natura e i mezzi per la realizzazione di un Mercato comune generale. Un’Unione doganale, con eliminazione degli ostacoli interni agli scambi e l’erezione di una Tariffa esterna comune (TEC), era preconizzata come premessa necessaria per addivenire a una vera integrazione economica, e venivano definite le condizioni da rispettare per evitare squilibri e distorsioni.
Il rapporto del Comitato Spaak aveva così assolto alla sua missione, con due proposte complessive e concrete degne di discussione e negoziato: la creazione del Mercato comune unico e generale e l’organizzazione comunitaria per l’energia atomica a scopi pacifici, battezzata sinteticamente Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica). Le due proposte non raccoglievano a priori l’unanimità, ma avevano il pregio di non poter esser discusse separatamente, poiché, proposte assieme, almeno una di esse interessava dappresso uno Stato partecipante. Se i francesi erano assai interessati a Euratom, e scettici e reticenti nei confronti del Mercato comune, gli altri erano maggiormente disposti a discutere l’integrazione economica generale. In questo consisteva quindi il grande passo in avanti che il rilancio di Messina aveva provocato: l’inscindibilità delle due proposte, e quindi la pratica necessità di discuterle assieme. Alla Conferenza di Venezia, tenutasi il 29 e 30 maggio 1956, i sei paesi membri della CECA approvarono in linea di massima il contenuto del rapporto Spaak e incaricarono un secondo comitato, sempre presieduto dal ministro belga, di elaborare i testi dei Trattati ivi suggeriti (v. Serra, 1987, passim).
I negoziati di Val Duchesse e i Trattati di Roma
In realtà, il secondo Comitato Spaak si trasformò ben presto in una delle Conferenze intergovernative con sede a Bruxelles, nel Castello di Val-Duchesse, che per vari mesi riunì delegazioni sempre più nutrite, sotto la direzione e l’autorevole arbitrato del suo presidente. Mentre i negoziati per la redazione del Trattato Euratom procedevano alquanto speditamente, quelli per il Trattato sulla Comunità economica europea (CEE) – come finalmente fu deciso di chiamare il Trattato per il mercato comune generale – furono lunghi e complessi, in quanto richiedevano la soluzione di numerosi problemi tecnici e, soprattutto, la necessità di accordi e compromessi politici su delicate questioni attinenti a interessi ritenuti vitali da talune delegazioni nazionali. In termini generali, venivano in luce le complesse eredità della storia di economie diverse per orientamento e struttura. In primo luogo, era evidente la formazione di due gruppi distinti: Francia e Italia (benché assai differenti per livello e struttura) erano per storia e per necessità paesi protezionisti e quindi timorosi del libero scambio e tendevano a ottenere eccezioni e garanzie. Germania e Benelux erano invece da tempo protagonisti del commercio mondiale e quindi orientati all’eliminazione, nel più breve tempo possibile, delle frontiere protettive. C’è da aggiungere che, a differenza dal periodo precedente alla crisi della CED, l’impulso e la partecipazione da parte dei Movimenti europei (v. Movimenti europeistici; Movimento europeo) e, in particolare, di quelli che propugnavano il Federalismo, furono molto meno incisivi, e la tendenza dei federalisti (v. Movimento federalista europeo) (all’epoca anche di Altiero Spinelli) al rifiuto del metodo funzionalista (v. Funzionalismo) propugnato da Jean Monnet fu in pratica generalizzata. Il negoziato di Val Duchesse era infatti condotto secondo le classiche procedure diplomatiche, e la sua complessità comportava necessariamente la partecipazione di tecnici e di esperti a tutti i livelli, certamente poco sensibili alle sollecitazioni politiche dei federalisti.
Fu peraltro merito insigne di taluni personaggi, da Paul-Henri Spaak al tedesco Walter Hallstein, dal francese Robert Marjolin all’olandese Johannes Linthorst Homan (che diressero di fatto i negoziati) se i Trattati crearono istituzioni politicamente indipendenti dagli Stati membri e se, nel complesso, gli obiettivi dell’integrazione economica furono previsti con lungimiranza tale da configurare virtualità di grande portata politica. Già il preambolo del Trattato sulla Comunità economica europea indicava nell’unione sempre più stretta e completa la finalità principale del Trattato, mentre l’art. 3 ne indicava con grande precisione e ambizione gli obiettivi. Se ai negoziatori era mancato l’appoggio e l’entusiasmo di molti, tuttavia l’ispirazione, ancorché espressa con grande prudenza, fu quella che già aveva qualificato il Trattato CECA e gli altri tentativi d’integrazione europea abortiti nei primi anni Cinquanta, e cioè quella che proveniva dal pensiero e dall’azione di Jean Monnet.
Ad accelerare i negoziati e a sopire talune avversità e scetticismi furono peraltro due avvenimenti di grande rilievo intervenuti nell’anno 1956. Il primo fu la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte del governo egiziano il 20 luglio, e la crisi che ne seguì, con un intervento militare franco-inglese-israeliano poi abortito sotto la pressione internazionale (in particolare, degli USA e dell’URSS). Il secondo fu la rivolta ungherese dell’ottobre e novembre successivi, repressa nel sangue dall’intervento sovietico. Se il primo rendeva chiara agli occhi di tutti la riduzione ineluttabile della potenza esterna dell’Europa, e al tempo stesso la fragilità delle rotte di rifornimento dell’energia, la seconda frustrava irrimediabilmente le illusioni di di-stensione e riaccendeva l’inquietudine dell’Occidente.
Svanivano nel contempo i timori che la Francia non ratificasse i Trattati, com’era avvenuto per la CED. Il governo di Guy Alcide Mollet, a differenza di quello diretto da Mendès France, aveva fortemente contribuito a placare i timori diffusi tra le categorie produttive (soprattutto nel corso delle prime fasi del negoziato) e, nel complesso, la delegazione francese aveva ottenuto risultati brillanti nel negoziato, ad esempio in materia agricola e in tema di aiuti alla decolonizzazione.
I governi dei Sei procedettero alla firma del Trattato Euratom e di quello che creava la CEE il 25 marzo 1957 a Roma, con cerimonia solenne in Campidoglio (v. Trattati di Roma). Le ratifiche seguirono senza particolari difficoltà. Nel corso del mese di luglio del 1957 i parlamenti di Francia, Germania e Italia approvarono i Trattati (in Italia i socialisti, a sorpresa, votarono a favore di Euratom e si astennero sulla CEE). Seguirono in autunno le ratifiche dei paesi del Benelux, che permisero la loro entrata in vigore il 1° gennaio successivo.
Le istituzioni della CEE e i primi anni dell’integrazione economica
La struttura istituzionale della CEE riproduceva quasi completamente quella della CECA, a prova della persistente influenza di Jean Monnet e del suo pensiero, e della presenza tra i negoziatori di numerosi suoi pupilli. Al posto di un’Alta autorità (segno dei tempi mutati, il nome prescelto era più neutro e “innocente”), era prevista una Commissione europea di nove membri (2 ciascuno per i grandi Stati membri, 1 ciascuno per i più piccoli), nominati di comune accordo dai governi. La Commissione deteneva il potere esclusivo di proposta legislativa – di Decisione, Direttiva e regolamenti in particolare. Le direttive erano atti legislativi diretti agli Stati, i cui organi legislativi erano obbligati a tradurne il contenuto in atti legislativi nazionali; i regolamenti erano atti legislativi direttamente applicabili ai cittadini degli Stati membri. Direttive e regolamenti, proposti dalla Commissione, sentito (se richiesto dal Trattato) il parere dell’Assemblea parlamentare (v. anche Parlamento europeo) e quello del Comitato economico e sociale, dovevano essere approvati dal Consiglio della CEE (organo legislativo decisionale) (v. Consiglio dei ministri).
L’Assemblea parlamentare, come quella della CECA, era composta da 162 membri, ripartiti per paese membro (36 per ciascuno dei grandi, 14 per Paesi Bassi e Belgio, 6 per il Lussemburgo), eletti dai rispettivi parlamenti. Le competenze dell’Assemblea erano essenzialmente consultive, ma ne era previsto l’aumento in seguito, come del resto era prevista la sua elezione a suffragio diretto e universale (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). L’Assemblea aveva però il potere di esprimere un voto di sfiducia nei confronti della Commissione, che avrebbe quindi dovuto dimettersi.
Il Consiglio, composto dai rappresentati degli Stati membri, a livello ministeriale aveva una competenza generale di approvazione degli atti legislativi proposti dalla Commissione, in via generale a Maggioranza qualificata in base a una ponderazione dei voti prevista dal Trattato (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio), salvo nei casi in cui il Trattato stesso non avesse prescritto il Voto alla unanimità. Comunque, l’unanimità era prescritta per tutte le votazioni sino al passaggio alla terza tappa dell’unione doganale. Il Consiglio aveva potestà, altresì, di formulare raccomandazioni (v. Raccomandazione), come del resto la Commissione.
Il complesso istituzionale era completato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, cui era demandato il potere giurisdizionale di dirimere conflitti tra Stati membri e tra questi e la Commissione, nonché di pronunziare sentenze su ricorsi di privati nei confronti delle istituzioni nelle materie oggetto di legislazione o di decisioni comunitarie.
Alle istituzioni accennate si accompagnava un Comitato economico e sociale, organismo consultivo, ma rappresentativo delle categorie sociali e, in particolare, di quelle produttive dei vari paesi membri, organismo chiamato dal Trattato a esprimere il suo parere sulle proposte della Commissione. Più tardi, con il Trattato di Maastricht, ad esso si affiancherà il Comitato delle regioni, chiamato più specificamente a esprimersi sui problemi regionali, divenuti oggetto di una nuova politica comune dopo l’Atto unico europeo del 1986. Così sommariamente descritte, le istituzioni della CEE apparivano simili a quelle della CECA, ma in realtà erano ben differenti (v. Istituzioni comunitarie). Erano però soprattutto le due Comunità ad essere diverse, soprattutto per quel che riguarda la produzione di norme. A differenza del Trattato della CECA, infatti, quella della CEE si configurava da un lato come una costruzione di norme complete, da mettere in opera senza bisogno di ulteriori procedure decisorie. Tale era il complesso di norme che dovevano essere applicate per costruire l’unione doganale, seguendone la costruzione progressiva secondo un calendario. I dazi della TEC per ogni prodotto erano il risultato di una media aritmetica di quelli nazionali, salvo per taluni prodotti indicati nei protocolli annessi al Trattato. Dall’altro lato, il Trattato della CEE era definibile come un Trattato “quadro”, che stabiliva gli obbiettivi e le procedure per la produzione legislativa delle norme per conseguirli. Gli obbiettivi erano in genere le politiche comuni, talune previste dal Trattato – come la Politica agricola comune (PAC), la Politica comune dei trasporti della CE, la Politica commerciale comune, la Politica sociale, ecc. – e altre che si sarebbero aggiunte in seguito, con i Trattati di riforma degli anni Ottanta e Novanta.
Questa struttura del Trattato della CEE era senz’altro una novità eccellente nella storia del diritto internazionale, e con il senno di poi può ben definirsi come un’invenzione straordinariamente efficiente e adatta agli scopi prefissati (almeno per il primo periodo). Fu la procedura legislativa che permise la costruzione della PAC, condizione sine qua non della libera circolazione dei prodotti agricoli in seno alla Comunità. Essa infatti richiedeva un’imponente produzione legislativa per l’unificazione dei differenti sistemi di protezione dei prodotti agricoli, ed era al tempo stesso la condizione irrinunciabile della permanenza della Francia nella CEE dopo l’avvento al potere di Charles de Gaulle, del quale era nota l’opposizione all’integrazione europea. Fu appunto l’impossibilità di conseguire in altro modo il libero scambio dei prodotti agricoli (e quindi di ottenere gli attesi vantaggi per le esportazioni agricole francesi) che indusse de Gaulle ad accettare le procedure comunitarie, almeno provvisoriamente, rifiutando al tempo stesso – e definitivamente – le proposte per la trasformazione della CEE in zona di libero scambio allargata, che con tenace insistenza erano sostenute dal governo britannico e negoziate in seno all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE).
I negoziati per l’approvazione e l’applicazione delle proposte della Commissione dei primi regolamenti della PAC dominarono la vita della CEE nel corso dei primi anni Sessanta. Occorre ricordare che le prime “liberalizzazioni”, e cioè le prime riduzioni degli ostacoli agli scambi all’interno della CEE, non avevano creato gravi problemi, anche perché facilitate da una favorevole congiuntura economica. Il calendario dell’unione doganale era stato generalmente rispettato. Una conferma formale venne dalla decisione del Consiglio della Comunità il 14 gennaio 1962, che, constatando il raggiungimento dei principali obiettivi fissati dal Trattato per la realizzazione della prima tappa del Mercato comune, fissava l’inizio della seconda tappa del periodo transitorio al 1° gennaio 1962.
L’avvio dei negoziati agricoli, voluto con insistenza dai francesi, aveva avuto come contropartita l’accelerazione del disarmo doganale interno per i prodotti industriali e del riavvicinamento delle tariffe nei confronti dei paesi terzi alla TEC. Le decisioni di accelerazione (nonché l’inizio dei negoziati agricoli) furono prese dal Consiglio il 12 maggio 1960, ed erano il risultato di un do ut des tra i paesi a tendenza protezionistica (Francia e Italia) e i paesi a tradizione liberoscambista (Germania e Benelux). Questi ultimi, peraltro, risultarono i veri vincitori del confronto, avendo ottenuto – grazie anche a una persistente congiuntura economica favorevole – che alla fine del periodo transitorio (in seguito all’accelerazione, fissata anticipatamente al 1° luglio 1968) la media aritmetica dei dazi della TEC fosse inferiore a quella di tutti i più importanti paesi industrializzati (6,9%, mentre quella del Regno Unito era dell’11,6% e quella degli Stati Uniti dell’11,1%). Tale risultato fu dovuto anche ai risultati dei negoziati in seno al cosiddetto “Kennedy round”, e cioè i negoziati multilaterali promossi dagli Stati Uniti per una diminuzione concordata delle tariffe doganali tra i membri dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), l’antenata dell’attuale Organizzazione mondiale del commercio (OMC).
L’avvio della Politica agricola comune (PAC) e i negoziati per l’adesione della Gran Bretagna
La libera circolazione dei prodotti agricoli non poteva essere conseguita nello stesso modo con cui era stata decisa l’unione doganale per i prodotti industriali. L’economia agricola dei sei paesi membri della CEE era alquanto differente, non soltanto per le ovvie disparità di clima, di fertilità delle terre, di abbondanza delle stesse, di livello tecnologico, di tradizioni culturali, ma anche e soprattutto per l’esistenza, in ogni paese, di politiche originali di protezione dell’agricoltura difficilmente armonizzabili. In ogni paese il settore agricolo era in qualche modo protetto dalla concorrenza internazionale, e quindi in qualche modo amministrato, sin dai primi tempi della rivoluzione industriale. Occorreva quindi costruire un “mercato comune agricolo” mediante una legislazione comune, che avrebbe dovuto sostituire la maggior parte delle regole nazionali di protezione e di gestione dei mercati.
L’elaborazione delle proposte dei regolamenti di mercato per i principali prodotti agricoli fu assai difficile e complessa. Fu il vicepresidente della Commissione, l’olandese Sicco Mansholt, a reggere le fila dei lavori preparatori. Il Trattato assegnava alla PAC obiettivi generali di grande importanza, tra i quali la crescita della produttività in agricoltura, l’ottenimento di un giusto (équitable) livello di vita per gli agricoltori, la stabilità dei mercati e la sicurezza degli approvvigionamenti per i Sei. Seguendo questi principi, e dopo lunga riflessione, il 30 giugno 1960 la Commissione inviava al Consiglio un memorandum nel quale esponeva il suo programma per la PAC (organizzazione di mercato unica con regolamenti per ciascuno dei prodotti di base e derivati, finanziamento della PAC mediante l’istituzione di un Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia – FEOGA – politica strutturale, aiuto alle esportazioni, solidarietà finanziaria).
Cominciò quindi il grande negoziato, durato (anche se con lunghe pause) circa otto anni. Furono discussi dapprima i principi di base proposti dalla Commissione, quindi le proposte di regolamenti per le organizzazioni di mercato. Regolamenti di base furono, dopo lunghe maratone, approvati il 14 gennaio 1962 sotto la forte pressione dei francesi, che avevano condizionato all’approvazione della PAC sia l’accelerazione dell’unione doganale, sia l’inizio dei negoziati con la Gran Bretagna che erano stati richiesti nel frattempo (9 agosto 1961) da quest’ultima, dall’Irlanda (11 luglio) e dalla Danimarca (l0 agosto).
Nello stesso periodo, quasi contemporaneamente si svolgeva la vicenda del negoziato proposto dalla Francia di de Gaulle per la creazione di una “Unione politica” tra i Sei. Le proposte di de Gaulle erano chiaramente intese a contrastare qualsiasi evoluzione sopranazionale dell’integrazione europea. A tal fine la coordinazione delle politiche estere dei Sei avrebbe dovuto consacrare la prevalenza del metodo intergovernativo nella cooperazione europea, con il chiaro intento di affidare ad esso una funzione di guida e di controllo dell’integrazione economica. I negoziati presero il via con una riunione al vertice convocata dal presidente francese a Parigi il 10 e l’11 febbraio 1961, e fu subito chiaro l’appoggio della Germania di Adenauer e la riluttanza dei paesi del Benelux e dell’Italia. A un successivo vertice a Bad Godesberg, il 18 luglio successivo, i lavori furono proseguiti sulla base di documenti preparatori redatti da un comitato ad hoc, che prese il nome di Commissione Fouchet dal suo presidente, il diplomatico francese Christian Fouchet (v. Piano Fouchet). Due piani successivi vennero messi a punto, entrambi aspramente contestati dagli interlocutori della Francia – soprattutto il secondo, che chiaramente ampliava le competenze dell’Unione di Stati al campo dell’economia, mettendo a repentaglio l’autonomia delle Comunità. Le divergenze in seno ai Sei si moltiplicarono, anche in vista dei negoziati britannici. De Gaulle riteneva ormai impossibile pervenire a un accordo costruttivo, e anche i successivi progetti redatti dal successore di Christian Fouchet, l’italiano Attilio Cattani, fallirono nell’aprile 1962; una polemica conferenza stampa del generale suggellò il 15 maggio la fine del negoziato politico.
Ormai la Francia puntava su un’alleanza a due con la Germania, come fu chiaro dopo un trionfale viaggio di de Gaulle, nell’autunno del 1962. Un trattato di cooperazione franco-tedesco fu firmato a Parigi l’11 gennaio 1963, qualche giorno prima della storica conferenza stampa tenuta dal presidente francese il 14 successivo, in cui egli avrebbe annunciato il veto della Francia all’entrata del Regno Unito nella Comunità, adducendo non soltanto le evidenti reticenze e resistenze del candidato all’accettazione dell’Acquis comunitario, ma anche e soprattutto il suo rifiuto ad abbandonare i legami speciali con gli Stati Uniti (ribaditi il 18 dicembre a Nassau, con l’accordo tra il presidente americano John F. Kennedy e il primo ministro britannico Harold Macmillan sui vettori nucleari Polaris) e la conseguente impossibilità di un accordo politico con la Francia che suggellasse l’entrata dei britannici nella Comunità.
Il veto francese concludeva così, in chiaroscuro, un’intensa attività diplomatica francese intesa a modificare la realtà politica dell’integrazione europea secondo una visione ben diversa da quella dei fondatori delle Comunità. Se nell’insieme l’azione di de Gaulle non aveva avuto successo, tuttavia il metodo comunitario era stato messo alla prova, e l’integrazione non avrebbe più ritrovato l’impulso e il successo degli inizi.
La crisi della “sedia vuota” e gli ultimi anni Sessanta
La Francia gollista non aveva rinunciato alla battaglia contro le ambizioni sopranazionali delle istituzioni comunitarie e dei suoi sostenitori, nonostante il fallimento del tentativo di “unione politica”, che avrebbe dovuto segnare un’evoluzione istituzionale favorevole all’ideologia gollista. L’occasione di una nuova offensiva si presentò allorché la Commissione, il 31 marzo 1965, decise di proporre il nuovo regolamento finanziario della PAC, che avrebbe dovuto valere come legislazione definiva. Conformemente a quanto previsto dal Trattato CEE, la proposta della Commissione prevedeva l’imputazione al Bilancio dell’Unione europea dei diritti doganali e dei proventi dei dazi mobili per i prodotti agricoli provenienti dalle importazioni comunitarie. Come corollario a tali disposizioni, la Commissione proponeva altresì l’intervento del Parlamento europeo nella procedura di approvazione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), quindi un aumento dei poteri di quest’ultimo, anch’esso previsto dal Trattato (v. Olivi, 2000, pp. 96-104).
Contro questa iniziativa della Commissione (che intendeva rafforzare le istituzioni comunitarie), la Francia manifestò presto la sua opposizione, che si rivelò insuperabile nel corso del lungo negoziato in seno al Consiglio. Al termine di una lunga maratona, nella notte tra il 30 giugno e il 31 luglio 1965, il ministro degli Esteri francese annunciò che la Francia (di fronte all’atteggiamento degli altri paesi membri sfavorevole a un cambiamento radicale della proposta della Commissione) aveva deciso di ritirare i propri rappresentanti al Consiglio, provocando una grave crisi e una vera e propria paralisi del Processo decisionale della Comunità. Tale crisi durò a lungo, essendo chiara la volontà della Francia gollista di esigere una modifica importante del Trattato per quel che riguardava i poteri delle istituzioni, e in particolare quelli della Commissione.
I negoziati formali tra i Sei ripresero soltanto nel gennaio 1966, dopo che, nelle elezioni presidenziali svoltesi nel dicembre precedente, il generale de Gaulle non era stato eletto – come avvenuto in precedenza – al primo turno, anche grazie a un’opposizione crescente alla sua politica europea. Il 29 gennaio, a Lussemburgo i Sei raggiunsero un compromesso, che se anche non accettava le richieste radicali del governo francese, avrebbe pesato a lungo sul funzionamento della procedura decisionale comunitaria. Mentre le prerogative essenziali della Commissione venivano salvaguardate, il voto a maggioranza – che avrebbe dovuto diventare la regola, salvo le eccezioni espresse nel Trattato – fu dichiarato inapplicabile nel caso di deliberazione su “questioni vitali” per uno Stato membro. Anche se in apparenza si trattava di una dichiarazione unilaterale della Francia, non espressamente assecondata dagli altri Stati membri, essa fu spesso, nel corso degli anni seguenti, invocata con successo anche da questi ultimi. Si può quindi concludere che il metodo comunitario, nel suo complesso, usciva indebolito dalla crisi della “sedia vuota”. Gli ultimi anni del potere gollista in Francia videro comunque il completamento dell’unione doganale tra i Sei, previsto per la fine del periodo transitorio ma stato anticipato al 1° luglio 1968.
La volontà di de Gaulle si era peraltro ancora imposta con la consueta intransigenza in occasione della nuova domanda di apertura di negoziati per l’adesione da parte di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca. Presentata l’11 maggio del 1967, essa fu oggetto di un nuovo veto da parte del governo francese il 27 novembre dello stesso anno. Sempre nel 1967, il 1° luglio, entrava in vigore il Trattato detto di “fusione degli esecutivi”, già firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965. Esso istituiva un Consiglio unico e una Commissione unica con sede a Bruxelles, incaricati di applicare i tre Trattati comunitari in vigore (CECA, CEE ed Euratom), questi ultimi rimanendo in vigore per tutte le altre norme. La Commissione unica per i primi tre anni sarebbe stata composta da 14 membri, e quindi da 9 membri. La “fusione degli esecutivi” comportava altresì una nuova dislocazione di taluni servizi della nuova Commissione (soprattutto in compensazione a favore del Lussemburgo) e una maggior importanza organica e sostanziale del Comitato dei rappresentanti permanenti, tenuto ormai a trattare tutte le questioni comunitarie (v. Jouve, 1967, vol. I, pp. 348-391).
Dopo il fallimento del referendum sulla riorganizzazione dello Stato indetto il 27 aprile 1969, de Gaulle presentava le dimissioni, essendo peraltro il suo prestigio fortemente indebolito dopo gli avvenimenti del 1968. Gli succedeva alla presidenza della Repubblica, il 15 giugno successivo, Georges Pompidou, di cui si conosceva la disparità di opinione sulla politica europea della Francia.
Proponendo agli altri paesi membri una Conferenza al vertice da tenersi all’Aia nell’autunno del 1969, Pompidou faceva chiaramente conoscere la sua volontà di cambiamento di rotta della politica europea della Francia. E infatti, nel corso di quella riunione tale cambiamento fu evidente e il sostegno dei consorti agevolmente conseguito. La presenza di Willy Brandt, nuovo cancelliere della Germania federale, già impegnato nella Ostpolitik e favorevole a un riavvicinamento alla Francia, non fu estranea al successo della Conferenza. Oltre a un accordo sull’apertura di negoziati con i paesi candidati, i Sei pervennero all’approvazione della realizzazione a tappe di un’Unione economica e monetaria e all’accettazione della proposta francese del completamento del mercato comune agricolo. In breve, la Comunità usciva dall’impasse e dall’atmosfera di passività obbligata che vi dominava ormai da anni (v. Weidenfeld, Wessels, 1969-1970, passim).
Gli anni Settanta. L’adesione dei candidati, le crisi monetarie e lo stallo della Comunità
I negoziati con i tre paesi candidati (per la precisione quattro, poiché vi prese parte la Norvegia, alla fine rinunciando all’adesione in seguito al risultato negativo di un referendum) iniziarono nel secondo semestre del 1970. Da parte britannica, essi furono condotti, alquanto inaspettatamente, da un governo conservatore succeduto a quello del laburista Harold Wilson dopo le lezioni legislative del 18 giugno 1970. Primo ministro era stato nominato Edward Heath, colui che aveva condotto la delegazione del Regno Unito ai negoziati degli anni Sessanta. I problemi sul tappeto erano ancor più numerosi e difficili, essendo ormai imponente l’acquis communautaire, specie in tema di agricoltura. La Commissione, chiamata a negoziare su direttive del Consiglio, era dal 10 luglio ricondotta a 9 membri e il nuovo presidente fu l’italiano Franco Maria Malfatti, secondo commissario italiano essendo stato nominato anche Altiero Spinelli.
Come tutti si attendevano, le trattative furono particolarmente aspre, con momenti di vivissima tensione. Gli ultimi problemi all’ordine del giorno della conferenza (che costarono ai negoziatori lunghe notti insonni al Lussemburgo) furono quelli relativi alle importazioni agricole dalla Nuova Zelanda e al contributo finanziario della Gran Bretagna al bilancio della Comunità. Queste due questioni furono poi ridiscusse nel corso del cosiddetto “rinegoziato”, voluto da Harold Wilson, vincitore delle elezioni legislative del 28 luglio 1974. Wilson chiedeva addirittura anche la revisione delle clausole agricole, ma ottenne soltanto, al Consiglio europeo di Duplico del 10 e 11 marzo 1975, una temporanea revisione delle clausole “neozelandesi” e un meccanismo correttore del contributo britannico Quest’ultimo, risolto in via temporanea e provvisoria, avrebbe dominato la vita della Comunità ancora per molti anni, prima di essere risolto in via (quasi) definitiva al Consiglio europeo di Fontainebleau nel 1984 (v. anche Accordi di Fontainebleau). Comunque, i modesti risultati del “rinegoziato” permisero a Wilson di ottenere una maggioranza favorevole al referendum da lui indetto il 5 giugno successivo. L’atto formale di adesione del Regno Unito, dell’Irlanda, della Danimarca e della Norvegia fu firmato a Bruxelles il 22 gennaio 1972. Il 25 settembre dello stesso anno i cittadini norvegesi rifiutarono la ratifica del Trattato, e pertanto il 10 gennaio 1973 entrarono a far parte della Comunità la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca. Il numero dei membri della Commissione salì a tredici, mentre analoghi adeguamenti furono apportati ad altre istituzioni e organismi della Comunità. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo facenti parte del Commonwealth negoziarono quindi, insieme ai paesi già associati alla Comunità, una nuova Convenzione di associazione, firmata a Lomé il 28 febbraio 1975 da 46 paesi dell’Africa, dei Carabi e del Pacifico, poi saliti a oltre 60 nei rinnovi successivi (v. Convenzioni di Lomé).
Nel frattempo la Comunità subiva l’impatto e le conseguenze della crisi monetaria che si prospettava su scala mondiale, dopo la decisione del presidente americano Richard Nixon del 15 agosto 1971 di far fluttuare il dollaro, denunciando gli accordi di Bretton Woods sulla convertibilità del dollaro in oro. Le conseguenze per la Comunità di questa decisione americana furono immediatamente sensibili, e già il 21 marzo 1972 i paesi membri si erano accordati sulla fluttuazione concertata, premessa di un sistema monetario comune. Ma l’argomento fu ripreso alla conferenza al vertice convocata a Parigi dal presidente Pompidou il 19 ottobre 1972, con l’obbiettivo di un rilancio politico della Comunità allargata. Si parlò anche del rilancio di un progetto di Unione economica e monetaria sulla base del Piano Barre, dal nome dell’ex vicepresidente della Commissione Raymond Barre, di cui si decise la realizzazione, arrestatasi peraltro alla prima tappa.
Le conseguenze della crisi del dollaro furono aggravate dalla crisi energetica provocata dalla guerra del Kippur tra Israele e i Paesi Arabi e dalle conseguenti decisioni dei paesi produttori di petrolio di aumentare il prezzo del greggio di circa quattro volte, aggravando quindi in modo brutale e improvviso una crisi economica già in atto nel mondo industriale. Tale crisi provocò un’obiettiva paralisi della Comunità, ancorché la solidarietà comunitaria e il libero scambio all’interno della CEE fossero sostanzialmente rispettati. Si aggravò peraltro la crisi monetaria, provocando l’uscita dalla fluttuazione concertata (chiamata anche Serpente monetario) di molti paesi.
Inutili furono gli sforzi per provocare un’uscita dalla crisi mediante un rilancio della Comunità. Si può anzi affermare, in brevissima sintesi, che i soli progressi della Comunità dopo lo scoppio della crisi petrolifera furono di natura istituzionale: su proposta del nuovo Presidente della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing, il Consiglio della Comunità decise la formalizzazione del vertice dei capi di Stato e di governo, che da allora in poi si sarebbe chiamato Consiglio europeo, e come tale sottoposto alle regole di funzionamento del Consiglio della Comunità. Più importante ancora fu la decisione, anch’essa su proposta francese, di indire le elezioni dirette a suffragio universale del Parlamento europeo, che si sarebbero tenute per la prima volta il 7-10 giugno 1979 (v. Burban, 1979, pp. 101-150).
Degli anni Settanta va ricordata altresì l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME), a lungo pensato e negoziato, che propose nuove regole per la fluttuazione concertata delle monete comunitarie, accompagnate da nuovissimi meccanismi d’intervento e di credito monetario. Il sistema, che sarebbe sopravvissuto con alterne vicende fino al Trattato di Maastricht, fu approvato ai Consigli europei di Brema (6-7 luglio 1978) e di Bruxelles (5-6 dicembre) ed entrò in vigore il 13 marzo 1979.
Gli anni Ottanta. Inizio delle grandi riforme: l’Atto unico, il perfezionamento del Mercato unico e La Comunità a dodici membri
I primi anni Ottanta videro importanti cambiamenti politici in Europa. Dopo l’ascesa al potere in Gran Bretagna del partito conservatore e la nomina a primo ministro di Margaret Thatcher il 3 maggio 1979, il 10 maggio 1981 il socialista François Mitterrand fu eletto Presidente della Repubblica francese. In Germania, il 1° ottobre 1982, il democristiano Helmut Josef Michael Kohl divenne cancelliere federale. I tre capi di Stato e di governo furono i protagonisti della scena comunitaria per oltre un decennio, un periodo assai importante in quanto vide il rilancio comunitario dopo lunghi anni di crisi. In effetti, già da qualche tempo la congiuntura economica era in via di miglioramento e si manifestava chiaramente l’esigenza di una ripresa della vita comunitaria. In particolare, era diventato urgente il perfezionamento del Mercato unico europeo, che dopo la messa in opera dell’unione doganale continuava a essere incompleto, data la sussistenza di numerosi ostacoli agli scambi la cui eliminazione si rivelava particolarmente difficile, anche in virtù delle procedure legislative in vigore (come ad esempio la necessità del voto unanime del Consiglio per l’Armonizzazione legislativa prevista dal Trattato). La Commissione (alla cui guida era stato chiamato il 1° gennaio 1985 il francese Jacques Delors, destinato a una lunga e felice presidenza) era sensibile a questa esigenza e alle pressioni degli ambienti economici della CEE, e dopo una lunga preparazione presentò al Consiglio europeo un Libro bianco sul completamento del Mercato unico, un vero e proprio programma legislativo che proponeva, oltre che una riforma del Trattato, l’approvazione di quasi 300 atti legislativi e decisioni da parte del Consiglio.
Al Consiglio europeo di Milano (28 e 29 giugno 1985), presieduto dal Presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi (con Giulio Andreotti, ministro degli Esteri e grande protagonista della sessione) si decise, oltre che il via libera alla presentazione delle proposte della Commissione, anche l’apertura di una serie di negoziati per la riforma del Trattato (nonostante l’opposizione di Margaret Thatcher). La Conferenza ad hoc inaugurò i suoi lavori il 9 settembre successivo. I lavori procedettero speditamente e il 17 febbraio 1986 il primo Trattato di riforma della struttura comunitaria veniva firmato da 9 Stati membri, quindi il 28 febbraio dai 3 rimanenti (la Comunità era già a 12 membri, dopo l’adesione di Grecia, Spagna e Portogallo). L’entrata in vigore seguiva il 1° luglio 1987.
L’Atto unico (così chiamato perché, oltre a riguardare il Trattato CEE, conteneva le prime norme – non comunitarie – sulla cooperazione politica) proponeva quindi la prima riforma del Trattato di Roma. Si trattava di un atto importante, perché non conteneva soltanto norme riguardanti il completamento del Mercato unico, ma conferiva anche nuove competenze alla Comunità, aggiungendo nuove politiche comuni a quelle previste nel Trattato fondatore – politica regionale, Politica ambientale, politica della ricerca (v. anche Politica della ricerca scientifica e tecnologia), ecc. – nonché nuove disposizioni in tema di Politica industriale, Politica dell’energia e politica sociale. In particolare, come si è già accennato, l’Atto unico conteneva una parte dedicata alla cooperazione in politica estera, estendendola agli aspetti politici ed economici della sicurezza.
L’Atto unico fu il primo “trattato riformatore” concluso tra gli Stati membri della CEE e seguiva, essendone una pratica conseguenza, l’iniziativa del Parlamento europeo che, con un progetto di “Trattato sull’Unione europea” (approvato dall’assemblea il 14 febbraio 1984) di cui era stato promotore e guida Altiero Spinelli, aveva costituito la prima spinta e il primo episodio di quella grande riforma della Comunità da molti auspicata a distanza di quasi trent’anni dai Trattati di Roma. Con il senno di poi, si può ben condividere il rammarico di quanti ritenevano il progetto Spinelli ben costruito e sicuramente adatto a dar vita alla “grande riforma” (v. Angelino, 2003, pp. 153-181). Il rifiuto degli Stati membri non impedì, tuttavia, l’inizio di un lungo periodo “riformatore” che condusse, oltre che all’Atto unico, ai successivi Trattati di Maastricht, di Amsterdam (v. Trattato di Amsterdam) e di Nizza (v. Trattato di Nizza), e infine al progetto costituzionale della Convenzione (v. Olivi, 2000, pp. 286-324) (v. Convenzione europea; Costituzione europea).
Come si è accennato, gli Stati membri della CEE erano ormai 12. La Grecia, dopo la fine della dittatura dei colonnelli, era diventata il decimo Stato membro il 1° gennaio 1981, mentre la Spagna e il Portogallo, anch’essi usciti da lunghe dittature negli anni Settanta, avevano dovuto negoziare per oltre otto anni per poter diventare, il 1° gennaio 1986, membri della CEE. Con l’adesione della Spagna, del Portogallo e della Grecia la CEE spostava il suo baricentro verso il Mediterraneo e compiva un notevole passo verso il completamento dell’integrazione europea nella parte occidentale del continente.
L’Atto unico, come si è visto, stabiliva le norme necessarie per il completamento del mercato comune, stabilendo anche la data entro la quale l’imponente processo legislativo necessario doveva essere compiuto e tutte le barriere agli scambi (tranne talune disposizioni fiscali) eliminate, e cioè il 31 dicembre 1992. Fu proprio in seguito all’approvazione di queste norme che si pose il problema della ripresa del processo di unione economica e monetaria, spesso auspicato e mai seriamente intrapreso. Fu soprattutto il presidente della Commissione Jacques Delors a insistere sull’indispensabile ripresa dell’iniziativa, in particolare in materia monetaria, là dove il Trattato non forniva basi normative sufficienti. Egli ottenne così l’istituzione di un comitato che prese il nome di Delors, essendo questi chiamato a presiederlo, incaricato di studiare e possibilmente progettare l’unione monetaria. Delors riuscì a riunire i governatori delle banche centrali della CEE e, dopo un lavoro tenace e fruttuoso, a produrre un rapporto (che anch’esso prese il suo nome) che prevedeva il conseguimento dell’unione monetaria in tre tappe, con disposizioni e meccanismi destinati poi a diventare il contenuto dell’accordo nel Trattato di Maastricht del 1992.
Gli anni Novanta. Il Trattato di Maastricht e l’Unione monetaria, l’Europa a Quindici e i Trattati di Amsterdam e Nizza
Il 9 novembre 1989 il muro di Berlino, simbolo della divisione dell’Europa e cerniera della “cortina di ferro”, cedeva sotto la pressione dei dimostranti dell’Est e dell’Ovest. La sua caduta – assolutamente imprevista dai politici e dagli osservatori occidentali – suggellava la fine dei regimi comunisti dell’Est, l’inizio dell’implosione del potere sovietico a Mosca e l’ineluttabile unificazione della Germania. L’evento annunciava altresì la fine della Guerra fredda e quindi la modifica sostanziale dei rapporti tra i paesi europei.
Per la Comunità, creata e cresciuta nel corso dei decenni del confronto tra Est ed Ovest, e perfino motivata al suo nascere dalla necessità di modificare in via permanente i rapporti politici tra i paesi dell’Occidente europeo e di spegnerne per sempre le ragioni d’inimicizia, la riunificazione della Germania e il ritorno sulla scena europea dei paesi dell’impero sovietico morente ponevano immensi problemi di motivazione e di programma. La riunificazione della Germania, prima di tutto, rischiava di turbare irrimediabilmente l’equilibrio politico e quindi i rapporti consolidati tra i membri, in primis quelli tra Francia e Germania, supporto essenziale dell’intera costruzione comunitaria (ma anche il governo di Margaret Thatcher non tardò a manifestare il suo malumore). Peraltro, la fretta con cui il cancelliere Kohl si accinse a proclamare la riunificazione tedesca e a prevederne le tappe provocò il temporaneo smarrimento del presidente Mitterrand, cui rispose l’offerta di Kohl di procedere all’unione economica e monetaria e addirittura alla moneta unica, con la rinuncia da parte della Germania al favoloso marco tedesco, simbolo della rinascita della potenza germanica.
Fu così che già nel giugno 1990, al Consiglio europeo di Dublino, i capi di Stato e di governo della CEE potevano accordarsi per l’apertura a dicembre di una serie di Conferenze intergovernative (CIG) che avrebbero dovuto negoziare l’unione economica e monetaria e l’unione politica. A riunificazione tedesca formalmente avvenuta (il 3 ottobre), la convocazione delle due conferenze veniva confermata a Roma in due riunioni del Consiglio europeo, del 27 e 28 ottobre e del 14 e 15 dicembre, e inaugurate il 15 dicembre.
Le due conferenze intergovernative finirono per lavorare in parallelo, soprattutto dopo che il governo lussemburghese, che le presiedeva pro tempore, sottopose un progetto completo di Trattato che fu poi sostituito con altro progetto, molto simile al primo ma meglio articolato e più accettabile dalle parti, preparato dalla presidenza olandese di turno dal 1° luglio successivo. Si scorgeva ormai la struttura a “tre pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea), e cioè in tre parti diverse, discusse e poi approvate anche in tempi diversi, la prima delle quali concerneva le riforme da apportare alla struttura comunitaria e all’Unione Europea, e cioè alla nuova entità che avrebbe conglobato tutte le riforme e le aggiunte ai Trattati esistenti. Di conseguenza, ad essa si riferivano anche gli altri due “pilastri”, quello che conteneva i nuovi obbiettivi e le nuove procedure della Politica estera e di sicurezza comune, nonché i primi passi in tema di difesa europea (v. Politica europea di sicurezza e difesa), e il terzo (v. Giustizia e affari interni), che riguardava la cooperazione intergovernativa in materia di polizia e di giustizia (argomenti nuovissimi nella normativa europea) (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).
Ciò non conferiva al Trattato il primato della chiarezza giuridica (ma anche politica), poiché all’Unione europea non veniva conferita personalità giuridica, rimanendo quindi essa una semplice espressione indicativa di un insieme, e cioè delle Comunità esistenti (CECA, CEE, Euratom) e di quant’altro veniva pattuito tra gli Stati membri delle Comunità all’infuori delle strutture delle Comunità medesime (v. Personalità giuridica dell’Unione europea). In questo contesto un’importante novità (conseguenza delle nuove competenze conferite alle istituzioni comunitarie) fu il cambiamento di denominazione della CEE, che diventava Comunità europea. A essa si sarebbe riferita da allora in poi tutta la struttura istituzionale (le altre Comunità sussistevano, ma le norme che le riguardavano restavano in vigore soltanto in riferimento alle modifiche del Trattato CEE e quindi alla Comunità europea). La Commissione (che sarebbe rimasta Commissione delle Comunità europee) e il Consiglio (che analogamente avrebbe conservato la denominazione di Consiglio delle Comunità europee), decisero più tardi e autonomamente di razionalizzare la propria denominazione (la Commissione divenne Commissione europea il 1° gennaio 1994; il Consiglio fu denominato Consiglio dell’Unione europea il 1° novembre 1993).
Il Trattato di Maastricht era quindi ben diverso da quello che auspicavano i suoi stessi protagonisti, e non costituiva il salto politico propugnato dal cancelliere Kohl in sintonia con la riunificazione tedesca. Benché i progressi istituzionali non mancassero (si pensi alle competenze legislative del Parlamento europeo), le reticenze rispetto alle aspettative della vigilia si erano rivelate invalicabili. Comunque, la parte relativa all’Unione economica e monetaria era stata approvata in conformità al rapporto Delors, e prometteva un approfondimento essenziale dell’integrazione. Tuttavia, il sentimento di “incompiuto” era condiviso da tutti, e per questa ragione il Trattato prevedeva che, a breve scadenza (e cioè nel 1996), gli Stati membri avrebbero convocato una nuova CIG per riesaminare talune parti del Trattato e procedere, se necessario, alla revisione di esso. Ciò avvenne, come peraltro era prevedibile, dopo laboriose trattative sul mandato da conferire alla nuova conferenza, che fu inaugurata a Torino il 28 marzo 1996.
Nel frattempo (e cioè dalla firma del Trattato di Maastricht, avvenuta il 7 febbraio 1992) molti avvenimenti avevano agitato la vita dell’Unione europea (UE), dalle vicende delle ratifiche da parte degli Stati firmatari – in particolare quelle relative ai referendum danesi e francese – alle crisi monetarie britannica e italiana, all’adesione all’UE di Austria, Finlandia e Svezia (formalizzata il 1° gennaio 1995) che portò a 15 il numero degli Stati membri della Comunità. È da ricordare l’avvio dell’Unione monetaria, che nel 1999 sarebbe entrata nella terza tappa prevista dal Trattato di Maastricht (v. Padoa-Schioppa, 1992).
I negoziati per il Trattato di Amsterdam procedettero speditamente sino alla firma, avvenuta il 2 ottobre 1997. Poche furono le riforme apportate dal Trattato di Amsterdam, soprattutto rispetto alle aspettative. Per quel che riguarda la Comunità europea, furono finalmente definite le procedure legislative e quindi il processo di Codecisione tra Parlamento e Consiglio che diventerà la prassi definitiva adottata dalle istituzioni legislative (v. Procedura di codecisione,). Alcune competenze aggiuntive in materia sociale venivano attribuite alla Comunità, soprattutto in tema di lotta alla disoccupazione, si stabilivano le procedure per la messa in opera del Principio di sussidiarietà, era ribadita la creazione della Cittadinanza europea, già istituita a dal Trattato di Maastricht, e per la prima volta i Diritti dell’uomo venivano solennemente citati come fondamenti dell’Unione (v. anche Convenzione europea dei diritti dell’uomo).
Il 12 luglio 1997 la Commissione presentava al Consiglio l’“Agenda 2000”, il programma e le previsioni finanziarie 2000-2007, insieme con i suoi “pareri” sull’adesione dell’Ungheria, la Polonia, l’Estonia, la Repubblica Ceca e la Slovenia. Il 31 marzo 1998 si aprivano a Bruxelles le conferenze ministeriali sull’adesione di questi paesi (v. anche Criteri di adesione), oltre che di Lituania, Lettonia, Slovacchia, Cipro e Malta. Fu quindi la prospettiva dell’adesione di questi dieci paesi a provocare una grande riflessione tra gli Stati membri sulla possibilità di adattare le istituzioni (nate per una Comunità a 6 membri, modificate in seguito ai successivi allargamenti a 9, a 10, a 15 membri) a un’Unione a 25 membri (v. anche Allargamento). Per risolvere tali problemi si rendeva quindi necessaria un’ulteriore Conferenza intergovernativa, che iniziò i suoi lavori nel febbraio 2000. Quattro furono i temi principali di discussione: la dimensione e la composizione della Commissione; la ponderazione dei voti del Consiglio; la sostituzione dell’unanimità con la maggioranza qualificata nelle procedure di decisione, e infine le “cooperazioni rafforzate”. L’11 dicembre 2000 il Consiglio europeo di Nizza, dopo aspre ed estenuanti discussioni, approvava un progetto di Trattato e una “Dichiarazione sull’avvenire dell’UE”, in cui implicitamente si riconosceva il fallimento del metodo diplomatico classico, preconizzando l’avvio di un ampio dibattito anche di natura costituzionale.
La Convenzione e il Trattato costituzionale. L’incertezza delle ratifiche e la crisi conseguente
Al Consiglio europeo di Laeken (13-14 giugno 2001) i suggerimenti di Nizza furono lungamente e seriamente discussi e diedero luogo a una “Dichiarazione” in cui il Consiglio esponeva la sua decisione di convocare una Convenzione sull’avvenire dell’Unione europea composta da rappresentanti dei governi, istituzioni europee, istituzioni nazionali, in particolare i parlamenti, per discutere le numerose questioni (la dichiarazione ne enumerava più di sessanta), per semplificare, consolidare e razionalizzare l’immenso acquis communautaire e per delineare l’architettura definitiva dell’integrazione europea (v. Lamassoure, 2004, passim).
Il 28 febbraio 2002 prendevano avvio i lavori della Convenzione, che, secondo il parere del suo presidente Valéry Giscard d’Estaing, avrebbe dovuto redigere un “Trattato costituzionale”. Nel testo definitivo, firmato dai rappresentanti dei 25 governi membri a Roma il 29 ottobre 2004, veniva istituita una nuova Unione europea che sostituiva quella nata a Maastricht e alla quale veniva conferita personalità giuridica. La Comunità europea, erede della Comunità economica europea, scompariva definitivamente.
Il Trattato costituzionale conta 448 articoli, divisi in quattro parti. La prima, che non porta alcun titolo, definisce i valori e le istituzioni dell’UE. La seconda riproduce integralmente il testo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000. La terza parte del testo, dedicata alle politiche dell’Unione, è di gran lunga la più complessa, in quanto riassume in testo di non facile lettura le norme e le disposizioni di ben cinque Trattati. Infine, la quarta parte contiene disposizioni sulla ratifica, sull’entrata in vigore e sulla procedura di revisione del testo costituzionale.
Il referendum francese del 2005, con il quale la Francia rifiutava la ratifica della Costituzione europea con una maggioranza del 54,5% di voti contrari, nonché il parere contrario espresso nello stesso anno dai cittadini dei Paesi Bassi rappresentavano un colpo gravissimo per l’integrazione europea, rendendo incerto il futuro del Trattato costituzionale se non della stessa Unione europea.
Bino Olivi (2007)
Bibliografia
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