Corte di giustizia dell’Unione europea
Natura e funzione
La Corte di giustizia dell’Unione europea è una delle Istituzioni comunitarie a cui è affidata la funzione giurisdizionale. Costituita dal Trattato di Parigi del 1951 istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Corte ha iniziato la propria attività a Lussemburgo il 4 dicembre 1952, limitatamente alle materie di competenza di questa Comunità. In seguito, contestualmente alla firma dei Trattati di Roma del 1957, istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), la convenzione (v. anche Convenzioni) relativa a talune istituzioni comuni alle tre Comunità ha stabilito l’unificazione delle Corti di giustizia CECA, CEE ed Euratom in un solo organo, anche se distinto sotto il profilo delle Competenze attribuite dai rispettivi Trattati istitutivi.
L’ordinamento giuridico istituito dai Trattati di Roma, come successivamente modificato, in particolare, dall’Atto unico europeo del 1986, dal Trattato di Maastricht del 1992, dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dal Trattato di Nizza del 2001, possiede un sistema giudiziario straordinariamente evoluto rispetto ai paradigmi del diritto internazionale e per molti versi più simile ai modelli del diritto interno.
Invero, la giurisdizione comunitaria si distingue per diversi aspetti da quella affidata a giurisdizioni internazionali istituzionalizzate. Anzitutto, essa, di regola, è obbligatoria; in secondo luogo, salvo che per determinate categorie di controversie, è articolata su un doppio grado (e, rispetto al contenzioso affidato ai tribunali specializzati, addirittura si prevede, oltre al doppio grado, anche una possibilità di riesame); in terzo luogo, legittimati ad agire non sono soltanto gli Stati membri, ma anche le istituzioni e gli organi comunitari, nonché, pur con talune restrizioni, le persone fisiche e quelle giuridiche; in quarto luogo, per talune categorie di controversie, la giurisdizione è anche esclusiva; in quinto luogo, le sentenze, in determinati casi, possono avere forza esecutiva.
La funzione giurisdizionale della Corte consiste, secondo l’art. 220 del Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE), «nell’assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del Trattato», inteso quest’ultimo come l’insieme del Diritto comunitario, originario (Trattati istitutivi e atti di rango equiparato (v. anche Gerarchia degli atti comunitari) o derivato (atti normativi adottati dalle istituzioni), scritto e non scritto (principi generali di diritto desunti dai sistemi giuridici degli Stati membri o derivati dalla natura stessa del diritto comunitario).
Tuttavia, è bene precisare che la versione originaria del Trattato di Maastricht del 1992 aveva notevolmente limitato il controllo giurisdizionale sul c.d. “terzo pilastro” relativo alla Giustizia e affari interni, mentre lo aveva praticamente escluso per il c.d. “secondo pilastro”, concernente la Politica estera e di sicurezza comune. Le modifiche apportate dai detti Trattati di Amsterdam e di Nizza, nonché il significativo contributo della giurisprudenza (v. anche Corti costituzionali e giurisprudenza), hanno però migliorato il controllo giurisdizionale sul terzo pilastro, mentre la natura delle attività svolte nell’ambito del secondo pilastro continua a rendere marginale l’intervento del giudice dell’Unione (v. anche Pilastri dell’Unione europea).
Struttura e composizione
L’articolazione della giurisdizione, che dal 1952 al 1989 era imperniata unicamente sulla Corte di giustizia, attualmente è ripartita su tre organi giurisdizionali: la Corte di giustizia, il Tribunale di primo grado (istituito nel 1988 ed operativo dal 1989), e il Tribunale della funzione pubblica (istituito nel 2004 e operativo dal 2005). Tutti hanno sede a Lussemburgo. Altre camere giurisdizionali, cioè tribunali specializzati, potranno essere istituiti dal Consiglio dei ministri, che delibera su proposta della Commissione europea o della Corte di giustizia (art. 225/A del Trattato CE). Inoltre, è previsto che la competenza di tali tribunali riguardi il contenzioso in materia di proprietà intellettuale (marchi, disegni, modelli, brevetti) e la Cooperazione giudiziaria in materia civile ex art. 65 del Trattato CE.
La Corte di giustizia è composta da un giudice per Stato membro e da 8 avvocati generali, il cui numero può essere aumentato dal Consiglio, su richiesta della Corte. Il Tribunale di primo grado è composto da almeno un giudice per Stato membro (con la possibilità di affidare a uno dei membri le funzioni di avvocato generale). Il Tribunale della funzione pubblica ha 7 giudici, che possono essere aumentati dal Consiglio a maggioranza qualificata su richiesta della Corte. Nella nomina di questi giudici, il Consiglio assicura una composizione equilibrata secondo una base geografica quanto più ampia possibile tra i cittadini degli Stati membri e per quanto concerne gli ordinamenti giuridici rappresentati (nella sua prima composizione, tuttavia, non figura un giudice italiano).
Il mandato dei membri di tutti gli organi giurisdizionali comunitari è fissato in sei anni, rinnovabili. Ogni tre anni si procede a un rinnovo parziale. I giudici e gli avvocati generali della Corte e i giudici del Tribunale di primo grado sono nominati, di comune di accordo, da una conferenza internazionale degli Stati membri; i giudici del Tribunale della funzione pubblica sono nominati dal Consiglio, previa selezione affidata a un Comitato formato da ex membri della Corte e del Tribunale, da membri delle giurisdizioni nazionali o da giuristi di notoria competenza. La scelta è fatta, con qualche differenza terminologica a seconda che si tratti dell’uno o dell’altro organo giurisdizionale, fra persone di riconosciuta indipendenza, che siano adatte a svolgere elevate funzioni giurisdizionali negli Stati membri o che siano giureconsulti di notoria competenza. Nella pratica si tratta di professori universitari, magistrati, avvocati, alti funzionari nazionali, internazionali o comunitari.
A garanzia dell’indipendenza dei membri sono previste l’incompatibilità con l’esercizio di funzioni politiche o amministrative e con attività professionali, l’immunità assoluta dalla giurisdizione in tutti gli Stati membri che, durante il mandato, copre anche atti o fatti extrafunzionali (art. 3 dello Statuto della Corte), stipendi e pensioni esenti da imposte nazionali (v. Privilegi e immunità).
L’avvocato generale, dopo le modifiche apportate dal Trattato di Nizza, ha il compito di presentare in completa indipendenza conclusioni scritte e motivate soltanto rispetto alle cause che, secondo l’art. 20, ultimo comma, dello Statuto della Corte, presentino nuovi punti di diritto. Il ruolo dell’avvocato generale, il cui archetipo è il commissaire du gouvernement davanti al Consiglio di Stato francese, è quello di amicus curiae (e le sue funzioni non sono dissimili da quelle del procuratore generale della Cassazione nelle cause civili).
Circa le formazioni giudicanti, la Corte delibera in seduta plenaria, dopo le modifiche del Trattato di Nizza, solo per determinate categorie di cause, mentre la massima parte delle cause sono decise in grande sezione (13 giudici), o in sezioni di 5 o 3 giudici, a seconda della difficoltà della causa e della novità delle questioni trattate. La plenaria è riservata alle cause promosse contro il Mediatore europeo per sopravvenuta mancanza delle condizioni richieste dalla sua funzione o per colpa grave (art. 195, par. 2, Trattato CE), contro i membri della Commissione per violazione degli obblighi connessi all’esercizio delle loro funzioni (art. 213, par. 2, Trattato CE) e per cessazione delle condizioni necessarie o per colpa grave (art. 216 Trattato CE), contro i membri della Corte dei conti per mancanza dei requisiti o violazione degli obblighi connessi all’esercizio delle loro funzioni (art. 247, par. 7, Trattato CE), nonché alle cause di importanza eccezionale per le questioni giuridiche sollevate.
Il Tribunale di primo grado decide normalmente in sezioni, composte di 5 o 3 giudici; eccezionalmente decide in plenaria qualora la difficoltà in diritto o l’importanza della causa o circostanze particolari lo richiedano; dal 1999 è previsto che esso decida anche con un giudice unico, limitatamente a talune categorie di ricorsi che sollevano questioni già chiarite dalla giurisprudenza consolidata o sono parte di una serie di cause con lo stesso oggetto e una sia stata già decisa con sentenza passata in giudicato, nonché nei casi in cui il Tribunale sia stato adito sulla base di una clausola compromissoria contenuta in un contratto concluso dalla Comunità.
Il Tribunale della funzione pubblica decide in sezioni di 3 giudici; tuttavia, in determinati casi disciplinati dal regolamento di procedura può riunirsi in seduta plenaria, in sezioni di 5 giudici o statuire nella persona di giudice unico.
Ripartizione delle competenze tra gli organi giurisdizionali
Per quanto riguarda la distribuzione delle competenze tra i tre organi giurisdizionali, il Tribunale della funzione pubblica è competente a conoscere delle controversie tra le Comunità e i suoi agenti, ai sensi dell’art. 236 Trattato CE, comprese le controversie tra gli organi o gli organismi e il loro personale per le quali l’atto istitutivo abbia attribuito la competenza alla Corte di giustizia (art. 1 dell’allegato I allo Statuto della Corte aggiunto dalla decisione del Consiglio 2004/752/CE, Euratom, del 2 novembre 2004).
Il Tribunale di primo grado ha competenza: a) per tutti i ricorsi diretti proposti da privati; b) per i ricorsi proposti dagli Stati o dalle istituzioni, salvo quelli devoluti alla cognizione esclusiva della Corte di giustizia (art. 51 dello Statuto della Corte); c) per le questioni pregiudiziali proposte dai giudici nazionali in talune materie specifiche di natura tecnica previste dallo Statuto, tuttavia con la possibilità, per un verso, che il Tribunale decida di rinviare la decisione alla Corte, qualora ravvisi la necessità di una decisione di principio, per evitare di compromettere l’unità e/o la coerenza del diritto comunitario e, per altro verso, che la sentenza del Tribunale sia sottoposta eccezionalmente al riesame della Corte di giustizia qualora sussistano gravi rischi per l’unità e/o la coerenza del diritto comunitario (se la competenza del Tribunale non è stata ancora attivata); d) sull’impugnazione delle decisioni del Tribunale della funzione pubblica, ma solo per motivi di diritto.
La Corte di giustizia resta esclusivamente competente: a) per i ricorsi per inadempimento degli Stati membri (artt. 226-228 Trattato CE); b) per i ricorsi, in materia di annullamento o per carenza, proposti dagli Stati membri contro un atto o una astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo o del Consiglio e delle due istituzioni quando agiscono congiuntamente (salvo che si tratti delle decisioni con cui il Consiglio stabilisce che un aiuto di Stato (v. Aiuti di Stato) è compatibile con il Mercato unico europeo ai sensi dell’art. 88 del Trattato CE, ovvero di atti del Consiglio in forza di un suo regolamento concernente misure di Politica commerciale comune, ai sensi dell’art. 133 del Trattato CE, ovvero di atti del Consiglio con cui quest’ultimo esercita competenze di esecuzione ai sensi dell’art. 202 del Trattato CE, o contro un atto o un’astensione dal pronunciarsi della Commissione in materia di partecipazione ad una cooperazione rafforzata ai sensi dell’art. 11A del Trattato CE, nonché sui ricorsi proposti, in materia di annullamento o di carenza, sia da una istituzione o dalla Banca centrale europea contro un atto o una astensione dal pronunciarsi del Parlamento europeo, del Consiglio o di queste due istituzioni quando decidono congiuntamente, o della Commissione, sia da un’istituzione contro un atto o un’astensione dal pronunziarsi della Banca centrale europea; c) per le questioni pregiudiziali, di cui agli artt. 234 e 68 Trattato CE, nonché art. 35 Trattato istitutivo dell’Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht), salvo devoluzione alla cognizione del Tribunale di alcune di esse; d) sull’impugnazione delle decisioni del Tribunale di primo grado, solo per motivi di diritto (eccezionalmente, ove sussistano gravi rischi che compromettano l’unità o la coerenza del diritto comunitario, è possibile il riesame delle decisioni relative ad impugnazioni di sentenze del Tribunale della funzione pubblica); e) sui ricorsi proposti dalla Commissione europea o dagli Stati membri sulla legittimità delle decisioni-quadro e delle decisioni nel settore della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (art. 35 Trattato UE); f) sulle controversie insorte tra gli Stati membri relativamente all’interpretazione e all’applicazione degli atti adottati nell’ambito della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale (art. 35 Trattato UE); g) a esaminare eventuali violazioni di carattere procedurale nell’iter deliberativo delle sanzioni a carico dello Stato membro che non rispetti i principi fondamentali su cui è fondata l’Unione europea (art. 46 Trattato UE); h) con riguardo alla funzione consultiva (art. 300, par. 6, del trattato UE); infine, sulle controversie previste dagli artt.. 237-239 del Trattato CE.
Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti comunitari
Il controllo giurisdizionale diretto sulla legittimità degli atti comunitari è attribuito alla competenza esclusiva del giudice comunitario e si realizza mediante l’azione di annullamento, l’azione in carenza, l’eccezione incidentale di illegittimità, l’azione di danni da responsabilità extracontrattuale della Comunità, e il contenzioso del personale.
L’azione di annullamento, disciplinata dall’art. 230 del Trattato CE, consiste nell’impugnazione, mediante ricorso, di un atto adottato dalle istituzioni comunitarie che si ritiene viziato e pregiudizievole. Sono impugnabili gli atti adottati congiuntamente dal Parlamento europeo e dal Consiglio, gli atti vincolanti del Consiglio, della Commissione e dalla Banca centrale europea, nonché gli atti del Parlamento europeo produttivi di effetti giuridici nei confronti dei terzi. Secondo la giurisprudenza consolidata l’azione di annullamento è esperibile nei confronti di qualsiasi provvedimento adottato dalle istituzioni (indipendentemente dalla sua natura e dalla sua forma) che miri a produrre effetti giuridici (sentenza 6 aprile 2000, causa C-443/97, Spagna/Commissione).
Legittimati a impugnare gli atti comunitari, senza restrizione alcuna, cioè senza dover dimostrare alcun interesse, sono gli Stati membri, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione (art. 230, secondo comma, del Trattato CE). Invece, la Corte dei conti e la Banca centrale europea (nonché, pur nel silenzio del Trattato, si deve ritenere anche altri organi, come ad esempio, il Comitato delle regioni, il Comitato economico e sociale o la Banca europea per gli investimenti) sono legittimati ad agire soltanto per salvaguardare le proprie prerogative (art. 230, terzo comma, del Trattato CE).
Infine, le persone fisiche e le persone giuridiche (e a queste ultime sono assimilati gli enti territoriali, come le Regioni italiane, nonché gli Stati terzi) possono impugnare le decisioni a loro specificamente indirizzate, nonché gli atti rivolti ad altre persone anche aventi portata generale, come i regolamenti e le direttive (v. Direttiva), purché tali atti le riguardino direttamente (cioè, quando non è necessaria alcuna misura di esecuzione dell’atto, né nazionale, né comunitaria) ed individualmente (cioè, secondo il classico principio affermato fin dalla sentenza 15 luglio 1963, causa 25/62, Plaumann/Commissione, quando l’atto tocchi il ricorrente a causa di determinate qualità personali, ovvero di particolari circostanze atte a distinguerlo dalla generalità, e quindi lo identifichi alla stregua dei destinatari.
Il termine per l’impugnazione è di due mesi, aumentato del termine per la distanza (10 giorni per l’Italia): esso decorre dalla pubblicazione dell’atto (dal quindicesimo giorno successivo a quello della pubblicazione sulla “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea”, facendo fede la data in cui la “Gazzetta ufficiale” è stata diffusa e non quello che compare sul fascicolo, sentenza 25 gennaio 1979, causa 98/78, Racke II), ovvero dalla sua notificazione al ricorrente, ovvero dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto effettiva conoscenza.
I vizi che possono essere fatti valere sono l’incompetenza, la violazione di forme sostanziali, la violazione del Trattato o di qualsiasi regola relativa alla sua applicazione (comprese le norme di diritto internazionale in quanto vincolanti la Comunità) e lo sviamento di potere.
La sentenza di annullamento, che è efficace dal giorno in cui viene pronunciata, produce, di regola, effetti erga omnes ed ex tunc e ha valore di cosa giudicata in senso sia formale che sostanziale. Tuttavia, in casi particolari e per esigenze di certezza del diritto o di necessità di salvaguardare i diritti acquisiti da terzi, il giudice comunitario può stabilire gli effetti dell’atto annullato che devono essere considerati come definitivi, con il che l’annullamento viene ad avere effetti ex nunc, o, addirittura, l’atto illegittimo viene mantenuto in vigore fino alla sua sostituzione da parte dell’autorità competente (sentenza 7 luglio 1992, causa C-295/90, Parlamento/Consiglio). L’istituzione il cui atto sia stato annullato è tenuta ad adottare le misure necessarie a dare esecuzione alla sentenza (art. 233 Trattato CE).
Infine, vale la pena di ricordare che, ai sensi dell’art. 237, lett. b) e c) del Trattato CE, un’analoga azione di annullamento può essere adottata nei confronti delle decisioni assunte dal consiglio dei governatori e dal consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti. Nel primo caso, l’azione può essere proposta da qualsiasi Stato membro, dalla Commissione o dal consiglio di amministrazione della Banca. Nel secondo caso, gli attori sono gli Stati membri e la Commissione, esclusivamente per eventuali inadempimenti concernenti l’art. 21, commi 2, 5, 6, 7 dello statuto della Banca.
L’azione per carenza, disciplinata dall’art. 232 Trattato CE, mira a porre rimedio alla illegittima inattività di una istituzione comunitaria (Parlamento europeo, Consiglio, Commissione), nonché della Banca centrale europea, quando essi, in violazione del trattato, si astengano dal pronunciarsi omettendo, pertanto, di adottare atti dovuti.
L’introduzione del ricorso è subordinata a una fase amministrativa preliminare. L’istituzione di cui si lamenta la carenza deve essere formalmente diffidata ad agire entro un termine ragionevole, che decorre dal momento in cui è manifesto che essa non ha intenzione di farlo. Dalla messa in mora l’istituzione ha due mesi per prendere posizione; trascorsi invano due mesi o quando l’istituzione rifiuti espressamente di prendere posizione o adotti un atto diverso da quello sollecitato, è possibile ricorrere entro un termine di due mesi.
Legittimati ad agire sono gli Stati membri e le istituzioni in relazione a qualunque ipotesi di astensione che costituisca violazione del Trattato. Invece, la Banca centrale europea è legittimata ad agire solo nelle materie di sua competenza, mentre il singolo può agire in carenza soltanto qualora l’istituzione abbia omesso di emanare nei suoi confronti un atto vincolante. Se il giudice comunitario dichiara che l’astensione è contraria al Trattato l’istituzione ha l’obbligo di adottare i provvedimenti necessari per l’esecuzione della sentenza (art. 233 Trattato CE).
L’eccezione di illegittimità, disciplinata dall’art. 241 Trattato CE, può essere sollevata nel corso di una procedura pendente per altri motivi di fronte al giudice comunitario per far dichiarare l’inapplicabilità di qualunque atto di portata generale di cui si tratta (e non solo dei regolamenti menzionati nell’art. 241), facendo valere, anche dopo la scadenza del termine d’impugnazione per il ricorso d’annullamento, gli stessi motivi di invalidità dell’atto di cui all’art. 230 Trattato CE.
In tal modo, il singolo che, di regola, non può impugnare atti di portata generale, può esercitare una tutela indiretta nei loro confronti. Ma l’eccezione è aperta anche agli Stati membri e alle istituzioni, dato che l’art. 241 fa esplicito riferimento a “ciascuna parte”. L’effetto dell’accoglimento dell’eccezione è l’inapplicabilità dell’atto inter partes. L’atto resta in vigore, ma l’istituzione che l’aveva adottato ha chiaramente interesse alla sua modificazione se non alla sua abrogazione.
L’azione per responsabilità extracontrattuale è disciplinata dagli artt. 235 e 288 Trattato CE. L’art. 235 dispone che il giudice comunitario è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni causati dalle istituzioni o dagli agenti della Comunità nell’esercizio delle loro funzioni. La Comunità è tenuta a risarcire il danno, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri (art. 288, secondo comma).
Circa le condizioni di ricevibilità, la competenza del giudice comunitario sussiste (e si tratta di competenza esclusiva) quando il danno sia stato cagionato da un’istituzione – nozione intesa dalla Corte in senso non tecnico, il che ha permesso di ricondurvi anche la Banca europea per gli investimenti (sentenza 2 dicembre 1999, SGGEM e Etroy/BEI) e il Mediatore (sentenza 23 marzo 2004, causa C-234/02P, Mediatore/Lamberts) – o da suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni.
Diversamente, la competenza appartiene esclusivamente al giudice nazionale quando il danno sia stato cagionato da organi nazionali, anche se esso sia conseguenza di una normativa comunitaria. Secondo la giurisprudenza della Corte, la competenza del giudice nazionale sussiste anche quando la normativa comunitaria vincola l’amministrazione nazionale, nel senso, ad esempio, che gli organi interni siano tenuti a conformarsi a una decisione della Commissione; la Corte, tuttavia, si considera competente quando è solo essa a poter agire utilmente, per l’impossibilità di un’azione nazionale effettiva (c.d. principio della competenza efficiente: sentenza 26 febbraio 1986, causa 175/84, Krohn).
L’azione di danni rappresenta un rimedio autonomo distinto dagli altri mezzi (ad esempio, l’azione di annullamento o quella in carenza) sia quanto alla sua funzione che quanto alle sue condizioni di esercizio, che devono tener conto del suo oggetto specifico. Peraltro, essa non può essere utilizzata per neutralizzare gli effetti di un atto lesivo quando tale obiettivo può essere realizzato mediante azioni differenti. Il termine per la proposizione dell’azione è di 5 anni dal verificarsi del fatto dannoso (art. 43 dello Statuto della Corte). La responsabilità extracontrattuale è subordinata a una serie di condizioni: l’illiceità del comportamento dell’istituzione, un danno effettivo, o un nesso di causalità tra il danno e il comportamento dell’istituzione.
Nonostante che, secondo una giurisprudenza risalente, quando il danno derivi da un «atto normativo che implica delle scelte di politica economica», la responsabilità della Comunità per il danno che i singoli possono aver subìto in conseguenza di questo atto sussiste unicamente in caso di «violazione grave di una norma superiore intesa a tutelare i singoli» (sentenza 2 dicembre 1971, causa 5/71, Zuckerfabrik Schoppenstedt), la giurisprudenza più recente (ricavata da quella concernente la responsabilità degli Stati membri per infrazione del diritto comunitario: sentenza 5 marzo 1996, cause C- 46 e 48/93, Brasserie du Pecheur e Factortame III) ha superato il concetto di “norma superiore”, affermando che la responsabilità extracontrattuale delle istituzioni comunitarie sussiste quando la norma violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, la violazione sia grave e manifesta; a quest’ultimo riguardo, secondo la Corte, «la semplice trasgressione del diritto comunitario può essere sufficiente per accertare l’esistenza di una violazione grave e manifesta» (sentenza 4 luglio 2000, causa C-352/98 P, Bergaderm/Commissione).
Infine, il danno risarcibile deve essere certo e attuale; comprende il pregiudizio materiale e quello morale, il danno emergente ed il lucro cessante, la svalutazione monetaria successiva all’evento dannoso, gli interessi moratori, che decorrono dalla sentenza che accerta la responsabilità.
Circa le controversie tra la Comunità e i suoi agenti il giudice comunitario, ai sensi dell’art. 236 Trattato CE, è competente a conoscere di qualsiasi controversia che attenga al rapporto d’impiego: assunzioni, condizioni di lavoro, trattamento economico e benefici sociali, disciplina della carriera. Sono legittimati al ricorso non solo i funzionari e gli agenti temporanei, e i loro aventi causa, ma anche i pensionati ed i candidati ad un concorso. Invece, per gli agenti locali è competente il giudice nazionale.
Il regime del contenzioso della funzione pubblica comunitaria è disciplinato dagli artt. 90 e 91 dello Statuto del personale che prevedono (salvo nei casi in cui si tratti dell’impugnazione di un atto che l’amministrazione non possa annullare o modificare) anche lo svolgimento di una procedura precontenziosa. Questa presuppone un reclamo interno e, dunque, una decisione esplicita o implicita di rigetto in via amministrativa.
La ricevibilità del ricorso è subordinata alla sussistenza dell’interesse ad agire del ricorrente e al carattere pregiudizievole dell’atto impugnato, che, al limite, può anche essere verbale. Il termine per agire è di tre mesi, decorrenti dal giorno della notifica della decisione che statuisce sul reclamo interno ovvero, in caso di decisione implicita, dalla data in cui scade il temine per la decisione del reclamo amministrativo. Se, dopo la decisione implicita, ma prima della scadenza del termine per il ricorso, interviene una decisione di esplicito rigetto del reclamo, i termini riprendono a decorrere dalla data della notifica della detta decisione. Il ricorso può essere diretto sia a ottenere l’annullamento di un atto pregiudizievole sia a ottenere il risarcimento del danno derivante da un atto o da un comportamento o da una omissione dell’istituzione.
L’impugnazione delle sentenze del Tribunale
Il giudizio di impugnazione delle sentenze del Tribunale di primo grado, da parte della Corte di giustizia (e, in prospettiva, quello relativo alle sentenze del Tribunale della funzione pubblica da parte del Tribunale di primo grado) mira a rimediare agli eventuali errori in diritto della sentenza di primo grado. Il ricorso va proposto nel termine di due mesi a decorrere dalla notifica della decisione che conclude il procedimento impugnato nonché contro le pronunzie che decidono parzialmente la controversia o che pongono termine a un incidente di procedura relativo ad un’eccezione di competenza o di irricevibilità. L’impugnazione può essere proposta da qualsiasi parte che sia rimasta parzialmente o totalmente soccombente nelle sue conclusioni. Tuttavia, le parti intervenenti diverse dagli Stati membri e dalle istituzioni possono proporre impugnazione soltanto qualora la decisione di primo grado le concerna direttamente (art. 56, primo e secondo comma dello Statuto della Corte e art. 9, primo e secondo comma, dell’allegato I allo Statuto della Corte).
In deroga a questo principio ed in ragione di una discutibile tutela della legalità comunitaria, ad eccezione delle cause relative a controversie tra la Comunità e i loro agenti (competenza ora attribuita al Tribunale della funzione pubblica) l’impugnazione delle decisioni del Tribunale di primo grado può essere proposta anche dagli Stati membri e dalle istituzioni che non siano intervenuti nella controversia. In tal caso essi si trovano nella medesima posizione degli Stati membri e delle istituzioni che siano intervenuti in primo grado (art. 56, terzo comma, dello Statuto della Corte).
L’impugnazione deve limitarsi ai motivi di diritto. Essa può essere fondata su motivi relativi all’incompetenza del primo giudice, a vizi della procedura in primo grado recanti pregiudizio agli interessi della parte ricorrente, nonché sulla violazione del diritto comunitario (comprendente, all’evidenza, la contraddittorietà o l’insufficienza di motivazione della decisione) da parte del primo giudice.
L’errore di diritto comprende non solo l’errore nell’interpretazione della norma applicabile, ma anche l’errore nella qualificazione giuridica dei fatti accertati e/o della fattispecie che comporti l’applicazione della norma ad una fattispecie non disciplinata. È esclusa l’impugnazione relativamente all’onere e all’importo delle spese. La Corte ha accolto un motivo di impugnazione fondato sull’eccessiva durata della procedura svoltasi dinanzi al Tribunale di primo grado in violazione di un principio generale di diritto, l’equo processo di cui all’art. 6 della Convenzione di Roma del 1950 sulla salvaguardia dei diritti fondamentali (sentenza 17 dicembre 1998, causa C-185/95P, Bausthalgewebe/Commissione).
Quando l’impugnazione è accolta, la Corte o il Tribunale di primo grado annullano la decisione del primo giudice. Essi possono statuire definitivamente sulla controversia qualora lo stato degli atti lo consenta, ovvero rinviare la causa al primo giudice affinché quest’ultimo la decida essendo vincolato sui punti di diritto dalla decisione emessa in esito al giudizio di impugnazione. Quando un’impugnazione proposta da uno Stato membro o da una istituzione che non siano intervenuti davanti al Tribunale di primo grado è accolta, la Corte può, ove lo reputi necessario, precisare gli effetti della decisione annullata che debbono essere considerati definitivi nei confronti delle parti della controversia.
Spetta al primo avvocato generale (che è nominato dalla Corte per ciascun anno giudiziario, che inizia il 6 di ottobre) proporre alla Corte, entro un mese dalla decisione del Tribunale di primo grado relativa ad una decisione del Tribunale della funzione pubblica (o di ulteriori camere giurisdizionali istituite sulla base dell’art. 225A del trattato CE), di riesaminare la decisione del Tribunale allorché ritiene che esista un grave rischio per l’unità o la coerenza del diritto comunitario. La Corte decide sull’opportunità o meno di procedere al riesame (art. 62 dello Statuto della Corte). Il giudizio di impugnazione (o di riesame), pertanto, si configura come un giudizio di cassazione e non come un giudizio di appello, restando impregiudicati i fatti accertati dal primo giudice.
Altre competenze in materia contenziosa del Tribunale di primo grado e della Corte (in sede di impugnazione) riguardano le controversie relative a sanzioni irrogate dalle istituzioni comunitarie e la competenza a giudicare in virtù di una clausola compromissoria. Circa le controversie relative a sanzioni irrogate dalle istituzioni comunitarie, disciplinate dall’art. 229 del Trattato CE, esse conferiscono una competenza di piena giurisdizione, nel senso che il giudice può valutare sia la legittimità dell’atto che la sua opportunità, procedendo, se del caso, a modificare l’importo della sanzione. La materia di tali controversie sono sostanzialmente le ammende e le penalità di mora comminate dalla Commissione europea ai sensi dei regolamenti relativi alle regole di concorrenza (reg. 1/2003) (v. Politica europea di concorrenza) e alle operazioni di concentrazioni tra imprese (reg. 139/2004).
La procedura di infrazione
La c.d. procedura di infrazione del diritto comunitario per la sua mancata, scorretta o tardiva applicazione da parte degli Stati membri è disciplinata dagli artt. 226-228 del Trattato CE. Essa è promossa, di regola, dalla Commissione europea nell’esercizio del proprio ruolo di “custode dei Trattati”, cioè di garante del rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi derivanti dal diritto comunitario. Inoltre, la procedura può riguardare due o più Stati membri contrapposti (art. 227 del Trattato CE), anche se, di fatto, si tratta di una circostanza eccezionale.
Sebbene di fronte alla Corte di giustizia compaiano gli Stati membri per rispondere della violazione delle norme del diritto comunitario, sarebbe erroneo considerare questa azione come una controversia sottoposta a un giudice internazionale. Anzitutto, la Corte dispone di una competenza obbligatoria ed esclusiva; in secondo luogo, di regola, l’azione è proposta dalla Commissione, istituzione del tutto indipendente dagli Stati; in terzo luogo, la Corte evita di applicare le tradizionali cause giustificative ed esimenti della responsabilità internazionale; in quarto luogo, l’inesecuzione della sentenza può dar vita ad un nuovo procedimento che si può concludere con l’irrogazione di sanzioni pecuniarie allo Stato inadempiente.
Il concetto di inadempimento, definito come violazione degli «obblighi incombenti in virtù del presente Trattato» (art. 226) comprende qualsiasi obbligo che agli Stati membri derivi dall’ordinamento giuridico comunitario considerato nel suo insieme (diritto primario, atti vincolanti delle istituzioni, sia tipici che atipici, accordi internazionali conclusi dalla Comunità e principi generali del diritto comunitario, sentenze della Corte).
L’inadempienza può derivare da una omissione o da un comportamento positivo (in specie mancata, scorretta o tardiva attuazione di direttive comunitarie) imputabili allo Stato membro. Solo in materia di imputazione a uno Stato la Corte segue le regole della responsabilità internazionale e ritiene lo Stato inadempiente quale che sia l’organo che abbia mancato agli obblighi (potere legislativo centrale o regionale, potere esecutivo, potere giudiziario).
L’azione per inadempimento comporta una fase precontenziosa, cui eventualmente segue la fase contenziosa davanti alla Corte. La fase precontenziosa comporta due momenti distinti. Quando i servizi della Commissione europea, in base all’esame sistematico dell’attuazione del diritto comunitario da parte degli Stati membri, ovvero sulla base della denuncia da parte di un privato, individuano una presunta infrazione, la Commissione dà inizio alla fase precontenziosa indirizzando allo Stato membro una lettera di messa in mora. Questa lettera circoscrive l’inadempienza addebitata e dà la possibilità allo Stato membro di presentare le proprie osservazioni. Se la Commissione ritiene che l’inadempienza perduri, essa indirizza allo Stato membro un parere motivato nel quale, precisati gli elementi di fatto e di diritto che supportano la contestazione, invita lo Stato a rimuovere l’infrazione entro un tempo determinato. Se lo Stato non si conforma la Commissione può (in quanto l’azione è facoltativa) proporre ricorso alla Corte.
La fase contenziosa si apre con l’introduzione del ricorso, nel quale i motivi di doglianza devono coincidere, pena l’irricevibilità del ricorso, con quelli figuranti nella lettera di messa in mora e nel parere motivato, salvo restringere gli addebiti in ragione delle osservazioni o dell’adempimento parziale eventualmente nel frattempo intervenuto. L’onere della prova dell’inadempimento incombe alla Commissione. Qualora lo Stato rimuova l’inadempienza dopo la scadenza del termine fissato dal parere motivato o nel corso del giudizio la controversia non si estingue e la Corte prosegue il giudizio, a meno che la Commissione rinunci agli atti.
Invero, l’accertamento dell’inadempienza comporta notevoli conseguenze. In particolare, esso può fondare la responsabilità dello Stato membro nei confronti della Comunità, di altri Stati membri o di privati. Questi ultimi, in particolare, se danneggiati dal comportamento dello Stato inadempiente possono promuovere davanti al giudice nazionale un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato, sulla base della giurisprudenza della Corte (sentenze 19 novembre 1991, cause C-6 e 9/90 Francovich e Bonifaci; 5 marzo 1996, cause C-46 e 48/93, Brasserie du Pecheur e Factortame III).
Inoltre, quando la Corte accerta che una norma interna è incompatibile con gli obblighi comunitari, sia i giudici che l’amministrazione nazionale sono tenuti a non applicarla; qualora si tratti della mancata attuazione di una direttiva e questa contenga disposizioni dotate delle caratteristiche dell’effetto diretto, il privato ne può chiedere l’applicazione, con la conseguente disapplicazione delle confliggenti norme nazionali (Corte costituzionale, sentenze 389/1989 e 168/1991).
Quando la Corte accerta l’inadempienza la sentenza ha valore dichiarativo, trattandosi di pronuncia di mero accertamento. Qualora la sentenza dichiarativa dell’inadempimento non sia stata eseguita entro un termine ragionevole, la Commissione, secondo l’art. 228 del Trattato CE, dopo aver dato allo Stato inadempiente la possibilità di presentare le sue osservazioni, può formulare un parere motivato. Se lo Stato non si conforma nel termine impartito dal parere motivato la Corte può adire la Corte. In questa azione la Commissione precisa l’importo che essa considera adeguato alle circostanze della somma forfettaria (applicata nel caso di un inadempimento puntuale e isolato) o della penalità di mora (applicata nel caso di mancata adozione o mancata abrogazione di norme), dovuta dallo Stato membro.
Se la procedura per la constatazione dell’inadempimento è attivata da un altro Stato membro, prima di agire in giudizio lo Stato deve chiedere alla Commissione di intervenire ed essa, di regola, apre una procedura ex art. 226. Nel caso in cui la Commissione non proceda all’invio del parere motivato entro tre mesi dall’inizio della procedura lo Stato può proporre ricorso alla Corte. Vale la pena di segnalare che legittimato al ricorso è qualsiasi Stato membro, il cui solo interesse è quello della tutela del diritto, e non soltanto lo Stato leso dalla eventuale violazione.
Per talune specifiche ipotesi di inadempimento è prevista una procedura accelerata, nel senso che essa non prevede l’esperimento della fase precontenziosa (artt. 88, 95, par. 9 e 298, secondo comma, del Trattato CE)
Sostanzialmente analoghi ai poteri della Commissione sono quelli riconosciuti, rispettivamente, al Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti, ai sensi dell’art. 237, lett. a), per far constatare la mancata esecuzione, da parte degli Stati membri, degli obblighi derivanti dallo Statuto della BEI, e al Consiglio della Banca centrale europea, ai sensi dell’art. 237, lett. d) del Trattato CE in relazione alle controversie relative all’esecuzione degli obblighi alle banche centrali nazionali dal Trattato CE e dallo Statuto relativo al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC).
Interpretazione pregiudiziale del diritto comunitario
Ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, la Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sulle questioni concernenti il diritto comunitario che sorgono nel corso di un giudizio pendente davanti a «una giurisdizione di uno degli Stati membri». Tale competenza mira, innanzitutto, ad assicurare l’uniforme e corretta interpretazione e applicazione del diritto comunitario in tutti gli Stati membri mediante la cooperazione con il giudice nazionale. Infatti, questo giudice può essere considerato come il vero e proprio giudice comune del diritto comunitario, dato che il diritto comunitario ha un’applicazione soprattutto decentrata ad opera degli Stati membri e dei loro organi. Il meccanismo del rinvio pregiudiziale mette in relazione il giudice nazionale con la Corte di giustizia (e in prospettiva anche, limitatamente ad alcune materie specifiche, il Tribunale di primo grado).
Inoltre, il rinvio pregiudiziale “per interpretazione” consente di verificare indirettamente (rispetto all’azione per inadempimento dell’art. 226 del Trattato CE) la compatibilità (o la legittimità) del diritto nazionale con il diritto comunitario. Infine, il rinvio pregiudiziale “per accertamento di validità” completa il sistema del controllo giurisdizionale sulla legittimità degli atti comunitari (rispetto all’azione di annullamento di cui all’art. 230 del Trattato CE, all’azione di responsabilità, di cui agli art. 235 e 288 del Trattato CE, e all’eccezione di invalidità di cui all’art. 241 del Trattato CE), conferendo soprattutto ai singoli una tutela rispetto agli atti di portata generale, che essi non possono impugnare, salvo ad esserne direttamente e individualmente riguardati.
Altre competenze
La Corte è altresì competente a conoscere del ricorso promosso dal governatore di una banca centrale nazionale rimosso dalle sue funzioni (art. 14, par. 2, protocollo Sistema europeo delle banche centrali – SEBC), nonché a dirimere le controversie fra Stati membri in connessione con l’oggetto del Trattato, sottopostile in virtù di un compromesso redatto per iscritto (art. 239 del Trattato CE). In questo secondo caso si tratta, all’evidenza, di una classica funzione arbitrale precostituita, così come previsto per la soluzione delle controversie internazionali. La competenza, tuttavia, non ha conosciuto applicazioni pratiche.
Quanto alla competenza a giudicare in virtù di una clausola compromissoria, disciplinata dall’art. 238 del Trattato CE, la clausola, che deve essere redatta per iscritto, può essere contenuta in un contratto di diritto pubblico o di diritto privato stipulato dalla Comunità o per conto di questa. Per quanto riguarda la determinazione della legge applicabile il riferimento è generalmente contenuto nello stesso contratto e in questo caso la volontà delle parti prevale su qualsiasi altro criterio (ordinanza 28 aprile 1982, causa 318/81 R, Commissione/CO.DE.MI.). In mancanza di esplicita previsione il giudice applica le regole di diritto internazionale privato.
Competenza consultiva
Alla Corte di giustizia è attribuita anche una competenza consultiva. In particolare, ai sensi dell’art. 300, par. 6, del Trattato CE essa è competente a valutare la compatibilità con il Trattato di un accordo previsto tra la Comunità e Stati terzi o organizzazioni internazionali. Si tratta, per usare una categoria pubblicistica, di un controllo previo della costituzionalità dell’accordo. La finalità della competenza consultiva, infatti, è di evitare profili di legittimità dell’accordo successivamente alla sua stipulazione un controllo previo della costituzionalità dell’accordo. La finalità della competenza consultiva, che anche se tale valutazione non preclude la strada dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 230 del Trattato CE, dell’atto con il quale la Comunità conclude l’accordo.
Legittimati a richiedere il parere sono il Consiglio, la Commissione, uno Stato membro e (a partire dal Trattato di Nizza del 2001) anche il Parlamento europeo. Il parere deve essere chiesto prima della conclusione dell’accordo, ma può anche precedere la stessa apertura dei negoziati quando non riguardi la sua compatibilità, ma attenga alla competenza della Comunità a stipularlo
Se la Corte esprime parere negativo l’accordo può entrare in vigore soltanto previa revisione del Trattato CE, conformemente all’art. 48 del Trattato UE; si tratta, peraltro, di una ipotesi mai verificatasi perché o il progetto di accordo viene modificato nell’ottica di eliminare le incompatibilità evidenziate dal parere, o il negoziato viene abbandonato, o neppure inizia (quando la Corte abbia negato la sussistenza della competenza comunitaria: parere 2/94 del 28 marzo 1996, Adesione della Comunità alla convenzione sui diritti umani).
La procedura
La procedura dinanzi al giudice comunitario è disciplinata, oltre che dalle norme dei Trattati istitutivi e dal protocollo relativo allo Statuto della Corte allegato al Trattato CE, dai regolamenti di procedura della Corte, del Tribunale di primo grado e del Tribunale della funzione pubblica. Il procedimento prevede una fase scritta e una fase orale.
Nelle azioni dirette la procedura inizia con il ricorso che va notificato alla cancelleria dell’organo giurisdizionale competente, la quale provvede a una serie di adempimenti, fra i quali è compresa la notifica alla controparte. Quest’ultima ha diritto a presentare un controricorso, cui, di regola, seguono, una replica e una controreplica. La lingua di procedura è quella scelta dal ricorrente tra le lingue ufficiali dell’Unione europea; tuttavia, quando il convenuto è uno Stato membro va utilizzata quella di quest’ultimo.
Nel rinvio pregiudiziale il procedimento inizia con la domanda del giudice nazionale, che va inviata alla cancelleria della Corte. Questa, dopo averla tradotta in tutte le lingue ufficiali dell’Unione, la trasmette alle parti nel giudizio a quo, agli Stati membri, alla Commissione e alle altre istituzioni interessate dall’atto le cui norme costituiscono oggetto del rinvio. Tutti i soggetti ora menzionati possono presentare osservazioni scritte entro il termine di due mesi e possono partecipare all’udienza. Il giudice relatore e l’avvocato generale possono chiedere alle parti informazioni supplementari (art. 54-bis del reg. proc. Corte). La Corte può altresì chiedere chiarimenti anche al giudice nazionale remittente (art. 104, par. 5, reg. proc. Corte). La lingua processuale è quella del giudice remittente.
L’obbligo di patrocinio da parte di un avvocato iscritto in uno Stato membro è previsto in tutte le cause, salvo quelle a carattere pregiudiziale, quando il patrocinio non è obbligatorio davanti al giudice remittente. L’intervento è ammesso, senza restrizioni, per gli Stati membri e le istituzioni comunitarie; le parti private, invece, devono dimostrare di essere direttamente investite dalla decisione impugnata o di avere un interesse alla soluzione della controversia.
La fase orale si apre con la relazione del giudice relatore (che si dà per letta), prosegue con l’audizione dei rappresentanti delle parti e degli eventuali testimoni, nonché con la risposta ai quesiti posti dai giudici e dall’avvocato generale (se previsto) e si chiude, qualche settimana dopo l’udienza di trattazione, con la lettura del dispositivo delle conclusioni dell’avvocato generale, quando siano previste. Il dispositivo della pronuncia dell’organo giurisdizionale, all’esito della camera di consiglio, è letto in pubblica udienza, nella lingua di procedura.
È prevista una procedura pregiudiziale accelerata, in caso di “urgenza straordinaria”: viene immediatamente fissata l’udienza, le parti possono presentare memorie sui punti essenziali e la Corte decide, sentito l’avvocato generale, cioè senza conclusioni scritte (art. 104-bis reg. proc. Corte). È prevista, inoltre, una procedura accelerata, a domanda di una delle parti, quando lo richieda l’urgenza del caso: le parti producono una sola memoria e l’avvocato generale è solo sentito (art. 62-bis, reg. proc. Corte; art. 76-bis, reg. proc. Tribunale di primo grado).
I ricorsi davanti agli organi giurisdizionali comunitari non hanno effetto sospensivo. Tuttavia, tali organi possono ordinare misure cautelari o provvisorie (art. 242-243 del Trattato CE). La domanda deve essere presentata con atto separato, contestuale o successivo al ricorso. Le misure provvisorie, di regola, costituiscono un potere presidenziale (dei presidenti delle giurisdizioni o delle formazioni giudicanti); eccezionalmente sono rimesse al collegio. È prevista una udienza breve, ma l’ordinanza può essere pronunciata, in casi di estrema urgenza, inaudita altera parte. Le condizioni necessarie perché il giudice ordini una misura cautelare sono: a) il fumus boni iuris, cioè l’apparenza del diritto di cui si chiede la tutela in via cautelare, b) il periculum in mora, cioè il fondato timore che, nelle more del giudizio, si produca un danno irreparabile alla parte che ha diritto; c) il bilanciamento degli interessi contrapposti.
Le misure cautelari non possono essere ordinate nei procedimenti pregiudiziali, dato che essi costituiscono un incidente nel giudizio nazionale. Il giudice remittente, peraltro, può sospendere l’efficacia della misura nazionale basata su un atto comunitario la cui legittimità sia contestata, nonché sospendere eccezionalmente anche l’atto comunitario e, contestualmente, proporre rinvio pregiudiziale per l’accertamento di validità.
Carlo Curti Gialdino (2010)