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Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale

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I primordi della cooperazione di polizia

La cooperazione internazionale di polizia non è un fenomeno nuovo, né storicamente recente. Da secoli, fin dalla loro creazione all’epoca delle monarchie assolute, le polizie europee si scambiano informazioni e collaborano attivamente per fronteggiare minacce comuni e risolvere specifici casi. In età contemporanea, questa cooperazione – che in precedenza aveva avuto natura meramente occasionale, informale e solitamente segreta – ha seguito un percorso di progressiva istituzionalizzazione. Nel 1923, ben prima che avesse formalmente inizio il processo di integrazione europea, venne istituita a Vienna la Commissione internazionale di polizia criminale (CIPC), poi evolutasi in Organizzazione internazionale di polizia criminale (OIPC), meglio nota come Interpol. Nata come organizzazione essenzialmente europea, Interpol si è da allora trasformata in una rete di cooperazione di portata globale, con 181 paesi membri e sede in Francia a Lione. Nel frattempo, però, si sono sviluppate in Europa altre sedi e altre forme di cooperazione tra apparati investigativi nazionali, finché, nel corso dell’ultimo decennio, tale cooperazione si è affermata come una delle dimensioni centrali del processo di integrazione continentale.

Un forte impulso al rilancio della cooperazione europea di polizia venne, negli anni Settanta del secolo scorso, da un’ondata di attentati terroristici, di matrice interna e internazionale (soprattutto mediorientale), che investì contemporaneamente diversi paesi dell’Europa occidentale. In risposta, vennero attivati alcuni “gruppi di lavoro” per lo scambio di informazioni e il coordinamento operativo tra le sezioni specializzate delle polizie nazionali dei paesi coinvolti. Ben presto, questi organismi informali si moltiplicarono, dilatarono la loro sfera di competenza a nuove categorie di illeciti o, più genericamente, di “minacce” (compresa quella discutibilmente identificata nel fenomeno incipiente dell’immigrazione clandestina) e si allargarono a un numero crescente di paesi partecipanti.

Questa proliferazione delle sedi di cooperazione intergovernativa (la più importante delle quali fu a lungo il gruppo denominato “Trevi”, attivo a livello di ministri dell’Interno dal 1976) generò confusione e rischi di sovrapposizioni, che nel 1989 condussero alla creazione di un “gruppo dei coordinatori”, composto da alti funzionari dei ministeri dell’interno dei paesi partecipanti. Nel frattempo, lo scenario si era ulteriormente complicato con la firma dell’Accordo di Schengen (1985).

La concorrenza fra Schengen e “terzo pilastro”

L’Accordo di Schengen e la successiva, assai più matura e dettagliata Convenzione di applicazione (1990), oltre a fissare alcuni principi-chiave per l’evoluzione futura della politica europea in materia migratoria, contiene disposizioni di importanza fondamentale sul terreno della cooperazione di polizia, ma anche di quella giudiziaria.

Per quanto riguarda i rapporti tra forze dell’ordine nazionali, le innovazioni più importanti sono di due tipi: da un lato, vengono attenuate le barriere operative rappresentate dai confini internazionali, consentendo, a condizioni ben precise e specificate in intese tecniche bilaterali, inseguimenti e operazioni di sorveglianza “oltrefrontiera” di soggetti sospetti (artt. 40-41, Convenzione di applicazione Schengen); l’altra fondamentale innovazione consiste nella istituzione di una banca-dati internazionale – denominata Sistema di informazione Schengen (SIS) – che consente la condivisione e lo scambio di determinate categorie di informazioni tra polizie nazionali.

Il SIS ha cominciato a funzionare concretamente nel marzo 1995, tra i sette Stati che hanno dato applicazione per primi alla Convenzione di Schengen (i cinque fondatori, più il Portogallo e la Spagna). Oltre a informazioni di supporto all’attività di controllo migratorio (per esempio, elenchi di persone già espulse da uno Stato partecipante e come tali “non ammissibili” nello spazio comune Schengen), esso contiene dati relativi a persone ricercate ai fini dell’arresto e della successiva estradizione, a persone scomparse, a sospetti per cui viene richiesta una attività di sorveglianza da parte della polizia di un altro Stato, e così via; nel SIS vengono inoltre immagazzinati dati relativi a oggetti ricercati a fini di confisca, o per essere utilizzati come mezzi di prova.

Grazie a queste importanti innovazioni tecniche e operative, la cooperazione intergovernativa ristretta avviata a Schengen ha consentito notevoli passi avanti sul terreno della concreta collaborazione tra polizie nazionali, all’interno di uno spazio ormai privo di controlli sistematici alle frontiere interne. Il valore di questi progressi tecnici è però stato oscurato dalle carenze istituzionali del quadro in cui essi sono stati conseguiti e, in particolare, dall’assenza di trasparenza e di democraticità dei meccanismi decisionali vigenti in ambito Schengen.

Meritano infine di essere ricordate le novità introdotte dalla Convenzione di Schengen nel campo della cooperazione giudiziaria in materia penale. Basandosi sulla disciplina pattizia sviluppatasi nel quadro del Consiglio d’Europa e innovando in parte rispetto ad essa, la Convenzione di Schengen ha gettato le basi di una normativa europea su temi di rilevanza cruciale come il principio del ne bis in idem (divieto della doppia incriminazione) e l’estradizione.

A fianco del foro intergovernativo istituito a Schengen, il titolo VI del Trattato di Maastricht (dedicato alla «cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni» (v. Giustizia e affari interni) creò una sede istituzionale alternativa per l’adozione di misure in tema di «cooperazione giudiziaria in materia penale» e di «cooperazione di polizia ai fini della prevenzione e della lotta contro il terrorismo, il traffico illecito di droga e altre forme gravi di criminalità internazionale» (art. K.1, punti 7 e 9) (v. anche Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga). Il risultato più importante del policy-making all’interno del terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), nell’ambito che qui ci interessa, è senz’altro rappresentato dalla Convenzione che istituisce un Ufficio europeo di polizia (meglio noto come Europol), firmata il 26 luglio 1995 a Bruxelles ed entrata in vigore il 1° ottobre 1998. In realtà, le radici di questo organismo affondano in un’epoca precedente al Trattato di Maastricht, poiché l’embrione di Europol è da identificarsi nella Unità europea antidroga (European drugs unit, EDU), istituita mediante uno specifico accordo interministeriale il 2 giugno 1993. Questa struttura di coordinamento delle attività nazionali di prevenzione e contrasto del traffico internazionale di stupefacenti è stata incorporata nell’edificio istituzionale dell’Unione europea (ma come organizzazione autonoma dotata di personalità giuridica) mediante la Azione comune del 20 marzo 1995. Con questo stesso atto e con un analogo provvedimento del dicembre 1996, la competenza di Europol è stata estesa a nuove categorie di reati: dal traffico illecito di materiali radioattivi e nucleari alla tratta di esseri umani, dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina al traffico di veicoli rubati (ulteriori estensioni della sfera di competenza sono state decise, in seguito, a materie quali il terrorismo e la falsificazione dell’Euro). Europol, che ha ereditato la sede originaria dell’EDU, all’Aia, opera mediante uno staff proprio di investigatori e analisti, affiancato da ufficiali di collegamento distaccati dalle Unità nazionali Europol (UNE) costituite presso gli apparati di polizia di tutti i paesi membri. Uno strumento fondamentale per l’operatività di Europol è rappresentato dal suo Sistema di informazione, utilizzato sia a fini di schedatura (di persone condannate, sospettate, etc.) sia a fini di analisi di specifici fenomeni od organizzazioni criminali.

Dopo Amsterdam: il “terzo pilastro” restaurato

Il Trattato di Amsterdam ha ridisegnato in profondità l’assetto politico e istituzionale delle politiche europee in materia di giustizia e affari interni. Da un lato, ha disposto la comunitarizzazione progressiva di larga parte delle politiche dell’immigrazione e dell’asilo e della Cooperazione giudiziaria in materia civile, scorporandole dal “terzo pilastro”, che di conseguenza ha visto il suo ambito di competenza ridotto alla sola cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Contestualmente, il Trattato firmato nel 1997 ha inserito il «conservare e sviluppare l’Unione quale Spazio di libertà, sicurezza e giustizia» tra gli scopi fondamentali dell’Unione (art. 2, TUE).

Il “terzo pilastro” scaturito da questa ampia riforma appare sostanzialmente trasformato rispetto a quello istituito cinque anni prima a Maastricht. La Commissione europea, che in precedenza era sostanzialmente confinata a un ruolo di osservatore, recupera un diritto di iniziativa pieno, ma non esclusivo (in quanto condiviso con gli Stati membri). Anche lo status del Parlamento europeo viene rafforzato, con il riconoscimento di un diritto alla consultazione preventiva su ogni atto legislativo, al posto della mera informazione successiva prevista dal trattato del 1992. Il sistema delle fonti viene rivoluzionato, sostituendo il criticatissimo strumento dell’azione comune con quelli, nuovi, delle decisioni e delle decisioni-quadro (entrambe vincolanti per gli Stati membri; le seconde solo «quanto al risultato da ottenere», come le direttive comunitarie, e finalizzate esclusivamente al ravvicinamento delle legislazioni nazionali, per esempio in materia penale sostanziale) (v. anche Decisione). Infine, il ruolo della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) viene esteso, pur non raggiungendo l’ampiezza che lo caratterizza in ambito comunitario e lasciando margini di flessibilità agli Stati membri.

Questo nuovo quadro istituzionale, reso più articolato e dinamico, ha consentito un rilancio della cooperazione europea nel settore in esame. Questo salto di qualità è risultato evidente soprattutto sul terreno della cooperazione giudiziaria in materia penale, che negli anni precedenti aveva registrato i ritardi più clamorosi. Come per altri temi, anche in questo caso un impulso politico decisivo è pervenuto dal Consiglio europeo di Tampere (ottobre 1999), convocato in via straordinaria per occuparsi specificamente di giustizia e affari interni. In quella sede, attraverso una fondamentale opzione metodologica, carica però di implicazioni politiche, i capi di Stato e di governo hanno approvato il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie, affermando che esso «dovrebbe diventare il fondamento della cooperazione giudiziaria nell’Unione tanto in materia civile quanto in materia penale» (Conclusioni della Presidenza, punto 33). La scelta di privilegiare il mutuo riconoscimento rispetto all’Armonizzazione delle norme penali procedurali e sostanziali (che pure non è affatto esclusa e continua a essere perseguita settorialmente) ha segnato in profondità l’evoluzione successiva dello spazio giudiziario europeo, consentendone uno sviluppo più rapido, seppure a prezzo di una minore omogeneità interna.

Un’accelerazione ulteriore del processo di integrazione in questo ambito è stata prodotta dallo shock causato dagli attentati dell’11 settembre 2001 contro il Pentagono e il World trade center. La percezione di una minaccia sovranazionale di tale entità ha fatto emergere una volontà politica di inedita compattezza e ha determinato una drastica selezione delle priorità. Oltre a misure specifiche – come la decisione-quadro “sulla Lotta contro il terrorismo” approvata dal Consiglio nel giugno 2002 – l’emergenza ha favorito alcune fondamentali scelte normative e politiche di portata generale, abbattendo le resistenze preesistenti.

Gli sviluppi più importanti di questa dinamica fase sono due: nel febbraio 2002, con decisione unanime del Consiglio è stata istituita ufficialmente Eurojust. Questo ufficio giudiziario, basato all’Aia, sostituisce l’unità provvisoria denominata Pro-Eurojust, creata nel dicembre e attiva da marzo 2001. Si tratta di un organismo sovranazionale composto da un rappresentante per ogni Stato membro, che può essere – a seconda degli ordinamenti – un pubblico ministero, un giudice o un alto funzionario di polizia. La funzione di Eurojust è quella di coordinare e se necessario promuovere le investigazioni e l’esercizio dell’azione penale per numerose categorie di reati gravi, qualora due o più Stati membri ne siano investiti. Sebbene Eurojust, così concepito, sia qualcosa di meno del Pubblico ministero europeo, a favore della cui istituzione si era schierata, tra gli altri, la Commissione europea, questo nuovo organismo segna certamente uno storico salto di qualità nel campo della cooperazione giudiziaria.

Perlomeno altrettanto significativo è un secondo sviluppo, intervenuto nel giugno 2002: ci riferiamo alla decisione-quadro con cui il Consiglio dei ministri, riunito nella sua formazione Giustizia e affari interni, ha varato il Mandato d’arresto europeo. Questo è un atto giudiziario con cui un magistrato di uno Stato membro chiede direttamente alle autorità giudiziarie di un altro Stato membro (senza l’intermediazione di corpi appartenenti all’esecutivo, come nell’estradizione classica) l’arresto di un individuo determinato, al fine di sottoporlo a processo o di dare esecuzione a una condanna detentiva. L’autorità a cui giunge la richiesta deve decidere in merito ad essa entro un tempo massimo di 90 giorni. Questo nuovo strumento di cooperazione giudiziaria rappresenta un’applicazione di inedita portata del principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie: dandovi applicazione, infatti, uno Stato affida alle autorità di un altro Stato la delicatissima decisione in merito alla libertà personale, rinunciando così, nel caso di specie, a esercitare una dimensione fondamentale della sovranità. Queste rivoluzionarie implicazioni contribuiscono a spiegare le difficoltà relative alla entrata in vigore di questa decisione-quadro, che alla scadenza del 31 dicembre 2003 era stata recepita nell’ordinamento nazionale da soli otto Stati su quindici.

Oltre i pilastri? Cooperazione giudiziaria e di polizia nell’Europa allargata

Tuttora impegnato a “digerire” e a dare applicazione alle profonde novità degli ultimi anni, il “terzo pilastro” si trova oggi, alla vigilia di una nuova, radicale trasformazione. I fattori che la determinano sono due: l’allargamento e le riforme istituzionali previste dalla bozza di Costituzione europea su cui le Conferenze intergovernative (CIG) hanno lavorato invano nella seconda metà del 2003.

Fino al crollo dei regimi di socialismo reale, gli apparati giudiziari e di polizia dei paesi dell’Europa centrale e orientale che oggi entrano a far parte dell’Unione europea (UE) avevano caratteri profondamente diversi da quelli prevalenti nella metà occidentale del continente. In presenza di tassi di criminalità ufficialmente molto bassi, le forze di polizia e la magistratura penale svolgevano in larga misura compiti politici, di controllo capillare e repressione del dissenso, e di ogni attività giudicata sovversiva (dall’espatrio clandestino all’esercizio delle più elementari libertà civili). Con l’avvio del processo di transizione e la dissoluzione di tali strutture repressive, si è assistito a una crescita generalmente forte – pur con differenze notevoli da paese a paese – della criminalità comune e organizzata. Ciò ha reso manifesta l’urgente necessità di radicali riforme della polizia e della magistratura, che le dotassero delle competenze e delle risorse necessarie per contrastare efficacemente l’espansione dei fenomeni criminosi. Il sostegno tecnico e finanziario fornito dall’Unione europea nella fase di pre-adesione (v. anche Strategia di preadesione) ha avuto un’importanza decisiva nell’accompagnare questo vasto e complesso movimento di adeguamento strutturale.

Oggi, gli apparati giudiziari e di polizia dei nuovi paesi membri sono incorporati a pieno titolo nel sistema della cooperazione europea; ciononostante, l’estensione dello spazio europeo di sicurezza e giustizia si deve tuttora considerare un work in progress. Malgrado gli importanti risultati conseguiti, i livelli di professionalità e affidabilità di polizie e magistrature della maggior parte dei nuovi Stati membri risultano ancora inferiori alla media europea; questo divario indebolisce la rete di fiducia interpersonale e interistituzionale, che è condizione essenziale di praticabilità e di successo per ogni genere di cooperazione giudiziaria e di polizia.

Da un punto di vista istituzionale, il futuro di queste forme di cooperazione in seno all’Europa allargata appare gravato da alcuni pesanti interrogativi. La bozza di Costituzione approvata nell’estate 2003 dalla Convenzione europea, che ha costituito la base per i lavori delle Conferenze intergovernative riunitasi nella seconda metà dello stesso anno, prevede innovazioni importanti. Sebbene con gravi limitazioni temporali (le modifiche prenderebbero effetto solo dal 2009) e alcune restrizioni per materia, il progetto costituzionale opta a favore di un superamento della “anomalia istituzionale” del terzo pilastro, con la sua incorporazione nell’edificio comunitario. Questo comporterebbe il passaggio al metodo di voto a Maggioranza qualificata e l’attribuzione di poteri di Codecisione al Parlamento europeo. Il fallimento dei negoziati in seno alla CIG ha però congelato le aspettative di tali riforme che, sebbene forse troppo prudenti, appaiono indispensabili per rendere efficace, trasparente e democratica la cooperazione giudiziaria e di polizia in una Europa a 25 o più Stati.

Ferruccio Pastore (2004)

Bibliografia

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