De Gasperi, Alcide
Altiero Spinelli, come epitaffio della caduta della Comunità europea di difesa (CED), richiamava il giudizio di Machiavelli sulla difficoltà «a trattare, né più dubbia a riuscire» per introdurre gli “ordini nuovi”, alla cui intrapresa il nome di D.G. (Pieve Tesino 1881-Borgo Valsugana 1954) è legato, almeno sotto un aspetto sostanziale, quello della fondazione di un’Europa politica, più di qualunque altro statista europeo. Paul-Henri Spaak nelle sue memorie nota che la Conferenza di Bruxelles (agosto 1954), nella quale Pierre Mendès France avrebbe espresso la contrarietà della Francia a fare di quel trattato l’avvio di un processo di unificazione politica dell’Europa, «cominciò sotto cattivi auspici. Qualche minuto prima della sua apertura, venne annunziata la morte di D.G.». Konrad Adenauer, a sua volta, affermò: «Un’ombra grigia avrebbe sovrastato i nostri negoziati». La definitiva cancellazione della CED dall’agenda europea avvenne di lì a poco col voto contrario dell’Assemblea nazionale francese, ma la sua sorte era già segnata da qualche mese.
La vita di D.G. si sarebbe chiusa sul piano internazionale con una sconfitta, la seconda grave sconfitta dopo quella dell’anno precedente nella politica interna. Come per l’Italia, il futuro dell’Europa non sarebbe stato quello che D.G. si era proposto di costruire, ma molti dei profili fondamentali, che l’avrebbero poi caratterizzato, rimasero quelli che l’opera sua aveva intrapreso a determinare. E così non sembra pertinente chiedersi se egli fu “europeista”, ancor più “federalista”, perché certamente nella sua azione politica ambo le cose sono presenti, assieme ad altre considerazioni altrettanto rilevanti di altro segno. Così pure pare superfluo domandarsi se e quando l’idealismo avrebbe prevalso in lui sul realismo, per un uomo così intrinsecamente coerente con le sue idee, in ogni passaggio della sua vita, in cui per altro non risulta abbia nel contempo mai abbandonato un solo istante la sua congenita attitudine politica a vedere le cose in quanto realizzabili.
Nella formazione intellettuale di D.G. l’idea d’Europa è presente nella forma che la cultura cattolica aveva dato ad essa sulla fine del XIX secolo, quella dell’Europa cristiana, come appare nell’enciclica Immortale Dei di Leone XIII. Da ciò anzi D.G. continuava a trarre linfa nell’idea che fosse necessario trasferire il solidarismo cattolico sul piano internazionale e nella considerazione della Germania, convinto della possibilità di un nuovo moto ideale tedesco e dell’influsso negativo che il luteranesimo vi aveva storicamente esercitato, almeno nel contribuire a congelare in se medesima la sua identità nazionale, facendo così voti perché «un’iniziativa cattolica si sostituisse all’iniziativa protestante». Tuttavia non vi sono tracce di una riflessione sul “federalismo”. Negli scritti di D.G. degli anni Trenta sulla politica internazionale questo tema non compare: nulla sui propositi europeistici di Aristide Briand, né tantomeno sul dibattito federalista animato dal liberalismo inglese, il cui eco troviamo invece ben presente nelle posizioni di Luigi Einaudi del secondo dopoguerra. Le prime “idee ricostruttive” parlano bensì di una “comunità europea”, come necessario teatro della ricostruzione nazionale e in esse c’è da parte di D.G. piuttosto un riferimento idealtipico al Commonwealth britannico. È stato detto che la sua esperienza politica austriaca lo portava naturalmente sulla strada del federalismo. Ma l’obbiettivo della sua battaglia nell’ambito delle istituzioni imperiali asburgiche era piuttosto volto a perseguire l’autonomia, nel quadro delle diverse componenti nazionali che in esso erano congiunte, senza che ciò comportasse propriamente un disegno di tipo federalista. C’era piuttosto l’idea che “nazionalità” e “Stato” fossero due cose che andavano considerate come distinte e non sempre necessariamente congiunte. Ed è questo un motivo che ritorna ad echeggiare nei suoi discorsi sull’Europa, quando insisteva nel dire che «la base di tutte le cooperazioni è la nazione in un consorzio di nazioni libere». Prima di tutto dunque “nazione”, piuttosto che “Stato”, e il “consorzio” cui bisognava adire, nell’ultima fase decisiva, prendeva così naturalmente forma federalistica, anche se D.G. non aveva in mente di preciso i profili istituzionali.
D.G. tuttavia non ne nascondeva le difficoltà. Nelle sue convinzioni intellettuali c’era tutt’altro che l’idea d’uno Stato accentratore. Egli era stato sempre attento al problema delle minoranze etniche, avendo presente la composizione plurietnica di molti Stati europei, su cui metteva ancora l’accento negli anni Trenta, considerando che gli effetti della Prima guerra mondiale e il Trattato di Versailles non avevano del tutto cancellato questa indelebile caratteristica, che gli esiti della Seconda guerra mondiale avrebbero ulteriormente e drammaticamente pregiudicato. Ma aveva ben presente come proprio la storia europea avesse fatto infine dello Stato nazionale, costruito sull’antecedente modello dello Stato assoluto, il suo soggetto determinante, il che non poteva che rendere difficile il cammino verso una diversa unione. E quando si riferiva agli esempi contrari, la Svizzera e gli Stati Uniti, non mancava di notare come essi avessero costruito il loro Stato federale nel momento storico del riscatto della loro indipendenza nazionale, cioè in circostanze diverse da quelle in cui gli Stati europei avrebbero ora dovuto operare per la loro reciproca integrazione. Tuttavia, facendo riferimento al generale movimento che dopo la Seconda guerra mondiale si era messo in moto per assicurare nuove condizioni di sicurezza e di pace, per cui si parlava anche di una “Federazione mondiale”, invitava a “essere concreti”, sottolineando come la Federazione europea fosse quella la cui possibilità di pratica realizzazione era più vicina, ma avvertiva che era impossibile sapere quanto la sua generazione avrebbe potuto realizzare.
D.G. Intendeva piuttosto pregiudizialmente gettare un seme e assicurarsi che potesse crescere. Il seme dell’“unità politica”, quello che appunto allora non si poté far germinare. In ciò espresse priorità che non erano di tipo “funzionalista” (v. Funzionalismo). È singolare constare che nelle sue memorie Jean Monnet, parlando dell’azione che D.G. condusse nel concerto degli statisti europei per introdurre l’art. 38 del trattato della CED, con cui si sarebbe dovuto affrontare da un punto di vista istituzionale proprio il tema dell’“unità politica”, si domandi se «bisognasse davvero subito andare più lontano sulla strada politica».
Su questo punto D.G. fu più solitario di quanto correntemente si ritiene. Egli impose allora ai suoi colleghi europei il suo punto di vista, relativo alla priorità dell’“unità politica”, che anch’essi consideravano un approdo necessario, ma lo facevano proprio, in quel momento, soprattutto sotto la spinta di altre considerazioni impellenti: Adenauer perseguendo principalmente l’obbiettivo di ridare alla sua Germania intera la sovranità, Robert Schuman consapevole che la Francia dovesse responsabilmente trovare la via di scogliere, per l’avvenire suo e dell’Europa, il nodo tedesco. Diversamente i rappresentanti dei paesi del Benelux facevano propria quella suggestione di D.G. per cui la sopranazionalità delle istituzioni europee era, e tale sarebbe rimasta in seguito, un antidoto necessario al prevalere politico degli Stati più forti. Monnet attribuisce a D.G. un pensiero analogo: «aveva capito che l’Italia non avrebbe giocato un ruolo equivalente a quello degli altri Stati più industrializzati, altrimenti che accelerando il processo politico che era rimasto sospeso negli altri trattati europei».
E questa preoccupazione era indubbiamente presente in D.G., anzi rappresentava un motivo portante della politica estera italiana, che troviamo chiaramente espressa anche da Carlo Sforza. Ma con ciò non può parlarsi, come tra le righe si è fatto, di un «utilizzo strumentale dell’europeismo». D.G. al contrario parlava di quest’ultimo come di un “mito soreliano”, cioè avente valenza etico-politica, e riteneva inoltre che dovesse tradursi in un obbiettivo politico da perseguire con tenacia. E di questo mito egli vedeva i presupposti nelle tre grandi famiglie politiche europee, oltre che in quella cattolica, in quella liberal-democratica, nella quale la figura di Giuseppe Mazzini gli sembrava una testimonianza particolarmente significativa in tema di Europa, e naturalmente in quella socialista. D.G. propugnò dunque un federalismo di particolare forma, patrocinando un progetto di tipo federalistico. Di lui può affermarsi quello che, a diverso titolo, è stato detto di Monnet: “europeista non si nasce, ma si diventa”. Ed è indubbio che gli ultimi suoi anni furono sotto questo segno. Che la prospettiva europeistica di D.G. fosse ben più di una considerazione di realismo politico, la mera ricerca cioè di uno strumento che servisse all’Italia per non subire l’inevitabile superiorità della Francia e della Germania, magari ambedue in un secondo momento ancor più unite dalla coincidenza dei loro rispettivi interessi, risulta del resto chiaro dalle riflessioni che egli svolse su due temi sempre presenti nel suo dialogare politico: da un lato la natura e gli effetti della guerra europea e dall’altro il problema, che anche da quella terribile esperienza si deduceva, della difesa della democrazia politica.
D.G. vedeva questi due aspetti tra loro strettamente congiunti. La “guerra europea” era stata “una guerra civile”. Era nata da una spaccatura interna che aveva trasversalmente segnato pressoché tutte le nazioni europee. Il nazionalismo era la sponda che nel passato aveva prevalso, trascinando i popoli nella guerra fratricida. Era così emersa in Europa la peculiare fragilità della democrazia come regime politico. Esaminandone da più vicino le cause, D.G. notava come non fosse vero che «la democrazia dipende solo dalla situazione economica, come non è vero che la situazione economica possa in ogni paese modificarsi nella stessa misura e con gli stessi mezzi»; e ancora: «non è neppure vero che in Europa abbiamo tutti provato le stesse esperienze economiche, politiche e sociali, e che con gli stessi mezzi si sia tentato di arrivare ai medesimi obbiettivi», mentre di contro «non è vero che il comunismo sia anzitutto un sistema economico». Ora, se «l’avviamento più logico, più pratico, più conforme ai precedenti storici» era l’Unione doganale ai fini del processo di integrazione europeo, questo non bastava affatto perché il primo più importante problema era quello costituzionale dello Stato federale, che un trattato sulla comune difesa militare come la CED necessariamente presupponeva (v. Integrazione, teorie della).
D.G. notava infatti che «se la realizzazione della solidarietà economica europea dovesse dipendere dalle forme di compromesso elaborate dalle diverse amministrazioni interessate, questo ci condurrebbe molto probabilmente a debolezze e contraddizioni». Egli conveniva con Sforza che il disegno di integrazione che il suo governo metteva in campo andasse sottratto alla logica delle burocrazie diplomatiche e militari. Un esercito europeo avrebbe infatti dovuto comportare una spesa comune e un prelievo fiscale unificato: occorreva quello che egli definiva il “secondo pilastro”, cioè un “bilancio comune” (v. anche Bilancio dell’Unione europea). Il primo, di per sé insufficiente, rimaneva invece quello della liberalizzazione degli scambi tra i paesi europei, legato alla necessità di assicurare ai sistemi industriali dei vari paesi uno spazio di mercato più ampio di quello interno.
Le democrazie postulavano in modo analogo un contesto omogeneo, che in Europa sarebbe stato pienamente assicurato soprattutto attraverso un processo di integrazione. Per questo D.G. invocava «un’associazione di sovranità nazionali basata su istituti costituzionali democratici» e richiedeva “un soffio vitale” per costituirla. Non si intende questa inclinazione così radicale di D.G. sul problema dell’Europa se la si disgiunge dalle riflessioni sulla guerra mondiale. Questo pensiero ricorrente invero era un elemento in comune con gli altri statisti europei a lui coevi. «Nella nostra sventura», ebbe a dichiarare D.G. a Bruxelles nel novembre 1948, «ridivenimmo più che mai consapevoli della comune civiltà e del nostro comune destino», e lo stesso sentimento era destinato poi a rimanere vivo anche nei decenni seguenti. Così pure l’adagio che in quel periodo egli fece spesso risuonare in tutte le sedi: “fare presto”. In questo caso il riferimento era invece alla congiuntura internazionale dell’epoca, perché la Guerra fredda imponeva allora scelte drastiche per garantire la difesa europea, come quella impellente del riarmo tedesco. La guerra passata, e quella che era in atto come Guerra fredda, confluivano dunque in una medesima suggestione, e D.G. avvertiva che di ciò occorreva approfittarne per realizzare l’integrazione. Quando quella tensione sarebbe venuta meno, come pure era auspicabile, tutto sarebbe divenuto più difficile. D.G. volle così rimanere fedele fino all’ultimo a quel progetto a cui aveva intimamente aderito.
Egli non credeva che la liberalizzazione del mercato bastasse da sola a fondare un’Unione europea. L’esperienza del Piano Marshall gli aveva mostrato che, malgrado le pressioni americane, per quella strada l’integrazione rimaneva semplicemente funzionale al rafforzamento delle singole economie nazionali e che in ultima analisi anche un passo così importante, come quello che si era fatto con la carbosiderurgia, attraverso la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), andava principalmente in quella direzione (v. Integrazione, metodo della). Ma l’effettivo ridimensionamento della sovranità degli Stati nazionali e, a partire da ciò, l’estrinsecarsi di una politica propriamente europea, erano un’altra cosa. A questa consapevolezza si riconnetteva la constatazione che l’ideale europeo non era ancora ben radicato. D.G. diede così senza remore il suo appoggio alle iniziative e ai Movimenti europeistici.
Al primo Consiglio internazionale del Movimento europeo (ME), tenutosi a Bruxelles nel febbraio 1949, Meuccio Ruini, che guidava la delegazione italiana, lesse una dichiarazione di D.G. e nel corso della riunione le posizioni italiane risultarono decisamente più proiettate di quelle di altri paesi verso la prospettiva dell’integrazione. Nel luglio del 1950 si tenne a Roma la Conferenza sociale del ME, avvenimento a cui D.G. attribuì grande importanza, e che fece preparare con cura, intervenendovi con un discorso le cui riflessioni sulla giustizia sociale e la democrazia, che abbiamo già richiamato, penetravano a fondo il tema dell’“unità”, sottolineando come fosse necessario che «tutti i popoli, ricchi e poveri» dovessero essere chiamati a fare sacrifici per essa. Nel novembre 1950 interveniva poi ad una manifestazione del Movimento federalista europeo, apponendo la sua firma alla petizione da questi promossa per un “patto di unione europea”. Si preoccupava nel contempo di riaffermare, assieme ai comuni sentimenti verso il processo di unificazione europea, la necessità di non formalizzarsi su di una prospettiva eccessivamente astratta.
Qualche giorno dopo al Senato avrebbe pronunciato uno dei più argomentati suoi discorsi europeistici a sostegno di una mozione federalista presentata da alcuni senatori della maggioranza, che abbiamo già diffusamente citato, tenendo la stessa cauta distanza tra la meta ideale e l’azione di governo. Anche in seguito, quando il suo impegno per la CED esplicitò una più accentuata vicinanza, l’azione militante dei federalisti fu una sponda idealmente contigua, che D.G. considerava necessaria per “affiancare e stimolare” lo svolgimento della politica europea, senza mai tuttavia identificarsi con essa e senza mai confondere la propria azione con le iniziative di quei movimenti.
Non fu dunque per un impulso semplicemente ideale che a un certo punto D.G. cercò di cogliere l’attimo fuggente dell’unità politica dell’Europa, bensì perché aveva intravisto l’esistenza di un’effettiva possibilità politica nel contesto europeo. Sperò che la consapevolezza allora presente nei maggiori statisti europei sortisse effetti positivi. In quei frangenti aveva scritto a Sforza: «Non bisogna nascondersi che tra i nordamericani i fanciulloni sono molti e che anche le democrazie politiche hanno i loro punti deboli. La vecchia Europa è più equilibrata e più esperta».
Era un istintivo trasporto verso una saggezza europea, in quel momento fiduciosamente presunta, che si aggiungeva alle remore naturali e indelebili di Einaudi, che era personalmente oltremodo partecipe di questi sforzi di D.G., l’aveva sollecitato a lasciare che il suo nome fosse legato «alla realizzazione della grande idea» e per un certo tratto egli sperò che fosse possibile. Con ciò non si nascondeva che la CED fosse comunque ancora “una fase transitoria”, per quel che riguarda l’Italia, basata sull’art. 11 della sua Costituzione, che avrebbe richiesto una seconda fase, quella federale: allora sarebbe stata «necessaria una revisione costituzionale». Un percorso ancora lungo ed accidentato, ma D.G. aveva cercato comunque di fare il primo passo, e ciò gli si era proposto come un “imperativo categorico”. A volte aveva avvertito che l’occasione avrebbe potuto non ripresentarsi. E nei fatti quella occasione non è stata in seguito più colta. La “tela di Penelope” della sua politica europea si sarebbe strappata e quanto sarebbe rimasto del suo ordito non avrebbe più permesso di far passare il filo necessario a comporre un disegno federalista.
Questo acuto europeistico di D.G., con cui, come parve a Schuman, egli assunse quasi il ruolo di un “apostolo”, fu tuttavia quasi l’ultimo atto della sua politica estera e prese forma su di un terreno preparato con cura e con prudenza. Mai tuttavia questa politica si discostò un momento dalla convinzione che il referente primario stava nell’alleanza con gli Stati Uniti. Gli Stati europei, ancorché divisi, erano troppo deboli per giocare un ruolo autonomo, non solo nell’arena internazionale, ma nello stesso loro teatro continentale. La necessità di coinvolgere gli Stati Uniti invocando una loro corresponsabilità per fronteggiare la minaccia sovietica rispondeva ad una esigenza che riguardava non solo i rapporti di forza internazionali, ma anche quelli interni a ciascun paese occidentale. Poteva anzi dirsi che l’intensità di questa “chiamata” dell’alleato americano variasse proporzionalmente rispetto a quella correlata della pressione sovietica.
Questa pregiudiziale americana ha radici particolari nella storia italiana che affondano nella svolta del luglio 1943 la quale portò alla caduta di Mussolini, all’armistizio con le potenze alleate e al rovesciamento di alleanze con cui l’Italia partecipò poi alla guerra a fianco di queste ultime. Le clausole dell’armistizio stringevano strettamente la nazione italiana alla sua condizione di paese vinto. Gli inglesi si fecero interpreti rigorosi di esse, nella politica interna come nella politica estera. Nella politica interna si attennero al principio della continuità dello Stato nella persona del sovrano, Vittorio Emanuele III. Ciò comportava vincoli allo sviluppo della rinascente vita democratica, in cui la gran parte dei partiti antifascisti avanzavano la pregiudiziale repubblicana. Quando D.G. assunse la carica di ministro degli Esteri nel primo governo Bonomi (giugno 1944) si trovò subito nella necessità di cercare di allentare questi vincoli. E il crinale lungo il quale si mosse fu quello di un sempre più stretto rapporto con gli americani, favorito dal ruolo sempre più preminente che essi vennero assumendo nel Mediterraneo rispetto agli inglesi. Rapporto necessitato anche dalle elementari esigenze di aiuti, in primo luogo alimentari, di cui il paese, nelle contingenze belliche e in quelle degli anni immediatamente successivi alla guerra, il paese aveva drammatica necessità. Sul lato della politica estera fu più difficile districarsi, e per quanto l’inclinazione della diplomazia americana fosse più attenta alle richieste italiane, il trattato di pace rifletteva la logica dei rapporti e degli impegni reciproci tra le potenze vincitrici che si erano andati stabilendo nel corso della guerra. L’avvio della Guerra fredda determinò condizioni più propizie allo svolgersi di un autonomo ruolo italiano di partnership, che fu anche questo tutto di segno americano. Alla metà del 1947 la ratifica italiana del trattato di pace e la rottura da parte di D.G., col suo IV governo (giugno 1947), furono la premessa di una svolta decisiva, tra l’altro con l’adesione italiana al Piano Marshall. Ma la data definitiva fu quella delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 con l’ampia vittoria delle forze anticomuniste e in particolare del partito di D.G., la Democrazia cristiana.
Fu una scelta di campo dell’elettorato italiano sulla quale diveniva possibile costruire un univoco indirizzo di politica estera. Da quella data possiamo parlare in effetti della costruzione di un disegno di politica internazionale che ebbe indubbiamente allora in D.G. il maggiore artefice. E la via subito intrapresa fu quella di rafforzare il legame transatlantico. L’Italia aderì al Patto atlantico attraverso una sofferta trattativa, in cui ai dubbi degli alleati verso la sua partecipazione si aggiunsero le resistenze interne di larga parte del partito cattolico e di settori della socialdemocrazia che furono superate soltanto all’ultimo momento (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). L’ingresso nel Patto atlantico va comunque considerato come l’atto di fondazione della nuova politica estera italiana. La politica europea che lo accompagnò e seguì fino agli anni Cinquanta deve considerarsi come un elemento sussidiario seppure carico di intense speranze.
Le attenzioni di D.G. e quella del ministro degli Esteri Carlo Sforza si volsero innanzitutto a rinsaldare le relazioni con la Francia. Quando il Quai d’Orsay passò dalle mani di Georges Bidault a quelle di Schuman il compito divenne più agevole. Ambedue venivano dal Mouvement républicain populaire, il partito francese di ispirazione cattolica, il che costituiva un principio di consonanza per D.G. Durante la complessa trattativa per l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico la Francia era stata l’interlocutore più interessato alla partecipazione italiana. Quando Ernest Bevin lanciò il Patto di Bruxelles gli italiani, premuti com’erano dalla necessità di non perdere occasioni per rientrare nel concerto internazionale, avevano avanzato il proposito di aderirvi, trattenuti poi dalla preoccupazione, avvicinandosi la scadenza del 18 aprile, di non dare ai social-comunisti un argomento polemico efficace nella campagna elettorale, aderendo a un’alleanza militare che aveva valenza in principio antitedesca, ma insieme evidentemente antisovietica. Dopo il risultato elettorale favorevole, la trattativa del Patto atlantico, che assorbì nel suo contesto la piccola intesa di Bruxelles, avrebbe poi invece rappresentato il necessario consolidamento internazionale della nuova maggioranza parlamentare.
Si deve all’iniziativa italiana il proposito di un’unione doganale italo-francese, accolta inizialmente in modo favorevole dalla Francia, che per un momento volle anche estenderla ai paesi del Benelux, ma che non giunse mai a maturazione. Questa di unificare il più possibile il mercato europeo era obbiettivo che perseguivano anche gli Stati Uniti, facendo del Piano Marshall uno strumento di pressione. Corrispondeva a un’idea di D.G., che ritroviamo anche nelle sue pagine programmatiche che accompagnarono la nascita della Democrazia cristiana. In D.G. era ferma del resto anche la convinzione che la Germania avrebbe dovuto riassumere un ruolo centrale nella costruzione europea. Non a caso la prima visita all’estero di Adenauer come cancelliere nel giugno 1951 fu a Roma su invito del governo italiano. La formula dell’Europa di Carlomagno è un’etichetta postuma che unisce i tre statisti Adenauer, Schuman e D.G., anche nel segno della loro comune origine di uomini di frontiera oltre che dell’appartenenza a forze politiche di ispirazione cattolica. Non fu in realtà un disegno, ma una naturale convergenza, indubbiamente in un idem sentire che si manifestò via via nel corso degli eventi e che poggiò sull’idea che l’asse fondamentale della costruzione europea dovesse necessariamente aver natura continentale e passare attraverso la riconciliazione franco-tedesca cui l’adesione italiana ancor più di quella dei paesi del Benelux costituiva un apporto indispensabile per dare ad essa un effettivo e più ampio contenuto europeo.
L’Italia aveva dal canto suo necessità di trovare nella politica europea l’elemento di stabilizzazione per rientrare nel concerto internazionale di cui il rapporto con gli Stati Uniti era il volano necessario, ma non sufficiente. Il punto di precipitazione fu, con la guerra di Corea, la necessità che venne imponendosi del riarmo tedesco. Il nodo delle relazioni franco-tedesche emerse così drammaticamente a nudo. La difesa dell’Elba non era concepibile senza una partecipazione tedesca. Tanto più che i sovietici, nella zona tedesca da loro occupata, andavano formando tre divisione tedesche. Il proporsi in Europa di una situazione di tipo coreano si presentava così come qualcosa di più di una semplice suggestione. Adenauer, fermo nella sua scelta occidentale che respingeva ogni possibile accordo con l’URSS su di un’ipotesi di neutralizzazione tedesca, si trovava a fronteggiare una situazione in cui la Germania era pressoché militarmente inerme di fronte alla minaccia sovietica e nel contempo puntava a realizzare con il riarmo un pieno riconoscimento della Repubblica federale come soggetto di politica internazionale.
Il nodo della questione era nelle mani dei francesi. All’iniziativa di Schuman si doveva già il Trattato della CECA, l’autorità carbosiderurgica europea che, concepita da Monnet, introduceva il principio di una gestione sovranazionale di quel vitale comparto industriale. La partecipazione italiana alle trattative aveva seguito una linea proficua di difesa degli interessi italiani, ma nel contempo di assoluta lealtà verso gli obbiettivi transnazionali di costruzione europea che l’iniziativa comportava. Era stata l’industria pubblica italiana a fare da supporto all’iniziativa, di contro alle preoccupazioni dei privati. D.G. non si nascondeva come l’iniziativa rispondesse alle strategie economiche di espansione dell’industria francese che Monnet aveva messo a punto nel suo piano economico nazionale. Poiché gli interessi italiani erano stati anche tutelati, aveva sorretto con decisione l’iniziativa. L’incontro di Santa Margherita del febbraio 1951 con il governo francese, presenti il Presidente del Consiglio René Pleven e Schuman, aveva appianato le ultime difficoltà e coronato l’intesa. Era avvenuto per altro alla vigilia della presentazione del piano Pleven, dove lo schema sopranazionale della CECA era stato trasporto nella costituzione di un esercito europeo che risolvesse nel suo ambito il problema del riarmo tedesco. Dopo un’iniziale incertezza, quando gli americani decisero di appoggiare l’iniziativa, il progetto francese prese forma con il pieno appoggio del governo italiano. Fu allora che anche l’europeismo di D.G. prese anch’esso la sua forma definitiva e a puntare sull’ipotesi di un’unità politico-istituzionale. Era, come si è detto, presente l’idea che una soluzione federale avrebbe maggiormente garantito l’Italia dal saldarsi dei più forti interessi franco-tedeschi, ma il disegno che perseguiva trascendeva comunque l’interesse nazionale.
D.G. si propose quindi di alzare il livello della trattativa. Quando nel dicembre 1951 intervenne all’Assemblea del Consiglio d’Europa con un discorso di chiaro indirizzo federalista, raccolse la particolare approvazione degli olandesi e dei belgi. L’11 dicembre, nel corso della Conferenza dei ministri degli Esteri sull’esercito europeo che si tenne a latere dell’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, calò sul tavolo le sue carte. Nella seduta antimeridiana dichiarava: «L’Italia è pronta a trasferire ampi poteri ad una Comunità europea, purché questa sia democraticamente organizzata e dia garanzie di vita e di sviluppo. Non nega che vi possa essere un periodo transitorio, ma ritiene necessario che nel momento in cui il Trattato verrà presentato ai Parlamenti, sia già chiaramente affermata la volontà di creare istituzioni politiche comuni, che assicurino la vita dell’organizzazione. Riconosce che l’organizzazione politica e integrata dell’Europa non si potrà realizzare subito, ciò nondimeno stima che è necessario fin da principio la sicurezza che questa organizzazione a un certo momento prenderà vita. Se si trasferisce tutto l’esercito ad un potere europeo, bisogna che i Parlamenti e i popoli sappiano in che maniera questo potere sarà organizzato, come gestirà le sue attribuzioni e come sarà controllato. È per questo che considera la presenza di una Assemblea nell’organizzazione europea come essenziale; è necessario che nella Comunità europea esista un corpo rappresentativo, questo potrà anche essere formato mediante delegazione di poteri da parte dei parlamenti nazionali».
L’organo esecutivo europeo, che secondo D.G. avrebbe dovuto essere collegiale, sarebbe stato responsabile verso questo corpo rappresentativo europeo. L’organo esecutivo avrebbe dovuto essere un presidente: «che si chiami Commissario o in altra maniera […] il nome è una questione secondaria, l’importante è che si tratti di un Commissariato e non di una persona singola. In questo corpo collegiale la presidenza, ad esempio, potrebbe essere esercitata a turno».
D.G. si rendeva conto che la creazione di una Assemblea rappresentativa poteva destare qualche preoccupazione presso i paesi minori che, per forza, avrebbero avuto una rappresentanza limitata, ma individuava il correttivo nel Consiglio di ministri, in cui ogni paese avrebbe avuto una rappresentanza eguale come in un Consiglio di Stati.
Vi era poi la questione della messa in moto dell’esercito europeo. Nel Patto atlantico, almeno teoricamente, non vi era automatismo. Per l’esercito europeo occorreva che nel determinare i poteri dell’Assemblea e del Consiglio degli Stati, si trovasse una formula perché questi organi fossero consultati.
Comunque sia, concludeva D.G., «per riuscire dobbiamo fare qualche cosa che presenti attrattive per la gioventù europea; dobbiamo lanciare un appello a cui questa possa rispondere. Come potremo giustificare il trasferimento a organi comuni di così importanti parti della sovranità nazionale, se non diamo al tempo stesso ai popoli la speranza di realizzare idee nuove? È questa la sola maniera per combattere i risorgenti nazionalismi».
La dichiarazione di D.G. si poneva al centro della discussione, modificando l’iniziale impostazione di Schuman e finiva per raccogliere il consenso di tutti con l’introduzione dell’art. 38 del Trattato, in base al quale entro un anno, sulle linee federalistiche così tracciate, l’Assemblea della CECA avrebbe formulato un progetto costituzionale europeo (v. Comunità politica europea). Una successiva riunione dei sei ministri degli Esteri a Parigi dal 27 al 30 dicembre avrebbe ulteriormente precisato i termini comuni con cui l’impostazione di D.G. venne accolta.
D.G. si proponeva di presentare alle Camere per la ratifica il trattato della CED dopo le elezioni del 7 giugno 1953, in cui la sua coalizione di governo doveva subire una cocente sconfitta, non essendo scattato il premio di maggioranza della nuova legge elettorale che egli stesso aveva imposto. Trascorse da quella data un anno in cui la preoccupazione costante di D.G. fu quella della ratifica del Grattato. Egli voleva che l’Italia, come avevano già fatto la Germania e i paesi del Benelux ratificasse prima del voto dell’Assemblea nazionale francese. Ormai fuori dal governo, ma in una posizione ancora preminente, sollecitò con tenacia il governo italiano, facendo cadere prima quello presieduto da Giuseppe Pella, che andava in altra direzione, poi incalzando quello presieduto da Mario Scelba e con esso il nuovo segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani. L’Italia finì per attendere il voto negativo dell’Assemblea nazionale francese del 30 agosto 1954. D.G. morì il 19 dello stesso mese, alla vigilia di quella Conferenza di Bruxelles in cui Mendès France aveva chiesto di stralciare dal trattato della CED proprio quel progetto federalista che poteva dirsi il lascito politico incompiuto di D.G.
Piero Craveri (2012)