Congresso del popolo europeo
Il Congresso del popolo europeo (CPE) è stato una campagna di mobilitazione popolare a favore di una assemblea costituente della federazione europea ideata e promossa dal leader del Movimento federalista europeo (MFE) Altiero Spinelli negli anni dal 1955 al 1962. Alla base di questa campagna c’era un giudizio fortemente critico nei confronti della politica europeistica portata avanti dai governi dell’Europa dei Sei dopo la bocciatura del progetto della Comunità europea di difesa (CED) nel 1954. Questo progetto apriva la strada alla costruzione in tempi rapidi di una federazione europea perché non si poteva costituire un esercito europeo senza prevedere – per non violare un principio inderogabile del sistema democratico – la sua subordinazione a una autorità politica democratica europea. In effetti il progetto di trattato istitutivo della CED prevedeva nell’art. 38 (derivante fondamentalmente dall’azione del MFE) un processo costituente di una unione politica europea attraverso l’affidamento di un compito costituente all’Assemblea parlamentare della CED. Questa elaborò un progetto di Comunità politica europea (CEP) di natura federale, che prevedeva anche l’integrazione economica sulla base della considerazione che la solidarietà nell’impegno per la difesa comune doveva essere necessariamente accompagnata dalla solidarietà economica e sociale.
In connessione con la caduta della CED (e conseguentemente della CEP), erano venute meno, secondo l’analisi di Spinelli, le condizioni che avevano spinto i governi dei Sei a una politica europeistica così avanzata da portarli ad accettare le richieste federaliste. Anzitutto, con il relativo riassestarsi delle economie nazionali, grazie agli aiuti americani, le forze della conservazione nazionale avevano ripreso il sopravvento ed erano diventate sempre più intolleranti di fronte alla prospettiva di cedere poteri sostanziali a organi sopranazionali. Era d’altra parte cambiata la situazione internazionale. In seguito alla morte di Stalin erano emerse prospettive di attenuazione della Guerra fredda e di distensione che avevano indebolito la disponibilità a soluzioni sopranazionali da parte dei governanti che si erano convertiti all’europeismo più per un riflesso di paura che per una chiara comprensione della necessità storica di superare gli Stati nazionali sovrani. Inoltre l’appoggio americano all’unificazione europea era diventato più blando e comunque era diminuita la capacità di influenza americana sugli Stati europei, per cui le diplomazie nazionali erano diventate maggiormente capaci di imbrigliare le iniziative dei ministri europeisti. Dopo la caduta della CED e la conseguente decisione di accettare il riarmo nazionale della Germania occidentale nel quadro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e di una organizzazione priva di poteri reali quale l’Unione dell’Europa occidentale, si era infine data una soluzione nazionale invece che europea al problema che più di tutti aveva spinto i governi europeisti a impegnarsi seriamente nel tentativo di passare dal funzionalismo al Federalismo. Nella nuova situazione che si era in tal modo venuta a creare non appariva dunque più realistico aspettarsi dai governi nazionali una politica europeista che andasse al di là della semplice cooperazione fra Stati sovrani e della creazione di istituzioni pseudosopranazionali.
Sulla base di questa analisi Spinelli propose una linea politica – che si richiamava alle tesi di fondo del Manifesto di Ventotene e dei documenti elaborati dal MFE in occasione della sua fondazione e della partecipazione alla Resistenza – avente al suo centro la convinzione che i governi e i partiti nazionali non potessero giungere spontaneamente alla realizzazione di una vera unificazione federale europea. Per spingerli a superare la loro tendenza strutturale alla conservazione del potere nazionale, era indispensabile la creazione di una forza politica federalista da essi autonoma, organizzata su base sopranazionale, capace di mobilitare su larga scala l’opinione pubblica e in grado di sfruttare a proprio vantaggio le situazioni di crisi acuta in cui gli Stati nazionali erano destinati a incappare data la loro inadeguatezza organica di fronte ai problemi del mondo moderno. Questa convinzione, che nella fase di avvio dell’unificazione europea era stata messa in parte in ombra dall’assunzione, legata a una situazione storica contingente, di un ruolo di ispiratori e consiglieri dei governi, divenne dopo la grande sconfitta del 1954 il criterio di orientamento basilare della linea politica che Spinelli fece accettare alla maggioranza dei federalisti.
Tre erano gli aspetti più qualificanti di questo orientamento. Anzitutto si decise di assumere un atteggiamento di opposizione senza compromessi nei confronti dei governi e di denuncia intransigente di tutte le loro iniziative europeistiche che non prevedessero la creazione di istituzioni di carattere federale e la partecipazione dei cittadini alla loro definizione. Si sostenne pertanto che l’unico organo legittimato a elaborare la costituzione europea non poteva essere costituito né da diplomatici né da delegazioni di Parlamenti nazionali, ma doveva essere eletto direttamente dai popoli europei e che la costituzione da esso votata avrebbe dovuto essere ratificata non dai parlamenti nazionali, bensì tramite referendum popolari. In questo contesto venne espresso nei confronti del rilancio di Messina e quindi dei Trattati di Roma un giudizio radicalmente critico che, nella sostanza, prevedeva il fallimento del disegno di realizzare un mercato comune non inquadrato nella costruzione di strutture istituzionali realmente federali e democratiche.
Per costruire una forza politica in grado di ottenere, allorché la situazione fosse diventata matura, dai governi la convocazione della costituente europea, si decise quindi di organizzare una campagna capillare e di lungo periodo di mobilitazione dell’opinione pubblica al di fuori dei quadri politici nazionali. Secondo Spinelli e i suoi seguaci, la grande maggioranza dei cittadini europei, e in particolare di quelli della Piccola Europa, era favorevole all’unità europea perché percepiva l’impotenza degli Stati nazionali. In questo senso esisteva un popolo europeo, che non doveva essere inteso come una comunità di tipo nazionale, dal momento che era composto da differenti nazioni, ma come una comunità di cittadini che erano gravemente danneggiati nei loro interessi materiali e nelle loro esigenze ideali dalla crisi storica degli Stati nazionali sovrani (i quali dovevano essere considerati illegittimi perché ormai strutturalmente incapaci di perseguire efficacemente i compiti – benessere economico, sicurezza, libertà – in funzione dei quali erano stati costruiti) e che aspiravano, sia pure confusamente, al superamento di questa situazione attraverso l’unità europea. Questa diffusa aspirazione non poteva però esprimersi in modo politicamente efficace attraverso le strutture e le procedure politiche nazionali – partiti, elezioni, formazione dei governi nazionali – le quali permettevano di mobilitare solo i cittadini di ogni singolo paese e per obiettivi di politica nazionale. Compito dei federalisti era pertanto quello di creare degli strumenti di azione politica sopranazionale in grado di permettere al popolo europeo di prendere coscienza della necessità di costruire la federazione europea attraverso il metodo costituente e di far valere questa volontà al di fuori dei condizionamenti prodotti dalle istituzioni politiche nazionali. Lo strumento fondamentale proposto da Spinelli per realizzare questo obiettivo era il CPE, cioè l’organizzazione (che si ispirava all’esempio del Congresso indiano di Gandhi) di elezioni primarie in varie città d’Europa per dar vita a un congresso di rappresentanti del popolo europeo il quale, attraverso il coinvolgimento progressivo di milioni di persone, giungesse a ottenere la legittimità democratica e il peso politico necessari per poter forzare i governi alla convocazione della costituente europea.
La proposta della campagna per il CPE era accompagnata dalla convinzione che si trattava di iniziare una battaglia politica a lungo termine. Nel breve periodo non si vedeva cioè alcuna possibilità di spingere i governi a concessioni significative nei confronti delle rivendicazioni federaliste perché gli Stati nazionali, per quanto stoicamente condannati a una inesorabile decadenza, non si trovavano in una fase di crisi acuta. Ma l’impossibilità di risolvere i problemi fondamentali nel quadro della cooperazione fra Stati sovrani e l’inadeguatezza di una politica europeistica incapace di andare al di là di questo quadro avrebbero prima o poi prodotto situazioni di crisi acuta in cui l’alternativa di unirsi o perire avrebbe indebolito in modo decisivo le resistenze nazionalistiche. Si trattava di trovarsi pronti per questo appuntamento con una forza politica federalista organizzata sul piano sopranazionale, disponente di un ampio consenso popolare e in grado perciò di forzare e non solo pregare i governi nazionali.
La linea imperniata sul CPE e sulla critica radicale ai Trattati di Roma fu fatta propria dalla maggioranza del MFE, dei federalisti francesi, belgi e austriaci e da importanti ma minoritari nuclei federalisti in Germania, Olanda (v. Paesi Bassi), Lussemburgo e Svizzera. Ebbe quindi effetti dirompenti nei confronti della sostanziale unitarietà dell’europeismo che si era realizzata negli anni della fondazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e dei progetti della CED e della CEP. La conseguenza fu la rottura con gli europeisti favorevoli a un appoggio più o meno critico nei confronti delle politiche europeistiche governative. A livello europeo ciò si manifestò in particolare nella spaccatura dell’(UEF) e nella successiva nascita dell’Azione europea federalista (imperniata sulla grande maggioranza dei federalisti tedeschi e olandesi) e del Movimento federalista europeo sopranazionale, che si sarebbero poi riunificati nella nuova UEF nel 1973. A livello italiano si produsse l’isolamento del MFE nei confronti della classe politica per cui gli europeisti legati ai partiti decisero in generale di sospendere la partecipazione attiva al movimento anche se in molti casi rimasero formalmente iscritti.
La campagna del CPE, nella cui organizzazione ebbero un ruolo fondamentale gli italiani Alberto Cabella, Luciano Bolis, Mario Albertini e Amedeo Mortara, i francesi André Darteil, Michel Mouskhely e André Thiery, i tedeschi Winfried Krause, Claus Schöndube e Horst Thiele, l’olandese Piet Houx, i belgi Ludo Dierickx e Georges Goriely, ebbe il suo fulcro nelle elezioni dei delegati al CPE, che si svolsero a partire dal 1957. Le operazioni elettorali – svolte con procedure che impedivano i doppi voti e garantivano la segretezza del voto – furono ripetute periodicamente, ampliando il numero delle città coinvolte fino al 1962. Le elezioni furono organizzate in sette paesi (Italia, Francia, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Austria e Svizzera) e nelle seguenti città: Antwerpen-Maastricht, Bologna-Ferrara-Rovigo, Bruxelles-St. Josse, Capua-Napoli, Darmstadt, Düsseldorf, Feldbach-Neumarkt-Hartberg, Firenze-Massa, Frankfurt-Gross-Gerau, Furstenfeld, Genève, Genova-La Spezia, Lyon-Annecy, Milano-Ticino, Mons-St.Ghislain, Mulhouse, Nancy, Oostende, Roma, Strasbourg, Torino-Cuneo, Udine, Vernon, Vicenza. Furono raccolti in tutto 692.114 voti, dei quali – va ricordato – 455.214 in Italia. I delegati eletti dai cittadini europei – la cui attività fu documentata sistematicamente dal mensile “Popolo europeo” (1958-1964), che sotto la direzione di Spinelli fu pubblicato, oltre che in italiano (condirettore Cesare Merlini), in francese (condirettore André Darteil), tedesco (condirettore Claus Schöndube) e olandese (Piet Houx) – si riunirono in cinque sessioni: la prima a Torino dal 6 all’8 dicembre 1957, la seconda a Lione dal 23 al 25 gennaio 1959, la terza a Darmstadt dal 4 al 6 dicembre 1959, la quarta a Ostenda dal 7 al 9 dicembre 1960, la quinta e ultima a Lione dal 9 all’11 febbraio 1962.
In occasione di queste sessioni venivano esaminati i “quaderni di protesta e di rivendicazione del popolo europeo” che i vari distretti in cui si svolgevano le elezioni elaboravano (coinvolgendovi la società civile) incaricando i delegati di presentarli al CPE. Da questi documenti – essi si rifacevano al precedente dei “cahiers de Doleance” elaborati nel 1789 in vista della convocazione degli Stati generali che avrebbero aperto la strada alla rivoluzione francese –, di cui una commissione nominata dal congresso elaborò una sintesi, emerge, oltre a una visione dell’ampio e sistematico lavoro di mobilitazione dell’opinione pubblica intorno ai problemi concreti che rendevano necessaria la federazione europea, un quadro generale delle aspettative dell’opinione pubblica e del dibattito di quegli anni sui vari aspetti del problema dell’unificazione europea. È doveroso sottolineare che il Piemonte non solo produsse complessivamente il maggior numero di “quaderni” fra le città e regioni impegnate nel CPE – vanno segnalati in particolare i documenti degli intellettuali, degli insegnanti, degli agricoltori, degli amministratori locali del Canavese, dei lavoratori dell’industria, degli studenti – ma ottenne risultati pregevoli per quanto riguarda il loro contenuto e il prestigio delle persone partecipanti alla loro elaborazione.
Esemplare fu in questo senso il documento degli intellettuali, alla cui redazione parteciparono Mario Albertini, Norberto Bobbio, Giulio Cesoni, Gustavo Colonnetti, Paolo Greco, Geno Pampaloni, Piero Pieri, Silvio Romano. L’impegno, assunto con l’elaborazione di questo testo, a favore della federazione europea da costruirsi con il metodo costituente democratico e l’appello agli intellettuali d’Europa all’unione con il popolo europeo indica che il MFE, se aveva in quel momento rapporti molto difficili con i partiti e la classe politica in generale, aveva però una presenza significativa nel mondo della cultura.
Naturalmente l’impegno politico fondamentale del CPE si concentrò sull’obiettivo della costituente europea. Il CPE di Torino decise l’elaborazione di un progetto di trattato per la convocazione da parte dei governi nazionali di una assemblea costituente investita del mandato di redigere una costituzione federale dell’Europa. Il progetto, che prevedeva che la Carta dell’Europa Unita sarebbe stata l’opera diretta dei rappresentanti del popolo europeo e che la ratifica avrebbe avuto luogo tramite un referendum popolare, fu messo a punto da una commissione di giuristi presieduta dal francese Guy Heraud e approvato dal CPE di Lione dall’inizio del 1959. Dopodiché delegazioni federaliste presentarono la proposta costituente prima al Parlamento europeo presieduto da Robert Schuman e poi ai Parlamenti della Piccola Europa. Solo il presidente del Bundestag Eugen Gerstenmaier rifiutò di ricevere ufficialmente la delegazione guidata da Mouskhely. Successivamente furono attuate diverse iniziative dirette a ottenere prese di posizioni ufficiali da parte del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali (anche di paesi non appartenenti alle Comunità europee, come la Svizzera e l’Austria) a favore della costituente europea. La più incisiva fu quella del MFE, che presentò una petizione alla Camera dei deputati illustrata alla plenaria dal deputato democristiano Rosario Pintus, e ottenne anche la deposizione di una mozione redatta dall’on. Franco Ferrarotti (del Movimento di Comunità). Ma non si giunse al voto nonostante una forte pressione esercitata attraverso manifestazioni popolari, tra cui l’invio di migliaia di cartoline ai parlamentari. Ancor meno successo ebbero le iniziative nei confronti del Parlamento europeo e degli altri Parlamenti nazionali.
La campagna del CPE si esaurì nel 1962 e, nonostante gli sforzi incredibili compiuti dai militanti (in prevalenza italiani), non raggiunse un’efficacia mobilitativa sufficiente per modificare la situazione di potere in senso favorevole alle rivendicazioni federaliste. Tra i fattori che contribuirono a questo insuccesso ne vanno sottolineati in particolare due.
Da una parte, benché l’impotenza degli Stati nazionali e la loro subordinazione alle superpotenze fosse una realtà sempre più chiaramente palpabile, il nazionalismo aveva ancora una grande capacità di resistenza ai cambiamenti. Proprio in Francia, il paese decisivo per lo sviluppo dell’integrazione europea, esso, dopo aver portato all’affossamento della CED, ebbe nel 1958 un ulteriore soprassalto con l’avvento al potere di de Gaulle (v. de Gaulle, Charles). Il suo regime ebbe certamente il merito di gestire la decolonizzazione conservando il sistema democratico in Francia e di realizzare un risanamento economico-finanziario che permise a questo paese di partecipare attivamente allo sviluppo dell’integrazione economica. Ma nello stesso tempo pose il veto a qualsiasi rafforzamento in senso sopranazionale delle Istituzioni comunitarie e, quindi, all’emergere di contraddizioni che permettessero ai federalisti di porre all’ordine del giorno il problema della costituzione federale e del metodo costituente democratico.
Dall’altra parte, la sfiducia espressa dai federalisti spinelliani circa la possibilità di realizzare importanti progressi nell’unificazione economica europea sulla base delle istituzioni comunitarie si rivelò almeno in parte dottrinaria. La realizzazione dell’Unione doganale e della Politica agricola comune si avviò rapidamente ed ebbe un’influenza determinante sulla grande crescita economica dell’Europa comunitaria che cominciò a manifestarsi a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta (gli anni dell’esperienza del CPE) e che avrebbe presto portato questa regione a diventare la massima potenza commerciale e la seconda potenza industriale del mondo. Il che tolse ovviamente spazio a una azione fondata sull’ipotesi dell’incapacità da parte dell’Europa comunitaria di realizzare una forte ripresa economica.
La campagna del CPE (che proseguì in forma semplificata sotto la guida di Mario Albertini, il successore di Spinelli alla guida del MFE, fra il 1963 e il 1966 con il Censimento volontario del Popolo federale europeo e si esaurì dopo aver raggiunto circa 100.000 adesioni, la maggior parte delle quali in Italia) non portò alla costituente europea, ma ebbe il merito di mantenere viva, in una fase storica in cui i successi dell’integrazione economica tendevano a nascondere i limiti strutturali delle Comunità europee, l’alternativa democratica e federale a una costruzione europea, la quale era debole e precaria proprio perché escludeva la partecipazione popolare. Anche se solo una piccola parte dell’opinione pubblica fu in grado di conoscere il messaggio dei federalisti, questa campagna popolare costituì il primo esempio nella storia europea di una azione politica di base capace di svilupparsi in modo unitario al di là delle frontiere nazionali in diversi paesi d’Europa e dimostrò d’altra parte che se si richiedeva ai cittadini di esprimersi a favore dell’unità europea completa e della partecipazione popolare alla sua costruzione, la risposta era largamente positiva. A ben vedere il CPE fu un’anticipazione embrionale dell’elezione diretta del Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo). Questo fu un obiettivo per il cui raggiungimento i federalisti europei si impegnarono in modo unitario a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, individuando in esso la via maestra per giungere alla concreta attivazione del metodo costituente democratico.
Sergio Pistone (2017)