Cooperazione intergovernativa
La cooperazione intergovernativa nella storia europea
In ambito europeo la cooperazione intergovernativa ha una tradizione anteriori alla nascita dell’Unione europea. Tra le forme di cooperazione intergovernativa estranee all’Unione vanno ricordate: l’Unione dell’Europa occidentale (UEO) istituita col Trattato di Bruxelles del 1948, poi modificato con gli Accordi di Parigi del 1954, operante nel settore della cooperazione militare; l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), istituita con il Trattato di Parigi del 16 aprile 1948 al fine di gestire in modo coordinato gli aiuti finanziari accordati dagli Stati Uniti all’Europa attraverso il cosiddetto Piano Marshall; col Trattato di Parigi del 14 dicembre 1960, l’OECE si è poi allargata anche a Stati non europei, ha modificato il proprio statuto ponendosi obiettivi di cooperazione economica globale e ha cambiato la propria denominazione in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE); il Consiglio d’Europa, il cui statuto è stato approvato a Londra il 5 maggio 1949, integrante il sistema di cooperazione intergovernativa tra gli Stati dell’area europea nei settori politico, culturale e sociale.
La cooperazione intergovernativa costituisce tradizionalmente il metodo in virtù del quale gli Stati, attraverso la consultazione diplomatica, realizzano forme di cooperazione dinamiche, contemperando in tal modo la necessità di tutelare la propria sovranità e l’esigenza di sviluppare iniziative per il perseguimento di obiettivi comuni in settori politicamente “sensibili”. Rispetto ad essi, gli Stati medesimi sono tendenzialmente riluttanti a limitare ex ante la propria sovranità e a sviluppare forme di integrazione consistenti. In linea di principio, il meccanismo decisionale si fonda – esclusivamente o comunque in modo prevalente – sulla regola del consenso unanime degli Stati partecipanti, con la conseguenza che ciascuno Stato, manifestando il proprio dissenso, esercita sostanzialmente un diritto di veto, mutuandosi così modelli classici di cooperazione tra Stati invalsi nel settore del diritto internazionale. Il processo decisionale è affidato ad organi di Stati, all’interno dei quali gli individui agiscono nell’interesse e secondo le istruzioni del proprio Stato di appartenenza. La cooperazione intergovernativa, inoltre, è tendenzialmente finalizzata all’adozione di atti non vincolanti (ad esempio, raccomandazioni, dichiarazioni) ed eventuali atti vincolanti possono essere adottati solo una volta ottenuto il consenso di tutti gli Stati partecipanti.
Il metodo comunitario come nuovo modello di cooperazione tra Stati europei
La regola dell’unanimità, comune a tutte le forme di cooperazione intergovernativa indicate, non ha tardato a manifestare la propria debolezza: la difficoltà di ottenere il consenso da parte di tutti gli Stati membri ostacolava l’esercizio di efficaci azioni comuni. Al fine di superare tali difficoltà e, quindi, in una logica di rottura con la tradizionale cooperazione intergovernativa, alcuni Stati europei hanno deciso di sperimentare una forma di cooperazione più intensa in determinati settori. Si tratta del cosiddetto metodo comunitario, rappresentativo di un progetto di cooperazione assai più ambizioso: con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), infatti, gli Stati hanno inteso creare un ordinamento giuridico autonomo, «di nuova generazione» (sentenza 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend en Loos, in “Raccolta della giurisprudenza”, 1963, p. 3), animato da istituzioni indipendenti, chiamate ad agire, nei limiti delle rispettive competenze, nel quadro di un sistema equilibrato per il raggiungimento di un obiettivo comune. A tal fine, attraverso la sottoscrizione e la ratifica dei Trattati istitutivi delle Comunità – CEE (v. Trattati di Roma), CECA (v. Trattato di Parigi), Euratom (v. Trattati di Roma) – (v. anche Trattati) gli Stati hanno creato una struttura istituzionale all’interno della quale sono largamente presenti organi di composti da individui, i quali possono esprimere le loro opinioni in modo indipendente rispetto agli Stati di provenienza (ossia la Commissione europea, istituzione rappresentativa dell’interesse generale, e il Parlamento europeo, istituzione rappresentativa dei popoli europei). Inoltre, decidendo ora per allora di limitare la propria sovranità, gli Stati si sono vincolati al rispetto del principio maggioritario, dando quindi vita ad un fenomeno che ammette l’adozione di atti vincolanti tutti gli Stati, assunti tuttavia senza il loro consenso unanime (v. Maggioranza qualificata). Questi atti vincolanti (talora dotati anche di effetto diretto) impongono così agli Stati obblighi specifici ed ulteriori rispetto a quelli assunti con la ratifica dei trattati istitutivi, e il loro rispetto è assicurato dall’esistenza di sistema di controllo giurisdizionale di legittimità appositamente istituito (v. Corte di Giustizia dell’Unione europea).
In sintesi, l’organo centrale per l’attuazione del metodo comunitario è la Commissione. Nel metodo comunitario “puro”, infatti, il monopolio dell’iniziativa legislativa è affidato alla Commissione; Consiglio dei ministri e Parlamento europeo adottano gli atti attraverso la Procedura di codecisione (vedi anche Codecisione), nell’ambito del quale il Consiglio vota a maggioranza qualificata (salvo che intenda modificare la proposta della Commissione, ipotesi in cui è invece necessario il consenso con un Voto all’unanimità); la Commissione vigila sull’esecuzione degli atti così adottati, con l’assistenza di Comitati e gruppi di lavoro composti da rappresentanti degli Stati membri e sotto il controllo di Consiglio e Parlamento europeo; il rispetto dello Stato di diritto, infine, è assicurato dalla Corte di giustizia.
Il riemergere della cooperazione intergovernativa nel sistema comunitario e quindi dell’Unione Europea
Grazie al metodo comunitario, gli Stati membri hanno nel tempo realizzato un elevato livello di integrazione reale, senza eguali nelle forme di cooperazione intergovernativa sperimentate (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Ciò nonostante, già a partire dalla metà degli anni Sessanta, si è avvertita l’esigenza di ricorrere a procedure di cooperazione intergovernativa, che sono “riemerse” così sia a livello istituzionale (con l’accentuazione del ruolo del Consiglio dei ministri e l’affermarsi di organi e istituti, originariamente non previsti dai Trattati, come il Comitato dei rappresentati permanenti (COREPER) e i cosiddetti Vertici, ossia le riunioni dei Capi di Stato o di governo, che progressivamente sono stati “istituzionalizzati” attraverso il riconoscimento del ruolo del Consiglio europeo), sia rispetto all’adozione di iniziative in alcuni settori di difficile comunitarizzazione. I primi esempi di tali forme di cooperazione sono il “Rapporto Davignon”, un accordo, stipulato a Lussemburgo il 27 ottobre 1970, con il quale i ministri degli Esteri degli Stati comunitari hanno deliberato di instaurare una “cooperazione politica europea” e l’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985 per l’abolizione graduale dei controlli alle frontiere, inizialmente siglato da nucleo ristretto di Stati membri (Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo e Paesi Bassi), al quale successivamente hanno aderito altri (l’Italia nel 1990, la Spagna e il Portogallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l’Austria nel 1995, Danimarca, Finlandia e Svezia nel 1996).
Con l’adozione dell’Atto unico europeo nel 1986, la cooperazione politica instaurata tra i ministri degli Esteri ha ricevuto una significativa spinta verso la comunitarizzazione: le modifiche attinenti alle politiche comunitarie e quelle attinenti alla cooperazione politica, che nel corso dei negoziati erano state considerate separatamente e avevano dato luogo a due testi diversi, sono state inserite all’interno di un unico testo, sebbene la materia della cooperazione politica sia rimasta al di fuori della struttura istituzionale comunitaria.
L’istituzionalizzazione della cooperazione intergovernativa nell’Unione europea
Col Trattato di Maastricht, gli Stati comunitari hanno inequivocabilmente confermato la volontà di proseguire il processo di integrazione facendo ricorso sia al metodo comunitario sia al metodo intergovernativo, tanto che oggi l’integrazione raggiunta tra gli Stati dell’Unione europea è il risultato della combinazione dei due metodi.
Sulla proposta formulata dal governo olandese di estendere l’applicazione del metodo comunitario, ancorché con alcuni limiti, anche alla Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e alla Giustizia e affari interni, è infine prevalsa la proposta lussemburghese di dividere in “pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea) le attività dell’Unione, mantenendo per tali politiche forme di cooperazione intergovernativa. L’articolo 1 del Trattato istitutivo dell’Unione europea (TUE) (v. Trattato di Maastricht) afferma infatti che le Comunità europee, all’interno delle quali l’integrazione avviene con il metodo comunitario (primo pilastro), costituiscono il fondamento dall’Unione europea, che tuttavia comprende altresì «politiche e forme di cooperazione diverse ed ulteriori», riconducibili più o meno intensamente alla cooperazione intergovernativa (secondo e terzo pilastro).
Garante della separazione dei tre pilastri è la Corte di giustizia, competente a stabilire se un atto sia da iscrivere a un pilastro intergovernativo ovvero al pilastro comunitario (v. Mengozzi, 2006, p. 435) ed eventualmente ad annullare atti rispetto ai quali la predetta separazione non sia stata rispettata (cfr. sentenze 12 maggio 1998, C-170/96, Commissione c. Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza, 1998, I-02763; 13 settembre 2005, C-176/03, Commissione c. Consiglio, ibid., 2005, I-07879).
La cooperazione intergovernativa è stata in tal modo “istituzionalizzata” (v. O’Keefe, 1997), con la previsione tuttavia di meccanismo (la cosiddetta norma passerella di cui all’art. 42) per la “comunitarizzazione” di alcuni settori di interesse comune, per i quali inizialmente siano previste forme di cooperazione intergovernativa.
La combinazione dei due metodi è stata definitivamente consacrata con il Trattato di Amsterdam. Esso, da un lato, ha esteso l’applicazione del metodo comunitario alla materia relativa a visti, asilo immigrazione e Cooperazione giudiziaria in materia civile, ancorché con alcune rilevanti modifiche e all’acquis di Schengen, incorporato all’interno del primo pilastro, con la possibilità per Regno Unito, Irlanda di esercitare il diritto di opting-out. Dall’altro, ha mantenuto (pur rafforzandole in talune parti) le forme di cooperazione intergovernativa previste per il secondo ed il terzo pilastro.
La flessibilità derivante dall’applicazione di diversi meccanismi di cooperazione è stata ulteriormente accentuata attraverso l’introduzione della cosiddetta cooperazione rafforzata. Si tratta, invero, di una forma di cooperazione “orizzontale”, in quanto presente in tutti e tre i pilastri dell’Unione europea (v. art. 11 TCE e artt. 17, 27, 40 e ss. TUE). Pur nel rispetto di precisi limiti e condizioni, essa consente che una parte soltanto degli Stati membri cooperi più strettamente in settori specifici, servendosi del quadro istituzionale dell’Unione.
In occasione del Consiglio europeo di Lisbona, limitatamente a determinati settori rientranti nell’ambito delle competenze statali (occupazione, protezione sociale, istruzione, gioventù, formazione), è stata introdotta una nuova forma di cooperazione intergovernativa, finalizzata ad assistere gli Stati membri nell’elaborazione progressiva delle loro politiche. Si tratta del cosiddetto metodo di coordinamento aperto, in virtù del quale, una volta individuati obiettivi comuni da raggiungere, ciascuno Stato è chiamato ad elaborare piani di riforma, che sono poi oggetto di valutazione da parte di altri Stati membri, sotto la sorveglianza della Commissione. Con tale metodo di coordinamento gli Stati hanno realizzato un proficuo scambio reciproco di informazioni, che ha consentito loro di procedere all’elaborazione congiunta di alcune politiche, nel rispetto del principio di sussidiarietà; donde prospettive di un suo rafforzamento (cfr. la Comunicazione della Commissione al Consiglio al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni, “Lavorare insieme, lavorare meglio – Un nuovo quadro per il coordinamento aperto delle politiche di protezione sociale e di integrazione nell’Unione europea”, COM (2005) 706).
Verso un superamento della contrapposizione tra metodo comunitario e cooperazione intergovernativa
Il processo di integrazione europeo evidenzia la necessità di ripensare il rapporto tra metodo comunitario ed intergovernativo, non più in una logica di contrapposizione, quanto piuttosto di “coordinamento”. Non è solo il primo metodo, infatti, ad aver funzionato, visto che è grazie anche alla cooperazione intergovernativa che l’integrazione europea ha effettuato significativi passi avanti. Essi, ancorché teoricamente possibili con una revisione del Trattato CE, sarebbero tuttavia risultati irrealizzabili per iniziativa delle sole istituzioni comunitarie senza la concorde volontà dei governi degli Stati membri (v. Baldi, 1980, p. 137).
Inevitabilmente, il riemergere della cooperazione intergovernativa e la sua tendenza a orientare in senso sovranazionale il processo di integrazione possono indebolire il metodo comunitario, rendendo l’Unione più vicina ai “governi” degli Stati membri che ai cittadini europei (v. O’Keefe, 1997).
Sotto questo profilo, il Trattato che adotta una Costituzione europea ha individuato nuovi equilibri istituzionali di coordinamento tra i due metodi (v. Rossi, 1997, p. 141). Ivi, infatti, da un lato si afferma che «l’Unione esercita sul modello comunitario le competenze che gli Stati le trasferiscono» (art. I.1) e si prevede la soppressione dei tre pilastri, con conseguente “comunitarizzazione” della Politica estera e di sicurezza comune e della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Dall’altro, tuttavia, si continua a riservare ampi spazi al metodo intergovernativo, nella consapevolezza che tale forma di cooperazione è un elemento indispensabile per il futuro dell’Unione.
Il fallimento del processo di ratifica del Trattato non sembra tuttavia mettere in dubbio che l’individuazione di una “formula” equilibrata nel rapporto tra metodo comunitario e cooperazione intergovernativa possa costituire, anche in futuro, un elemento centrale dell’integrazione europea.
Francesco Munari, Laura Carpaneto (2007)