Convenzione europea dei diritti dell’uomo
La Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali venne firmata a Roma il 4 novembre 1950 ed entrò in vigore il 3 settembre 1953. Il documento fu elaborato nell’ambito del Consiglio d’Europa, organizzazione regionale creata a Londra il 5 maggio 1949. La Convenzione conta attualmente 46 Stati contraenti, i quali coincidono con i membri del Consiglio d’Europa, tanto che l’accettazione di tale strumento è considerata una condizione imprescindibile per l’ammissione all’organizzazione.
La Convenzione (v. anche Convenzioni) rappresenta un sistema di tutela dei diritti umani particolarmente avanzato a livello internazionale (v. anche Diritti dell’uomo), consentendo a un individuo di agire contro uno Stato che abbia violato i suoi diritti direttamente di fronte a un giudice internazionale. Essa si compone di due parti principali: la prima elenca i diritti protetti, mentre la seconda disciplina il sistema di controllo incentrato sulla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il disposto originario è stato integrato con l’adozione di 14 Protocolli aggiuntivi che estendono la sfera dei diritti protetti o migliorano i meccanismi di controllo. Rientrano nella prima categoria i protocolli che hanno introdotto nuovi diritti, come nel caso del Protocollo n. 1 con il diritto di proprietà (art. 1), o ampliato la tutela di diritti già previsti, come avvenuto con i Protocolli n. 6. e n. 13 che hanno sancito, rispettivamente, la limitazione e la definitiva abolizione della pena di morte in tutti gli Stati contraenti. Nessuno di questi strumenti vincola la totalità degli Stati, essendo sufficiente per la loro entrata in vigore un numero di ratifiche inferiore a quello delle parti contraenti. La partecipazione di tutti gli Stati è invece necessaria per i protocolli che incidono sulla procedura di controllo, tra i quali solo il Protocollo n. 11 risulta attualmente in vigore, avendo comportato il superamento di tutti quelli precedenti.
L’ambito applicativo della Convenzione è determinato dall’art. 1, che impone agli Stati il riconoscimento dei diritti a «[…] ogni persona soggetta alla loro giurisdizione […]». Dal punto di vista territoriale, la Convenzione si applica anche nel caso di violazioni compiute dallo Stato al di fuori del proprio territorio, in un’area sulla quale eserciti «un controllo effettivo» (caso Loizidou, 1996, ric. 15318/89, par. 52). L’applicazione della Convenzione era stata limitata, in un primo momento, alle sole azioni compiute all’interno dello «spazio giuridico degli Stati contraenti» (caso Bankovic, 2001, ric. 52207/99, par. 80). Successivamente la Corte ha superato tale approccio restrittivo, sancendo l’applicabilità della Convenzione anche per violazioni commesse al di fuori dei confini regionali europei (caso Öcalan, 2003, ric. 46221/99, par. 93 e ss.; caso Issa, 2004, ric. 318221/96, par. 74 e ss.).
I diritti tutelati sono elencati nel titolo I, la cui formulazione è rimasta invariata rispetto al 1950, e nei Protocolli nn. 1, 4, 6, 7, 12 e 13. Si tratta, in via principale, di diritti civili e politici, sebbene per alcuni di questi la Corte abbia riconosciuto una seppur limitata portata economica e sociale (caso Lopez Ostra, 1994, ric. 16798/90, par. 51)
Non tutti i diritti della Convenzione hanno carattere assoluto. Ogni Stato può, infatti, limitare il diritto al rispetto della vita privata e familiare (art. 8), la libertà di pensiero, coscienza e religione (art. 9), la libertà di espressione (art. 10) e la libertà di riunione e di associazione (art. 11), a condizione che le limitazioni siano previste dalla legge e necessarie per la tutela di rilevanti interessi pubblici o dei diritti di un altro individuo.
In caso di guerra o di altro pericolo che minacci la sopravvivenza della nazione, l’art. 15 prevede, inoltre, la possibilità di derogare temporaneamente a taluni obblighi derivanti dalla Convenzione. Anche in questo caso sono previste condizioni specifiche per l’esercizio di tale facoltà. Sul piano sostanziale, le misure derogatorie devono essere strettamente richieste dalla situazione, vale a dire assolutamente necessarie, e compatibili con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale. Lo Stato deve, inoltre, tenere informato il segretario generale del Consiglio d’Europa circa le misure adottate e la loro durata. Da ultimo, il comma 2 della disposizione sancisce l’inderogabilità del diritto alla vita (art. 2), del divieto di tortura (art. 3), del divieto di schiavitù e di servitù (art. 4) e del principio nulla poena sine lege (art. 7).
Nella valutazione delle condizioni per l’utilizzo delle clausole di limitazione e di deroga, così come, in generale, nell’individuazione delle misure da adottare per conformarsi alla Convenzione, la Corte riconosce agli Stati un certo margine di apprezzamento. Questa tecnica interpretativa costituisce un’esplicazione del principio di sussidiarietà, fondandosi sul presupposto che le autorità nazionali siano meglio posizionate per valutare la situazione rispetto al giudice internazionale (caso Lawless, 1961, ric. 332/57, par. 78-79)
Le riserve sono ammesse solo rispetto a «una disposizione particolare» (art. 57), dovendosi, dunque, ritenere invalide quelle a carattere generale. Contrariamente a quanto previsto dal diritto internazionale generale, lo Stato resta vincolato al rispetto degli obblighi derivanti dalla Convenzione anche nel caso di invalidità della riserva, la quale si considera non apposta (caso Belilos, 1988, ric. 10328/83, par. 60).
Gli obblighi derivanti dalla Convenzione hanno natura oggettiva. Il loro scopo, infatti, è la tutela dei diritti individuali contro le ingerenze del potere pubblico e non la creazione di diritti bilaterali a favore degli Stati (Commissione, Austria c. Italia, 1961, p. 141). La Convenzione supera, perciò, la logica della reciprocità tipica del diritto internazionale, rappresentando «uno strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo» (caso Loizidou, 1996, ric. 15318/89, par. 75)
Il sistema di controllo, disciplinato dal titolo II, ha carattere obbligatorio e interamente giurisdizionale. Il Protocollo n. 11, in vigore dal 1° novembre 1998, ha abrogato le clausole facoltative in materia di ricorso individuale e competenza della Corte, eliminato il “filtro” della Commissione per i ricorsi individuali ed abolito la competenza del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa a decidere sui ricorsi. Quest’organo, di natura politica, ha ancora il compito di vigilare sull’esecuzione delle sentenze della Corte.
La quasi totalità delle funzioni di controllo spetta, dunque, alla nuova Corte, la quale siede in modo permanente ed è composta da un numero di giudici pari a quello delle parti contraenti, eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa per un periodo di 6 anni. Per la trattazione delle cause, questa si suddivide in Comitati (3 giudici), Camere (7 giudici) e una Grande camera (17 giudici). Essa è giudice della propria competenza, la quale si estende a tutte le questioni di interpretazione ed applicazione della Convenzione che le vengano sottoposte in via contenziosa o consultiva.
La procedura di controllo sul comportamento degli Stati consta di due tipologie di ricorso. L’art. 33 prevede la possibilità per ogni parte contraente di deferire alla Corte una violazione della Convenzione compiuta da un altro Stato, anche in assenza di un collegamento tra la vittima e il ricorrente. Il meccanismo è stato, però, utilizzato in un numero limitato di casi, relativi a situazioni di tensione politica già conclamate. Viceversa, il ricorso individuale rappresenta il fulcro del sistema, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, consentendo a un individuo, a un’organizzazione non governativa o a un gruppo di privati di lamentare la violazione di un proprio diritto di fronte ad un’istanza internazionale avente carattere giurisdizionale.
I ricorsi sono presentati direttamente alla Corte, la quale ne valuta la ricevibilità ai sensi dell’art. 35. Il comma 1 stabilisce i criteri applicabili ad entrambe le tipologie di ricorso, vale a dire il previo esaurimento dei ricorsi interni e il termine di 6 mesi dalla data della decisione interna definitiva. Come precisato dalla Corte, l’obbligo dell’esaurimento sussiste solo se i ricorsi interni sono accessibili, efficaci e adeguati. I commi 2 e 3 prevedono, inoltre, l’irricevibilità dei ricorsi individuali anonimi, sostanzialmente identici ad uno già esaminato o pendenti di fronte ad altra istanza internazionale (ne bis in idem), incompatibili con la Convenzione, manifestamente infondati o abusivi.
Conclusosi positivamente l’esame della ricevibilità, il ricorso è valutato nel merito secondo una procedura che si articola in una fase scritta e una orale e che può concludersi con una composizione amichevole tra le parti, con la cancellazione dal ruolo o con una sentenza sul merito. La pronuncia della Corte ha carattere definitivo se le parti non chiedono il riesame alla Grande camera, possibilità che l’art. 43 prevede solo in circostanze eccezionali. Da ultimo, è possibile la revisione della sentenza se emergano fatti nuovi di importanza decisiva.
Lo Stato condannato ha l’obbligo di conformarsi alla sentenza, cessando la violazione e ripristinando lo status quo ante. Qualora non sia possibile il ripristino della situazione, la Corte potrà accordare alla parte lesa «un’equa soddisfazione» (art. 41). Quando la violazione non abbia mera portata individuale, ma discenda da deficienze strutturali del sistema, lo Stato è altresì tenuto all’adozione delle necessarie misure di carattere generale.
Il 13 maggio 2004 è stato adottato il Protocollo n. 14, con l’obiettivo di alleggerire il carico di lavoro accumulato dalla Corte nel corso degli anni. Le principali innovazioni riguardano l’introduzione della figura del giudice unico, competente sia per il rigetto dei ricorsi individuali manifestamente infondati sia per la trattazione dei cosiddetti ricorsi ripetitivi, e la possibilità di dichiarare irricevibili i casi nei quali il ricorrente non abbia subito un pregiudizio significativo.
Francesco Costamagna (2007)