Consiglio Italiano del Movimento Europeo
Il Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME) venne fondato nel dicembre 1948, a seguito del Congresso dell’Aia svoltosi nel maggio di quell’anno, quale sezione nazionale del Movimento europeo (ME) e struttura di coordinamento dei gruppi parlamentari per l’Unione europea della Camera dei deputati e del senato e del Movimento federalista europeo (MFE).
L’iniziativa fu caldeggiata da Alcide De Gasperi, il quale, in una prima fase sostenitore di un modello genericamente unionista per il vecchio continente, diffidava del Federalismo radicale di larga parte della dirigenza del MFE, di prevalente estrazione laica, in particolare ex azionista, e aspirava a un organismo più moderato e filogovernativo in tema di europeismo, per non lasciarsi sopravanzare dagli spinelliani (v. Spinelli, Altiero), i quali, dal canto loro, erano piuttosto scettici rispetto al CIME, avendo conquistato nel contesto italiano una sostanziale egemonia.
Ciò ebbe forti conseguenze sull’operatività del Consiglio che, a parte qualche sporadica iniziativa (tra cui l’adesione alla campagna per il Patto di unione federale), fino alla metà degli anni Cinquanta non svolse alcun ruolo di rilievo, anche perché totalmente «ibernato» dall’azione politica e culturale del MFE.
Lo stesso De Gasperi, del resto, cominciò a prestare meno attenzione alle attività del CIME, anche perché progressivamente la sua politica europeistica assunse un più spiccato carattere federalista, convergendo in gran parte con la linea di Spinelli, come si evidenziò nella vicenda dell’articolo 38 del Trattato della Comunità europea di difesa (CED).
Il CIME, pertanto, scomparve ben presto dalla scena, lasciando un vuoto prontamente colmato dal MFE, che assunse di fatto la titolarità della rappresentanza dell’europeismo italiano nel consesso del Movimento europeo internazionale.
Fu però proprio a seguito della mancata adozione da parte dell’Assemblea nazionale francese del Trattato CED che Spinelli lanciò la strategia del cosiddetto «nuovo corso», fondata sulla radicale opposizione al funzionalismo e al gradualismo dei governi nazionali. Tale scelta non poteva che portare a una rottura con le forze politiche della coalizione centrista e con i sindacati ad esse legati. La Democrazia cristiana, il Partito repubblicano, il Partito liberale e il Partito socialdemocratico, assieme ai sindacati Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL) e Unione italiana del lavoro (UIL), alle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI) e alla Federazione italiana volontari della libertà (FIVL), decisero pertanto la rifondazione del CIME, nel luglio del 1956, al fine di dotarsi di uno strumento operativo di sostegno all’europeismo governativo.
Alle organizzazioni iniziali si aggiunsero, tra il 1957 e il 1962, l’Associazione italiana per il Consiglio dei Comuni d’Europa (AICCE), diretta da Umberto Serafini, il Movimento italiano dell’Azione europea federalista (AEF), nato dalla scissione dalla componente spinelliana, i Comitati universitari d’iniziativa europea (CUDIE) e la sezione italiana dell’Associazione europea degli insegnanti (AEDE).
In questi anni, che coincisero con la presidenza dell’esponente repubblicano Randolfo Pacciardi (1956-1961), fu aspra la polemica con il MFE in merito alle scelte funzionaliste operate dai governi nazionali che trovarono la loro concreta espressione nella firma dei Trattati di Roma del marzo 1957. Il CIME sostenne la logica moderata e gradualista dei governi e dei partiti nazionali, sottolineando l’importanza, ai fini dello stesso progetto federalista, delle istituzioni comunitarie le quali costituivano l’elemento di aggancio tra le aspirazioni ideali e ciò che la realtà politica del momento consentiva.
Dopo un biennio di forte entusiasmo e di importanti iniziative di informazione e sensibilizzazione, tra cui la fase finale della Campagna europea della gioventù (avviata nel 1951) e il Congresso d’Europa all’EUR del giugno 1957, il CIME, già a partire dal 1958, perse molto dello smalto iniziale. Pesarono i numerosi impegni di Pacciardi e le difficoltà riscontrate dal segretario generale, l’ex diplomatico Dino Secco Suardo, nell’instaurare proficui rapporti con le forze politiche aderenti e nel trovare fonti di finanziamento tali da garantire la continuità dell’azione politica e culturale del movimento.
Sopraggiunse nel frattempo il ciclone de Gaulle (v. Charles de Gaulle), che, dopo l’iniziale sostegno al disegno integrativo in campo economico avviato dai precedenti governi della Quarta repubblica, manifestò ben presto la propria ostilità a ogni sviluppo in senso sovranazionale, premendo, al contrario, per ricondurre tutta la costruzione comunitaria nell’alveo di una semplice cooperazione intergovernativa.
Pacciardi accolse alcune delle proposte francesi (in particolare il progetto di un segretariato permanente per il coordinamento delle politiche estere degli Stati), anche se – va precisato – interpretandole come soluzioni transitorie verso forme più strette di integrazione fino all’agognato obiettivo federale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il sostegno, seppur critico, del presidente alle tesi golliste generò dissensi all’interno del CIME. La maggioranza degli europeisti attivi nei partiti italiani vedevano come “fumo negli occhi” la prospettiva di una Europe des États di stampo confederale e inoltre alcuni di essi, catalogando la Quinta repubblica francese e il suo fondatore tra le tipiche manifestazioni di un regime sostanzialmente autoritario e personalistico, temevano la possibile esportazione del modello nella penisola. Ciò, assieme a motivi di politica interna, tra cui le sue dichiarazioni a favore di una riforma della Costituzione in senso presidenziale, e i contrasti con il gruppo dirigente del suo partito, in particolare Ugo La Malfa, in merito all’apertura a sinistra, portò alle dimissioni di Pacciardi.
Nel 1961 gli subentrò, dunque, il giurista socialdemocratico Paolo Rossi, il quale avrebbe mantenuto l’incarico per un triennio. Sotto la sua guida il CIME visse sostanzialmente una fase di transizione, con una importante novità: la nomina alla segreteria generale di Angelo Lotti. Egli, dimostrando grandi capacità organizzative, e, soprattutto, intessendo una fitta rete di rapporti politici, avviò a soluzione molti dei problemi che si erano manifestati alla fine degli anni Cinquanta. Le questioni finanziarie trovarono una prima risposta con l’ottenimento di contributi governativi che, per quanto limitati, consentirono di far fronte agli impegni. Grazie a ciò, nel biennio 1963-1964, vennero promossi una serie di convegni a livello nazionale e locale, sintomo di una ripresa dell’iniziativa politica del CIME.
Dopo il breve intermezzo di Rossi, fu tuttavia con l’elezione di Giuseppe Petrilli e l’arrivo del suo stretto collaboratore prima alla Comunità economica europea (CEE) e poi all’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), Carlo Ernesto Meriano, che si produsse una vera e propria cesura nella storia del Movimento europeo in Italia. Grazie all’influenza di questa personalità, alla guida dal 1960 della più grande holding pubblica italiana, il CIME conobbe un effettivo rilancio sia per le maggiori disponibilità finanziarie che per le evidenti aderenze del neopresidente nella classe politica.
In questa fase grande importanza rivestì la riapertura del dialogo con la Commissione italiana del MFE, operazione già avviata informalmente negli ultimi mesi della presidenza Rossi. La strategia del Congresso del popolo europeo prima e, successivamente, sotto la guida di Mario Albertini, il Censimento volontario del popolo federale europeo non erano stati premianti e avevano accentuato l’isolamento dai luoghi decisionali effettivi. I federalisti riconobbero, infine, i successi del Mercato comune e compresero che l’anomalia dell’Italia, ossia la non partecipazione del MFE al Consiglio nazionale del Movimento europeo, doveva essere superata, riaprendo un confronto costruttivo con le forze politiche, al di là delle divergenze ancora esistenti. Spinelli aveva fatto da “pioniere”, attraverso l’esperienza del Comitato italiano per la democrazia europea (CIDE), avviato anche con la collaborazione di uno degli esponenti di punta del CIME, Gian Piero Orsello.
Il reingresso dei federalisti nell’organizzazione italiana del Movimento europeo, avvenuto nell’autunno 1966, portò linfa vitale. Il rapporto stretto tra la dirigenza del CIME, l’AICCE di Serafini e la Commissione italiana del MFE fu assai proficuo perché consenti il dispiegarsi di una serie di iniziative in campo politico e culturale, favorendo prese di posizione coraggiose e una linea meno condizionata dall’atteggiamento del governo e delle forze politiche.
La prima manifestazione di questa rinnovata intesa, di questo nuovo asse Petrilli-Albertini, fu certamente la proposta di legge di iniziativa popolare per l’elezione a suffragio universale diretto della delegazione italiana al Parlamento europeo, che venne presentata al Senato nel giugno del 1969. Ammettendo l’errore, in cui frequentemente erano caduti i funzionalisti, in merito a un supposto automatismo nel passaggio dall’integrazione economica a quella politica, si volle concentrare l’attenzione sulla dimensione istituzionale, tema evidentemente caro ai federalisti, cercando di frenare l’involuzione intergovernativa della Comunità, aggirando i veti gollisti e ponendo la classe politica italiana di fronte alle proprie responsabilità.
I risultati furono però deludenti in quanto i partiti, dopo le iniziali dichiarazioni di appoggio, non sostennero di fatto il progetto, giudicandolo forse troppo ambizioso e anche perché l’Italia entrò, a partire dai primi anni Settanta, in una grave crisi economica e politica che distolse l’attenzione dai temi europei e pose talvolta dei dubbi sulla capacità stessa del paese di rimanere saldamente ancorato alla Comunità.
Malgrado queste difficoltà, un successo dei primi anni della presidenza Petrilli era stata l’adesione, sempre nell’autunno del 1966, del Partito socialista italiano (PSI), in quanto per la prima volta il CIME era uscito dallo steccato della vecchia coalizione centrista per estendere la propria influenza sull’area della sinistra riformista. Dai socialisti era stata ormai superata l’interpretazione delle istituzioni comunitarie come ausiliarie dei partiti moderati cristiano-democratici, liberali e conservatori.
L’allargamento al PSI consentì, inoltre, di intensificare il dialogo con la più importante centrale sindacale italiana, la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL), che, dato il rilevante peso della componente socialista, si era da tempo distaccata dalla pregiudiziale ostilità al processo di integrazione europea e avrebbe aderito al CIME nel 1976, con ben dieci anni di anticipo rispetto al PCI (Partito comunista italiano).
Personaggio chiave nel favorire un’apertura a sinistra del CIME fu certamente Mario Zagari, le cui riviste “Sinistra Europea” e “Iniziativa Europea” stimolarono un forte dibattito in casa socialista e l’avvio di un confronto anche con i comunisti a lungo ostili non solo al modello economico-sociale sotteso alle Comunità, ma anche contrari allo sviluppo di istituzioni sovranazionali, propugnando, all’opposto, una cooperazione paneuropea di chiara impronta intergovernativa.
Gli anni Settanta, dopo la completa attuazione dell’unione doganale, il ritiro di de Gaulle dalla scena politica e l’atteggiamento di apertura dimostrato dal nuovo presidente Georges Pompidou al Vertice dell’Aia del dicembre 1969, si aprirono all’insegna dell’ottimismo, presto smentito dalla crisi del sistema monetario internazionale.
Il CIME puntò, in questa fase, in particolare su tre obiettivi: l’avvio di un’unione monetaria (v. anche Unione economica e monetaria) fondata su un forte coordinamento delle politiche economico-finanziarie e retta da istituzioni comuni non guidate esclusivamente da criteri monetaristici, ma anche di crescita e di pieno impiego (e in tal senso non vennero risparmiate critiche al Piano Werner (v. Werner, Pierre), pur condividendone le finalità); il rilancio dell’integrazione politica, da attuarsi, in stretta sintonia con i federalisti del MFE, secondo il metodo del gradualismo costituzionale; l’allargamento al Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca, senza tuttavia cedimenti in merito al carattere sovranazionale della Comunità.
Nei primi anni Settanta il Consiglio italiano si oppose, invece, a ogni ipotesi di adesione della Spagna, del Portogallo e della Grecia, senza che prima fossero stati instaurati in quei paesi regimi politici democratico-liberali, compatibili con la storia e le prospettive di sviluppo della Comunità europea.
Su questi aspetti vi fu una sostanziale unità di vedute nell’ambito del CIME. Tutte le componenti condivisero, senza che si levassero apertamente voci dissonanti, la linea politica di Petrilli e il Consiglio italiano assunse sempre più, assieme all’Unione europea dei federalisti (UEF) e al Consiglio dei comuni d’Europa (CCE), il ruolo di avanguardia federalista nell’ambito del Movimento europeo internazionale, rispetto al quale la dirigenza del CIME propendeva per una organizzazione attiva, autorevole, autonoma dai governi, disponibile alla moderazione e al dialogo, ma ferma sui principi e sugli obiettivi di fondo.
Posizioni diverse, nell’ambito del CIME, emersero invece sul tema dei rapporti euroatlantici. Petrilli, a partire dalla storica dichiarazione Nixon del 15 agosto 1971, nei suoi interventi pubblici accentuò le sue critiche alle scelte dell’Amministrazione statunitense. A suo parere, con il progresso della costruzione europea gli interessi delle due sponde dell’Atlantico tendevano inevitabilmente a divergere, per cui agli europei, senza cadere in un rischioso “terzaforzismo”, non rimaneva che prendere atto della nuova situazione, tentando di instaurare con Washington un rapporto di cooperazione su basi paritarie, che permettesse, nel contempo, di salvaguardare la ritrovata autonomia dell’Europa in campo economico-politico e la sicurezza delle istituzioni democratiche del mondo occidentale.
L’idea di realizzare l’unità dell’Europa nel quadro di una sostanziale revisione dei tradizionali rapporti interatlantici non godeva, però, nel CIME dell’unanimità dei consensi. Secondo le componenti più filoamericane – i cui principali esponenti erano il democristiano Angelo Bernassola e il repubblicano Michele Cifarelli – aprire una serie di contenziosi con Washington e sganciare il processo di integrazione del vecchio continente da una stretta partnership euroatlantica delineava scenari assai pericolosi e difficilmente gestibili.
La decisione, assunta al Vertice di Parigi del 1974, di procedere con l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) portò al superamento dell’iniziale progetto di elezioni unilaterali, che aveva avuto il merito di tenere vivo il dibattito tra i partiti, le organizzazioni sindacali e le associazioni aderenti. Il Consiglio italiano si concentrò su un’azione di pressione sulla classe politica e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, nella convinzione che il coinvolgimento dei cittadini nella costruzione comunitaria, attraverso l’elezione diretta dell’Assemblea di Strasburgo, avrebbe fissato un elemento di irreversibilità, posto un forte baluardo alla deriva intergovernativa e innestato un elemento di dinamismo favorendo la democratizzazione delle istituzioni comuni e, in prospettiva, lo sviluppo in senso federale.
Petrilli e gli altri dirigenti del Consiglio italiano sostennero, inoltre, l’avvio del Sistema monetario europeo (SME), chiedendo tuttavia che esso si fondasse su basi più solide rispetto al Serpente monetario varato all’inizio del decennio.
Tutto ciò venne a intrecciarsi con le difficili vicende interne del paese, colpito da una grave crisi economica, dall’attacco terroristico alle istituzioni democratiche e fortemente diviso dinnanzi alla prospettiva del “compromesso storico”. Proprio a tal riguardo, il CIME e lo stesso presidente Petrilli furono assai attenti al dibattito interno al PCI e incoraggiarono la conversione del partito all’europeismo, fatto giudicato importante sia per il progresso della costruzione europea che per il consolidamento della democrazia italiana.
Il 24 gennaio 1981 Petrilli assunse la presidenza internazionale del Movimento europeo sulla base di un progetto politico riformatore, di chiara impronta federalista. La sua candidatura fu preceduta da una riunione di esponenti federalisti italiani, svoltasi a Milano, il 30 e 31 ottobre 1980, su iniziativa del segretario generale del MFE, Luigi Vittorio Majocchi, di Angelo Lotti e Umberto Serafini, nel corso della quale venne approvato il documento Proposte per una rifondazione morale e politica del Movimento europeo, in cui si affermava che il ME avrebbe ritrovato il proprio ruolo di avanguardia solo tornando alle grandi ispirazioni ideali che ne avevano accompagnato la nascita. L’idea forza doveva essere quella del «governo europeo», investendo il Parlamento di Strasburgo, eletto l’anno precedente a suffragio universale, di una funzione costituente, da raggiungere attraverso la creazione di un intergruppo in seno all’Assemblea che rivendicasse tale compito e l’approvazione di una legge elettorale comune ispirata a rigorosi criteri di proporzionalità.
Nei primi anni Ottanta, in effetti, il Movimento europeo appoggiò il cosiddetto Club del Coccodrillo, creato su iniziativa di Spinelli, e il progetto di Trattato di Unione europea approvato dal Parlamento di Strasburgo il 14 febbraio 1984.
Nel maggio del 1985 Petrilli lasciò la presidenza internazionale al liberale lussemburghese Gaston Thorn, ma riuscì nell’intento di nominare Luigi Vittorio Majocchi alla segreteria generale del ME e ciò costituì un importante successo in quanto per la prima volta un federalista dichiarato assumeva tale ruolo.
Il mese successivo Petrilli si dimise anche dalla presidenza del CIME e gli subentrò il socialdemocratico Mauro Ferri, il quale era stato uno dei protagonisti del progetto Spinelli, avendo presieduto, dal 1979 al 1984, la commissione istituzionale dell’Assemblea di Strasburgo, ed era stato poi componente del Comitato Dooge (v. Dooge, James). Ferri guidò il Movimento nella fase contraddistinta dal dibattito sul Libro bianco (v. Libri bianchi) di Jacques Delors sul completamento del mercato interno. Il CIME aveva tenuto, nel febbraio di quell’anno, un importante convegno a Milano, l’ultimo sotto la presidenza Petrilli, sul tema “L’Europa di fronte alle sfide dell’avvenire: o l’Unione europea o la fine storica dell’Europa”, con la partecipazione di personalità quali Altiero Spinelli, Robert Triffin, Wassily Leontief e Michel Albert. L’incontro era inteso esplicitamente ad esercitare una pressione sui capi di Stato e di governo, in vista del Consiglio europeo che si sarebbe svolto sempre nel capoluogo lombardo nel mese di giugno, affinché venisse convocata, se necessario anche a maggioranza, una conferenza intergovernativa con l’incarico di adottare rapidamente il trattato-costituzionale approvato dal Parlamento (v. Conferenze intergovernative).
Il CIME partecipò attivamente alla preparazione delle manifestazioni svoltesi nel corso del Vertice (v. Vertici), ma non nascose, sei mesi dopo, la propria delusione dinnanzi al testo dell’Atto unico europeo, giudicato insufficiente per le nuove sfide dell’Europa e per una democratizzazione delle istituzioni comunitarie, pur condividendo l’obiettivo del completamento del mercato interno.
Sul piano interno, dopo le dimissioni di Ferri, eletto giudice costituzionale, il Consiglio nazionale nominò alla presidenza, il 18 gennaio 1988, il socialista Mario Zagari, riconfermando alla segreteria generale Carlo Ernesto Meriano, il quale, subentrato l’anno prima a Lotti (scomparso nel giugno del 1987), avrebbe conservato l’incarico per oltre dieci anni.
Il CIME accolse con favore l’approvazione del Trattato di Maastricht, ma non mancò di sottolinearne l’insufficienza per il mantenimento del quadro intergovernativo nel campo della politica estera e di sicurezza comune e, ancor più, per il persistere del deficit democratico dell’Unione europea. Per di più il limite monetaristico del Trattato e la debolezza degli obiettivi politico-sociali sembravano impedire (come si evidenziò in occasione dei referendum danese e francese del 1992) un largo consenso nell’opinione pubblica, generando in molti paesi, tra cui anche l’Italia, reazioni isolazioniste e xenofobe associate, talvolta, a spinte separatiste.
Il CIME, inoltre, espresse la preoccupazione che le difficili condizioni della finanza pubblica italiana portassero ad un’esclusione del paese dal gruppo d’avanguardia che avrebbe dato vita alla moneta unica (v. Euro) (con una conseguente emarginazione dal sistema economico europeo) o, ancor più, che incoraggiassero gli ambienti contrari all’unificazione monetaria a bloccarne o quanto meno a rinviarne sine die l’entrata in vigore. Incoraggiamenti vennero pertanto rivolti alla classe politica affinché si mettesse mano a un difficile, ma non più rinviabile, risanamento finanziario e si avviasse una stagione di riforme.
Il CIME, negli anni Novanta, non fu esente dalle difficoltà prodotte dalla crisi del sistema dei partiti, ma riuscì a sormontarle con l’elezione alla presidenza di Giorgio Napolitano, europeista di lunga data e uno dei protagonisti del progressivo avvicinamento del PCI alle istituzioni comunitarie, e di Aldo De Matteo alla segreteria generale. Il CIME, proprio in quegli anni, conobbe anche degli indubbi successi con l’ingresso di quasi tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento e con l’elezione prima di Gian Piero Orsello (dal 1993 al 1995) e successivamente di Pier Virgilio Dastoli alla segreteria generale del Movimento europeo internazionale.
Paolo Caraffini (2008)