Nessun personaggio pesa più di de G. (Lille 1890-Colombey-les-deux-Églises 1970) nella storia della Francia del Novecento. Nel 1940, nel momento più buio dell’occupazione nazista, con il «gran rifiuto» al dovere di obbedienza alla resa firmata da Pétain, de G. divenne il simbolo dell’unità del popolo francese, l’eroe della Resistenza; nel 1946 gli venne affidato l’incarico di presiedere il primo governo della nuova Francia e, con esso, il compito di ricomporre le tante fratture che si erano consumate durante la Seconda guerra mondiale; infine, nel 1958, richiamato al potere come uomo della Provvidenza, sventò il putsch dei militari e avviò a soluzione la crisi algerina, salvando la Francia per la seconda volta da una situazione che sembrava potesse mettere a repentaglio l’esistenza stessa della nazione. D’altra parte, quando si osserva la biografia di de G., si aprono prospettive che vanno ben oltre le vicende della storia francese della “Francia libera”, della Quarta repubblica o della Quinta, di cui il generale fu fondatore. La politica di integrazione europea è certamente un ambito in cui il generale de G. ha lasciato delle tracce indelebili (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Fu con il consenso di de G. che si avviò la costruzione del mercato comune, fu nel decennio gollista che si concretizzò quell’asse franco-tedesco che, sia pure a fasi alterne, avrebbe “governato” il processo d’integrazione fino agli anni Novanta; fu sempre in quel decennio che si bloccò il processo d’integrazione politica e l’Allargamento della Comunità europea a nuovi paesi membri; e fu al termine della sua stagione politica che, con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS, tramontò definitivamente la prospettiva dell’Europa dall’Atlantico agli Urali sulla quale il generale aveva puntato con decisione.
La vita di de G. si intreccia con tutti i principali snodi del “secolo breve”: dalla Prima guerra mondiale, alla quale rimanda di continuo, fino alla caduta del comunismo, alla quale allude nella sua fase finale. Per educazione e formazione, la figura di de G. appare tuttavia legata più al secolo che gli diede gli albori, l’Ottocento, che a quello in cui si trovò a compiere la sua azione pubblica. Dal padre, professore di storia e letteratura, de G. ereditò il rigore, la disciplina, la devozione alla Chiesa cattolica e soprattutto un amore intransigente per il proprio paese, attitudini e sentimenti che si sarebbero consolidati negli anni trascorsi all’Accademia militare. De G. entrò a Saint-Cyr nel 1912, quando far parte dell’esercito francese era, a suo dire, «una delle cose più grandi del mondo». Il suo primo colonnello fu Pétain. Due anni dopo scoppiò la Prima guerra mondiale e le disfatte francesi lasciarono un’impronta indelebile nella sua mente, rivelandogli il valore del suo paese, indebolito da governi considerati «indegni» di esso. Ai traumi ereditati (Sédan) e a quelli patiti in prima persona, al fronte e poi come prigioniero in Germania durante la Grande guerra, si aggiunse infine il dramma dell’occupazione nazista, l’umiliazione della disfatta e dell’esilio londinese, che segnarono anche il momento in cui de G. decise di entrare in scena, «assumendo su di sé una grande controversia», come scrisse, citando Shakespeare in epigrafe a Le fil de l’épée.
Con l’appello ai connazionali del 18 giugno 1940, lo sconosciuto generale di brigata esortò i francesi a resistere, quindi a disobbedire alla resa firmata da Pétain, perché convinto che quella di Francia era soltanto una battaglia perduta, e che, essendo mondiale, la guerra poteva ancora essere vinta. de G. avrebbe affermato in seguito che quella fase eroica della sua esistenza fosse l’unica che valeva la pena di ricordare. Proprio per questo alle memorie del periodo di guerra de G. non consegnò solamente ambizioni letterarie, ma diede il valore di iniziativa politica. Al riguardo, vi è una pagina delle memorie di guerra – la prima – che deve essere letta e riletta se si vuole cogliere nella sua essenza la matrice ideale del gollismo: «Per tutta la mia vita ho avuto una certa idea della Francia: essa è ispirata dal sentimento e dalla ragione. Il mio lato sentimentale tende ad immaginare che la Francia, come la principessa nelle fiabe o la Madonna negli affreschi, sia votata ad un destino sublime ed eccezionale. Istintivamente, ho la sensazione che la Provvidenza l’abbia creata o per grandi vittorie o per sconfitte esemplari. Se, al contrario, i suoi atti si dimostrano mediocri, questo mi colpisce come un’assurda anomalia, da imputarsi agli errori dei francesi, non al genio della loro terra. Il lato razionale della mia mente mi assicura anch’esso che la Francia non è veramente se stessa altro che al primo posto; che solo imprese grandiose possono compensare i fermenti di divisione che il suo popolo porta con sé; che il nostro paese, quale è, fra gli altri, quali sono, deve puntare in alto e tenersi unito, pena la morte. Insomma, secondo me la Francia non può essere la Francia senza la “grandeur”» (v. de Gaulle, 1954, pp. 1-2).
La Francia, dunque, al primo posto e l’arena internazionale come luogo privilegiato nel quale affermare e ristabilire il primato francese, la grandeur. Il gollismo fu innanzitutto una dottrina della nazione, un complesso concettuale coerente e omogeneo nel quale si inseriva una certa idea della Francia e, di riflesso, anche dell’Europa, e delle forme politico-istituzionali che esse avrebbero dovuto esprimere. Punto di partenza era il primato dello Stato e della sua indipendenza, lo strumento attraverso il quale la nazione, intesa come realtà aprioristica che sfugge alla necessità di una definizione, avrebbe trovato la sua espressione politica più compiuta. Ne derivava la visione di uno scenario internazionale multipolare basato sul principio dell’equilibrio di potenza, in cui ogni soggetto era chiamato a svolgere il ruolo assegnatogli dalla storia, dalla geografia, dalla sua forza e dalla sua ambizione. Nel corso degli anni de G. avrebbe fornito quattro interpretazioni diverse del ruolo riservato alla Francia nel mondo delle nazioni del XX secolo: come portavoce di tutti “i galli, i latini e i teutoni”; come “grande potenza” indipendente, che pretende pari diritti nell’ambito di un direttorio occidentale, organizzato come asse Washington-Londra-Parigi; come leader naturale di un’Europa allargata dall’Atlantico agli Urali, arbitro tra Mosca e l’Occidente, e infine come portavoce del «pensiero di più di due miliardi di esseri umani» dei paesi del Terzo mondo. Il punto di incontro di questi quattro scenari sarà la prospettiva, inseguita da de G. sin dal tempo di guerra, di far riguadagnare alla Francia la sua supremazia sul vecchio continente.
«Intendevo assicurare alla Francia la supremazia sull’Europa occidentale, impedendo la nascita di un nuovo Reich che potesse nuovamente minacciare la sua sicurezza; cooperare con l’Oriente e l’Occidente e, se necessario, ridurre i legami con l’una o l’altra parte senza mai accettare alcun tipo di dipendenza; […] convincere gli Stati del Reno, delle Alpi e dei Pirenei a formare un blocco politico, economico e strategico; fare di questa organizzazione una delle tre grandi potenze mondiali e, eventualmente, l’arbitro tra il campo sovietico e quello angloamericano. Dal 1940 ogni mia parola e ogni mio gesto erano stati dedicati a creare queste possibilità: ora che la Francia era di nuovo in piedi, avrei cercato di realizzarle» (v. de Gaulle, 1959, pp. 872-873).
Al cospetto delle grandi Weltanschauungen del Novecento, delle due superpotenze emerse vincitrici dalla Seconda guerra mondiale e del correlato declino delle grandi potenze europee tradizionali, la dottrina della nazione propugnata da de G. apparirà sotto molti aspetti anacronistica, viziata da un’impostazione molto ideologica che lo avrebbe portato a non riconoscere una realtà di cui il generale era forse inconsciamente consapevole: l’impossibilità di far rivivere alla Francia, e indirettamente all’Europa, un passato glorioso che non sarebbe più ritornato. D’altra parte, in de G. questa impostazione ideologica si combinerà sempre con un approccio marcatamente realista alla politica internazionale, che non avrebbe tardato a manifestarsi. Bisognava infatti essere dotati di una straordinaria lungimiranza per immaginare nel pieno trionfo nazista che il conflitto in corso avrebbe potuto cambiare direzione. Nell’appello del 18 giugno non accennò apertamente all’eventualità che il prosieguo della guerra potesse condurre ad un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, né che l’Unione Sovietica potesse essere indotta a cambiare alleanze. In un discorso successivo a Radio Londra del 22 giugno 1940 fece, però, un chiaro riferimento a tali evenienze: «Questa guerra non è una guerra franco-tedesca che possa essere decisa da una battaglia. Questa è una guerra mondiale. […] Nessuno può prevedere se i popoli oggi neutrali lo saranno anche domani; né se gli alleati della Germania resteranno sempre suoi alleati» (v. de Gaulle, 1970, pp. 6-7).
Questa chiaroveggenza d’altro canto non implicò l’accettazione né del fatto che il conflitto conducesse ad un declino della nazione come elemento fondamentale dell’equilibrio internazionale, né della fine dell’eurocentrismo. In una lettera a Franklin Delano Roosevelt del 6 ottobre 1942, de G. ribadì che l’obiettivo prioritario era quello di restituire l’unità della Francia in guerra e, per questa via, reinserirla nel novero delle nazioni vincitrici. Il generale riteneva tale passaggio imprescindibile non solo per il futuro della sua nazione ma per il più complessivo ordine postbellico che, a suo modo di vedere, non avrebbe potuto fare a meno della presenza, al centro di un’Europa non diminuita nella sua importanza, di una grande Francia conciliata con se stessa (v. de Gaulle, 1997, pp. 45-52). Le idee del presidente americano Roosevelt si rivelarono tuttavia molto diverse, se non addirittura opposte a quelle del generale, sia in merito al futuro della Francia sia per quanto riguarda la sistemazione dell’Europa. Più precisamente, nei piani di Roosevelt per il dopoguerra vi era la volontà di sfruttare la contemporanea sconfitta di Germania e Francia per limitare il peso complessivo dell’Europa e delegare la gestione dei conflitti di quella parte del mondo agli inglesi e ai sovietici che, ottimisticamente, il presidente riteneva avrebbero cooperato all’edificazione di un mondo più integrato, innanzitutto economicamente. Proprio per questo Roosevelt e il Dipartimento di Stato si mostrarono pregiudizialmente ostili ad un movimento, come quello gollista, che si proponeva di “revisionare” la sconfitta francese del 1940 e di porre la Francia su un piede di parità con i tre grandi. Queste iniziali incomprensioni con gli Stati Uniti si coniugarono con la sottovalutazione dell’atteggiamento benevolo che il Regno Unito di Winston Churchill aveva riservato al suo paese: circostanza che spinse il generale a recuperare il rapporto con l’Unione Sovietica di Stalin che, tra l’altro, nella sua visione avrebbe potuto costituire un argine alla possibile rinascita di un pericolo tedesco. Per de G., pur di fronte a una Germania sconfitta, costretta alla resa senza condizione e occupata, il pericolo per la Francia rimaneva quello storico costituito dal dinamismo tedesco. Tutto ciò sfociò, nel 1944, nella firma di un nuovo trattato franco-russo e, nel 1945, nell’affidamento alla Francia di una zona di occupazione in Germania: due risultati che, sebbene mostreranno ben presto tutta la loro fragilità e incongruenza, sancirono in qualche modo il peso che la continuità esercitava nell’ambito della concezione gollista delle relazioni internazionali.
Pur tra mille difficoltà inaudite, la prima fase del gollismo, la stagione eroica che era stata inaugurata il 18 giugno del 1940, si presenta a posteriori come una fase di successi, nel corso della quale la riunificazione di una nazione lacerata procedette senza interruzioni. Essa si concluse nel gennaio del 1946, quando de G. si dimise da primo ministro, di fronte alla prospettiva di una normalità ritrovata.
La seconda stagione del gollismo prese avvio dalla convinzione che dagli esiti del conflitto mondiale non sarebbe potuto derivare un durevole equilibrio internazionale. Nell’analisi del generale, ritiratosi nel frattempo nella sua residenza di Colombey-les-Deux Eglises, tali esiti avevano soffocato ma non risolto lo scontro ideologico e di potenza tra i vincitori. A de G. parve che le democrazie liberali e l’Unione Sovietica, spinti ad allearsi dalla decisione della Germania di invadere l’URSS, avrebbero assai presto trasformato in lotta armata la Guerra fredda, della quale già nel 1946 egli aveva intravisto i prodromi. Da questa seconda profezia, e dalla correlata convinzione che una nuova emergenza mondiale era alle porte e alla quale la Francia non era preparata, sarebbe nato anche il secondo appello di de G. a riunire intorno a sé la nazione, che portò alla fondazione del Rassemblement du peuple français: un nuovo rassemblement per la salvezza della nazione che, nel momento del pericolo, avrebbe riunito tutti i francesi in uno schieramento trasversale, al di là della loro provenienza da differenti famiglie politiche spirituali. Da qui anche l’assunzione dell’anticomunismo come prioritaria esigenza nazionale: nel momento nel quale incombeva il rischio concreto di un’invasione di truppe sovietiche attestate «a meno di due tappe del Tour de France» dai confini della nazione, i comunisti interni sarebbero divenuti dei “separatisti”. Da queste analisi derivò con naturalezza, in politica estera, la scelta di «incollarsi agli americani». Questa opzione di fondo fu rafforzata dalla convinzione di de G. che non soltanto gli obiettivi finali, ma anche i contingenti interessi di politica estera di Stalin fossero pregiudizievoli per la Francia, sia sul continente sia in ambito coloniale. In particolare, egli considerò come le mire dell’Unione Sovietica sulla Germania avrebbero rappresentato una minaccia permanente sulla frontiera orientale della Francia, rafforzando le ragioni dell’inevitabile alleanza con gli anglosassoni. L’altra conseguenza inevitabile che la fase acuta della Guerra fredda ebbe sul pensiero di de G. riguardò la concezione dei rapporti franco-tedeschi. Quando il conflitto era ancora in corso, i piani gollisti per il dopoguerra erano stati ampiamente condizionati da una contrapposizione secolare e senza soluzione di continuità. A partire dal 1949, invece, de G. non soltanto giunse ad accettare l’eventualità di una presenza unitaria del popolo tedesco nell’ambito della ricostruzione postbellica dell’Europa; iniziò anche a pensare che quella presenza potesse risultare un fattore di equilibrio indispensabile, a causa dell’amputazione dell’Est provocata dai sovietici e dall’allontanamento della Gran Bretagna, a suo dire sempre più attirata dalla “massa” d’oltre Atlantico. Tale nuova disponibilità si manifestò anche nel modo nel quale de G. affrontò l’ipotesi del riarmo tedesco quando, dopo l’invasione della Corea del Sud ed il conseguente rischio che il conflitto finisse per coinvolgere il teatro europeo, questo problema si fece non più eludibile. Nel settembre del 1950, quando gli americani posero la soluzione della questione del riarmo tedesco come esplicita condizione per accogliere la richiesta degli alleati europei di finanziare il loro riarmo ed il loro correlato sforzo di dare vita ad un’organizzazione militare integrata, de G. si rese conto della ragionevolezza della prospettiva. Il 21 ottobre 1950 dichiarò: «Ad una Francia stabile e forte in un’Europa organizzata e della quale essa rappresenti il centro, l’eventuale partecipazione di contingenti tedesco-occidentali alla battaglia interalleata dell’Elba non potrà apparire allarmante» (v. de Gaulle, Discours et Messages. Dans l’attente: février 1946-avril 1958, 1970, pp. 304-310).
La proposta gollista in merito all’unificazione europea si precisò, tuttavia, solamente allorché sulla scena del dibattito politico fecero irruzione le prime organizzazioni di cooperazione economica europea. Nel 1951, di fronte alla Costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), fu definita l’alternativa netta tra un’Europa delle nazioni in un quadro confederale e l’idea di un’Europa sovranazionale ritenuta inevitabilmente egemonizzata dai tecnocrati e, per di più ispirata direttamente dagli anglosassoni per il loro prevalente vantaggio. Questa contrapposizione avrebbe assunto tratti ancora più marcati negli anni successivi, allorché con il progetto della Comunità europea di difesa (CED) i tentativi di costruzione dell’Europa sconfinarono dalla sfera economica verso la dimensione più alta della politica. Non a caso, in una lettera scritta nel marzo 1954, proprio alla vigilia della battaglia finale sull’esercito europeo, il generale contrappose in maniera inconciliabile due differenti idee di Europa: «Io sono – per primo – convinto della necessità dell’unità europea. Perché vi sia un’unione bisogna che l’istituzione abbia un’anima, un corpo e delle membra. Non si può costruire l’Europa se non a partire dalle nazioni. Quanti tentano – invano spero – di fabbricare la CED impediscono di fare l’Europa, così come la caricatura si oppone al ritratto» (v. de Gaulle, 1985, p. 188).
De G. si mostrò, dunque, apertamente ostile non all’integrazione europea, della cui necessità era convinto, ma all’Europa federale, apolide come la definì, cioè senza l’anima rappresentata dalle nazioni. Per un nazionalista come lui era inaccettabile la riduzione della sovranità nazionale prevista dal progetto federalista (v. Federalismo). Quando la lotta alla CED divenne la prima preoccupazione di de G., quest’opzione non giunse soltanto a consolidare un’ideale di unità europea. Essa comportò anche la definitiva riconsiderazione del ruolo degli Stati Uniti e dell’Alleanza atlantica nell’equilibrio mondiale. Ai suoi occhi il trattato del 27 maggio 1952 che istituiva la CED, prevedendo che gli eserciti degli Stati membri, raggruppati in divisioni, fossero di fatto posti sotto il comando militare integrato dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), avrebbe costituito un vero e proprio attentato alla sovranità nazionale. A differenza di altri gollisti, de G. fece però ben attenzione a tenere distinta la sua posizione da quella dei comunisti e a non eccedere nella deriva antiamericana. L’opposizione di de G. alla CED si inseriva, infatti, in un disegno più ampio che si proponeva già all’epoca di ridefinire i rapporti all’interno della NATO in modo che questa risultasse «una buona alleanza, non un cattivo protettorato». L’archiviazione della fase più acuta della Guerra fredda ebbe, d’altra parte, l’effetto di spostare sempre più l’attenzione di de G. dalla ricerca di un equilibrio all’interno del blocco occidentale al ruolo autonomo d’equilibrio che l’Europa avrebbe potuto giocare tra i due blocchi contrapposti. L’asse angloamericano doveva trovare un bilanciamento nell’Europa continentale sotto guida francese, dalla cui integrazione doveva restare esclusa l’Inghilterra. Questa è anche una delle ragioni fondamentali per la quale de G. nel 1958, nonostante avesse criticato dall’isolamento nell’eremo di Colombey tutti i passaggi dell’incipiente integrazione europea, deciderà di non opporsi all’attuazione dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA).
La firma dei Trattati di Roma avvenne in un periodo in cui il generale, ritiratosi dalla scena politica, aveva deciso di trincerarsi nel silenzio. Malgrado il riserbo, tuttavia, nel maggio 1958 all’estero, così nella stessa Francia, era opinione diffusa che, se mai fosse ritornato al potere, il generale non avrebbe esitato ad affossare la neonata Comunità economica europea. Questa profezia non solo si sarebbe rivelata errata, ma sarebbe stata addirittura capovolta allorché le misure prese da de G. resero non più necessario il prospettato ricorso alle clausole di salvaguardia. Il nodo è cruciale. Raymond Aron, nell’affrontarlo, evidenziò l’imprevedibilità del processo storico laddove, per il suo autorevole giudizio, i trattati non avrebbero mai visto la luce se nel 1957 fosse stato al potere il generale ma, d’altra parte, non sarebbero mai decollati se nel 1958 non fosse crollata la Quarta repubblica. Sulle ragioni che indussero de G. a sostenere l’esperimento della Comunità economica europea, e forse addirittura a evitare alla nuova organizzazione comunitaria una crisi prematura, bisogna continuamente ritornare, se si vuol capire l’atteggiamento complessivo del generale nei riguardi dell’unificazione europea. Alla base vi fu innanzitutto la considerazione che l’Europa di Roma per la sua maggiore aderenza alla realtà degli Stati nazionali rispetto a quanto previsto dalla CECA e dalla CED, avrebbe potuto rappresentare, a certe condizioni, uno strumento utile alla strategia gollista. In particolare, oltre alle perplessità legate ad un’eventuale revoca di vincoli internazionali contratti nel periodo precedente, nel generale si era fatta strada la convinzione che attraverso la Comunità economica europea la Francia avrebbe potuto imboccare la via della modernizzazione. L’importanza che in questo contesto rivestì il piano di politica economica elaborato dal comitato presieduto da Jacques Rueff è ben resa dal commento riservatogli da de G. nelle sue memorie: «È una rivoluzione! Il piano ci consiglia, in realtà, di far uscire la Francia dal vecchio protezionismo, praticato da un secolo […] Ho fatto in modo che la preparazione e l’esecuzione del Piano assumano un rilievo che prima non avevano, dandogli un carattere di ardente obbligo» (v. de Gaulle, Mémoires d’espoir. Le Renouveau: 1958-1962, 1970, p. 143].
L’avvio del Mercato comune avrebbe potuto consentire alla Francia di contare su un ammortizzatore istituzionale che avrebbe potuto limitare i rischi nel momento in cui essa sceglieva di rituffarsi nella concorrenza internazionale. Inoltre, avrebbe fatto convivere il nuovo indirizzo liberistico con la possibilità di scaricare anche sulle spalle dei partner europei le sue eccedenze nel settore agricolo, che rappresentavano un problema tipico dell’economia francese. Il diniego inglese lasciava, infine, intravedere la possibilità di poter trasformare una scelta comunque dolorosa in un’opportunità per conquistare l’agognata centralità europea. De G. perse invece rapidamente interesse nei confronti dell’Euratom, perché egli mirava alla realizzazione di un deterrente nucleare indipendente, nonché, più in generale a un’utilizzazione dell’energia atomica in un ambito nazionale. Al riguardo, va però ricordato che già nell’aprile 1957 la Francia aveva deciso di proseguire l’attuazione del programma di costruzione delle armi nucleari, laddove il piano di ammodernamento dell’esercito avviato dal governo socialista nel febbraio 1958 era andato ancora più lontano, prevedendo che la Francia si dotasse di una forza d’urto equipaggiata con aerei Mirage IV e in seguito con missili di media gittata di fornitura americana ma dotati di testate nucleari francesi. In tal senso, de G. non sconfessò, eccezione fatta per alcuni progetti di cooperazione con Germania, Italia e Israele, le decisioni prese dai governi della IV Repubblica, bensì riprese e accentuò, con il rilancio del progetto della force de frappe, linee di politica precedenti.
Per qualche tempo, comunque, anche la Comunità economica europea e i suoi sviluppi non furono al centro degli interessi del generale, il quale riteneva che la Francia potesse conseguire la posizione internazionale, che a suo giudizio le spettava, soprattutto nel quadro atlantico. A soli pochi mesi dal suo ritorno al potere, de G. diede così inizio a una campagna volta a revisionare i rapporti interni all’Alleanza atlantica, attraverso un memorandum inviato al presidente americano Dwight David Eisenhower e al primo ministro britannico Harold Macmillan. Nel documento si prendeva atto dell’evoluzione della Guerra fredda nell’ultimo decennio. In particolare, la prospettiva di uno scontro decisivo con l’URSS era ritenuta ormai tramontata, tanto da imporre in tempi più o meno brevi l’inaugurarsi di una fase di distensione internazionale. Da questa analisi si derivava l’enunciazione di tre obiettivi principali: una riforma della NATO che trasformasse il Patto atlantico nello strumento di elaborazione di una strategia occidentale di carattere globale, la formazione all’interno dell’alleanza di un direttorio di cui avrebbero dovuto far parte gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e – ovviamente – la Francia, la messa in discussione dell’integrazione militare e del monopolio atomico americano. Sino al 1960, il presidente francese contò sul raggiungimento di questi obiettivi, pur non trascurando di instaurare buoni rapporti con la Repubblica Federale Tedesca. In particolare, il 14 settembre 1958, a Colombey-les-Deux-Eglises, ebbe luogo l’incontro tra de G. e il cancelliere tedesco. Fu la prima volta che un uomo di Stato straniero in visita ufficiale violava l’intimità della Boisserie. A detta dell’ambasciatore francese a Bonn, François Seydoux, de G. faceva espresso affidamento su alcuni motivi biografici che lo avvicinavano a Konrad Adenauer: i due appartenevano alla medesima generazione e, anche per questo, avevano modi simili di concepire l’arte del governo, portato di una formazione che aveva attinto a fonti culturali e spirituali non troppo diverse. I risultati del vertice furono all’altezza della novità. Nonostante Adenauer non condividesse per intero il progetto gollista di promuovere una riforma radicale della NATO e delle Comunità europee, il cancelliere si mostrò ricettivo rispetto all’ipotesi di creare in Europa un nucleo di potere decisionale attorno al quale fare avanzare una nuova politica d’integrazione europea.
L’apertura verso la Germania e l’offensiva revisionista all’interno della NATO appaiono come iniziative per più versi complementari. Esse risposero, in primo luogo, al convincimento di de G. che l’obiettivo della Francia doveva essere quello di acquisire una posizione di centralità sul continente, dalla quale trarre le risorse necessarie per contrastare l’egemonia mondiale degli angloamericani. In tale prospettiva, giocare contemporaneamente su due tavoli – l’asse franco-tedesco e il revisionismo atlantico – avrebbe creato una rendita di posizione diplomatica da poter spendere, all’occorrenza, su entrambi i fronti. In particolare, la creazione di un’asse con la Germania in vista della costruzione di un’Europa politica avrebbe potuto rafforzare la richiesta di una modifica degli equilibri interni all’Alleanza atlantica. La coincidenza delle iniziative, inoltre, avrebbe reso più difficile la possibilità che si saldasse un fronte ostile in grado di isolare la Francia. Non casualmente, le due iniziative di de G. furono recepite in modi differenti dai principali alleati: mentre Stati Uniti e Italia si preoccuparono per entrambe, la Germania coinvolta direttamente nella prima, non vide di buon occhio la seconda; l’Inghilterra, al contrario, guardò con preoccupazione all’incontro tra il generale e Adenauer, ma con interesse alle prospettive aperte dal memorandum.
Per dispiegare la sua offensiva diplomatica europea de G. attese la ripresa delle tensioni internazionali, al fine di cogliere le opportunità che questo contesto, malgrado tutto, avrebbe potuto offrirgli. Il momento propizio giunse con la Conferenza di Parigi del maggio 1960, il cui fallimento sancì la fine dell’illusione, che era stata alimentata dall’incontro di Camp David del settembre 1959, di poter raggiungere un’intesa con i sovietici sul problema tedesco e indirettamente una vittoria della linea della fermezza sostenuta da de G. nel corso della crisi di Berlino. L’occasione fu espressamente cercata dal generale, il quale alla vigilia della conferenza di Parigi e successivamente con una lettera inviata il 18 luglio 1960 sollecitò un incontro che facesse piena luce su come fare avanzare il processo d’integrazione europea. Nel corso dell’incontro di Rambouillet del 29 e 30 luglio 1960 de G. illustrò al cancelliere Konrad Adenauer i contorni e i risvolti politico-strategici del suo progetto di riforma delle Comunità europee con una ricchezza di dettagli che non aveva mai fornito fino a quel momento. Con una “note au sujet de l’Europe”, de G. delineò l’idea di un’Europa confederale, che si sarebbe dovuta realizzare, a partire dalla costituzione di un’unione franco-tedesca aperta inizialmente solo ai paesi del Benelux e all’Italia, attraverso periodiche consultazioni al vertice tra i capi di Stato e di governo dei Sei paesi membri, una riforma degli organi comunitari volta a riassorbire le loro virtualità federali e la correlata istituzione di commissioni permanenti incaricate di preparare le riunioni ministeriali nei settori della politica, dell’economia, della cultura e della difesa. La vera novità fu data dalla chiarezza espositiva con cui de G. da un lato collegò la proposta di riassetto delle Comunità europee con l’esigenza di riformare la NATO e dall’altro accentuò il carattere esclusivo dell’accordo franco-tedesco.
Al cospetto delle riserve e delle accese polemiche che le indiscrezioni trapelate dal vertice avevano suscitato in Germania, la Francia di de G. fu tuttavia costretta a ripiegare su quella che Peyrefitte definì «una strategia dei piccoli passi». Tale ripiegamento su una linea più conciliante rappresentò, d’altra parte, una condizione necessaria affinché fosse possibile avviare le trattative per un’unione politica non solo con la Repubblica federale, ma anche e soprattutto con i paesi membri più piccoli, chiaramente filoatlantici ed essenzialmente contrari a una riforma strutturale delle Comunità europee. L’accordo tra i Sei sulla procedura fu raggiunto nel corso di due conferenze che si svolsero a Parigi e a Bonn, rispettivamente nel febbraio e nel luglio 1961: una commissione intergovernativa, presieduta dall’ex ambasciatore francese a Copenhagen Christian Fouchet, fu incaricata di elaborare una proposta di trattato (v. Piano Fouchet). Sin da principio emersero posizioni molto diverse tra loro sulle questioni riguardanti il ruolo internazionale dell’Europa e il suo legame con la NATO, l’assetto istituzionale della futura unione politica e il suo rapporto con le strutture comunitarie già esistenti. E ben presto le divergenze si intrecciarono, e in parte si sovrapposero, con un’altra grande questione, che nel medio termine avrebbe rappresentato un vero e proprio ostacolo al raggiungimento di un accordo sull’unione politica: la richiesta dei britannici di essere associati ai negoziati per un’unione politica ancora prima di essere ammessi al Mercato comune. Nel suo travagliato iter vi fu, però, un momento – alla fine del 1961 – nel quale il Piano Fouchet, adeguatamente rivisitato e reso compatibile con una politica atlantica, fu a un passo dall’approvazione. Fu de G. a sprecare l’occasione, estremizzando le richieste francesi nel Consiglio dei ministri del 17 gennaio 1962. Con ciò dimostrò che, nella prospettiva di un revisionismo atlantico, la costruzione di un’Europa politica, nella quale tra l’altro la Francia avrebbe mantenuto un ruolo centrale ma non egemone, era per lui meno importante dell’illusione di un asse franco-tedesco indipendente dall’influenza anglosassone. Una credibile politica di revisionismo atlantico, inoltre, non avrebbe potuto fare a meno di costruire un rapporto forte con la Gran Bretagna, che d’altro canto, si sarebbe posta in continuità con la storia di lunga durata della diplomazia francese. Su questo piano, invece, la chiusura del generale fu totale. Dopo aver rifiutato agli inglesi ogni concessione sulla zona di libero scambio, de G. fu intransigente anche per quanto concerne l’ipotesi del loro ingresso nel Mercato comune, perdendo così un potenziale alleato nella battaglia per depurare l’Europa da supposti «virtuosismi sovranazionali»; e rinunziò sostanzialmente ad una strategia nucleare integrata nella prospettiva di un confronto con gli Stati Uniti. Da tali atteggiamenti sarebbero derivati un cambiamento delle alleanze storiche della Francia, un suo maggiore isolamento in Europa, il tramonto della politica del revisionismo atlantico. Gli atti conclusivi di questo processo si compirono tra il dicembre 1962 ed il gennaio 1963. In particolare, il 15 e 16 dicembre 1962 si svolse, nuovamente a Rambouillet, un incontro questa volta tra de G. e Macmillan, dal quale sembrò emergere una sostanziale identità di vedute, in particolare in merito all’indipendenza nucleare dei due Paesi dagli Stati Uniti e alla trasformazione interna della NATO. I risultati raggiunti in quella riunione, però, secondo de G., sarebbero stati smentiti subito a Nassau, in occasione dell’incontro angloamericano. John Kennedy e Macmillan si accordarono sulla creazione di una forza multinazionale della NATO e sulla fornitura di missili Polaris americani per armare i sottomarini britannici, che sarebbero entrati a far parte della forza multinazionale. Il generale interpretò tale proposta e la richiesta di ingresso dell’Inghilterra nella CEE come due aspetti complementari di un’unica strategia tendente a rafforzare l’egemonia americana sul continente. Reagì da par suo con la nota conferenza stampa del 14 gennaio 1963, nella quale attribuì esplicitamente agli accordi di Nassau la responsabilità della rottura delle trattative con la Gran Bretagna per la sua ammissione nella CEE. Rifiutando qualsiasi discussione nel merito, de G. mostrò la volontà di puntare, in realtà, a un’altra politica. Questa si sarebbe manifestata di lì a poco con il Trattato dell’Eliseo, che fu sottoposto il 22 gennaio 1963 a Parigi da de G. e Adenauer, e che regolava una vera e propria intesa franco-tedesca costruita sulla base di consultazioni regolari e della creazione di commissioni speciali negli ambiti della cooperazione, della difesa, dell’educazione e della cultura. L’accordo, con ogni evidenza, si poneva in continuità con le conclusioni della clamorosa conferenza stampa di pochi giorni prima. de G., ormai libero dall’ipoteca algerina e ben saldo alla testa del riformato Stato francese, liquidò definitivamente il revisionismo atlantico e gli contrappose un accordo interstatuale con la Germania, in vista della costruzione di un’Europa che potesse favorire la crisi dei blocchi. Proprio in questa contrapposizione, però, risiedeva tutta la velleità del suo disegno. Solo in seguito de G. avrebbe compreso che un accordo con la Germania sulle linee di politica estera da lui ricercate sarebbe stato possibile unicamente in un quadro bilaterale, in quanto i tedeschi, al di fuori di quest’ipotesi, avrebbero inevitabilmente sentito il richiamo dell’integrazione atlantica. Questa constatazione, però, avrebbe dovuto convincerlo che la costruzione dell’asse poteva significare qualcosa per la Francia esclusivamente in una cornice comunitaria e in un’ottica revisionista. Al di fuori di queste coordinate esso sarebbe stato destinato a fallire, surclassato dalla forza di attrazione esercitata dagli Stati Uniti. È quanto accadde con il Trattato dell’Eliseo, anche prima di quel che si potesse immaginare. Il 16 maggio 1963, al momento della ratifica del trattato, il Bundestag approvò un preambolo che sottomettendo quel documento alla riconferma degli impegni imposti dall’Alleanza atlantica, decretò la sconfitta della linea dell’asse privilegiato Parigi-Bonn nella prospettiva gollista.
Il 1963 è comunemente considerato come un momento di svolta nella politica estera gollista. Se ricondotta entro limiti che non implichino la messa in discussione degli orientamenti di fondo, la cesura è indubbia. Da quel momento, risolti i problemi interni e messa fine alla guerra d’Algeria, il generale ebbe le “mani libere” per applicare con minori condizionamenti la sua politica estera. Questa nuova condizione si rifletté in alcune evidenti inflessioni della strategia diplomatica francese. In primo luogo fu progressivamente esasperato l’antagonismo nei confronti della presunta egemonia americana, manifestato sul terreno della politica nucleare, delle strategie della sicurezza e della finanza internazionale. Questa ostilità comportò il rifiuto di ogni politica di limitazione degli armamenti che potesse consolidare la supremazia dei due “grandi”, nonché l’opposizione a strategie d’integrazione nel campo della difesa, con la conseguente priorità assegnata al programma nazionale di sviluppo nucleare. Essa toccò il suo vertice nella decisione del 1966 di fuoriuscire dalla NATO, sostituendo la partecipazione con un accordo di cooperazione in caso di guerra. Inoltre, la sostanziale sconfitta dell’asse franco-tedesco spinse la Francia a distaccarsi maggiormente dalla costruzione dell’unità europea. In questo ambito si verificò una situazione di “stallo”. La Francia restò legata all’idea dell’Europa dei Sei intesa come confederazione, esprimendo una correlata opposizione all’accrescersi dei poteri della Commissione europea e alla prospettiva di rafforzare il processo unitario ricorrendo ad elezioni popolari. D’altro canto, si adoperò concretamente per rendere effettiva la cooperazione, in particolare, nel campo dell’agricoltura. È dall’intreccio tra questi due aspetti della politica europea gollista che scaturì nel 1965 una delle più gravi crisi della storia della Comunità europea, anche nota come “crisi della sedia vuota”. Ben conoscendo l’interesse della Francia nei riguardi della Politica agricola comune (PAC), la Commissione presieduta da Walter Hallstein, anziché limitarsi, come richiesto da Parigi, a predisporre un regolamento sul finanziamento della PAC che valesse fino alla fine del periodo transitorio della Comunità europea, propose di sostituire i contributi nazionali forfettari con i proventi dei diritti doganali e dei prelievi agricoli, di modo che il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) potesse gradualmente essere finanziato con risorse proprie; l’autonomia finanziaria avrebbe inoltre comportato un accrescimento dei poteri di controllo del Parlamento europeo. La strategia perseguita dalla Commissione europea si dimostrò, tuttavia, condizionata da un’errata valutazione di alcuni elementi strutturali e contingenti del quadro diplomatico. Da un lato, non venne tenuta in debita considerazione la portata degli interessi in gioco e soprattutto la diversa gerarchia delle priorità che era alla base delle posizioni negoziali degli altri paesi membri, dall’altro lato venne data eccessiva importanza alle pressioni che la Francia avrebbe dovuto sostenere in vista del rinnovo elettorale del mandato presidenziale. Fu così che invece di cedere al ricatto, de G. decise di alzare il livello dello scontro, trasformando il contrasto sul finanziamento della PAC in uno scontro politico-istituzionale, finalizzato a ridimensionare il ruolo dei «tecnocrati senza patria» della Commissione europea e a impedire il passaggio al voto della Maggioranza qualificata previsto a partire dal 1° gennaio 1966. Il culmine della crisi fu raggiunto nel luglio 1965, allorché il generale ordinò al proprio rappresentante permanente, Jean-Marie Boegner, di rientrare a Parigi e ai ministri del Consiglio e ai membri della Commissione di astenersi dalle sedute comunitarie. Non era la prima volta che de G. decideva di violare apertamente le regole del cosiddetto metodo comunitario, ma mai fino a quel momento la sua minaccia di sabotare il funzionamento della macchina aveva assunto delle forme così concrete. Si avviò così un periodo burrascoso per la Comunità europea, segnato da un generale deterioramento nelle relazioni comunitarie. Riconfermato al potere, sia pure al secondo turno e con solo il 55% delle preferenze, dopo due mesi di assenza nel settembre 1965 de G. cominciò a dettare le condizioni per il ritorno della Francia nelle istituzioni, chiedendo, oltre all’approvazione di un regolamento finanziario per il periodo 1965-1970, da un lato di salvaguardare il diritto di veto dei paesi membri sulle questioni di importanza vitale (v. anche Voto all’unanimità), dall’altro lato un ridimensionamento sostanziale della Commissione europea. La crisi rientrò soltanto alla fine del gennaio 1966, quando il governo francese accettò di incontrare in due riunioni straordinarie a livello ministeriale i rappresentanti degli altri cinque paesi membri. Le riunioni si svolsero dal 17 al 18 e dal 28 al 30 gennaio 1966 a Lussemburgo, poiché de G. aveva posto come condizione di negoziare lontano da Bruxelles. Gli incontri sancirono quello che sarebbe stato definito come Compromesso di Lussemburgo, ovvero un “accordo sul disaccordo”. Fu soprattutto la Commissione a uscire sconfitta dalla crisi della sedia vuota, come dimostrato dall’intesa raggiunta su un codice di condotta, che se non pregiudicava l’autonomia della Commissione, ne circoscriveva il monopolio d’iniziativa, e dalla rapida uscita di scena di Walter Hallstein. D’altra parte, neanche de G. riuscì a far valere pienamente il proprio punto di vista dinanzi all’indisponibilità degli altri partner europei a modificare la lettera del trattato sulla questione della procedura di voto nel Consiglio dei ministri. Su questo punto la dichiarazione finale non fece altro che mettere agli atti l’esistenza di una interpretazione discordante tra i cinque e la Francia, la quale riteneva che in presenza di interessi molti importanti si dovesse trattare fino al raggiungimento di un accordo unanime, anche quando il trattato prevedeva il criterio della maggioranza. Tutte e sei le delegazioni convennero, però, che tale divergenza non avrebbe dovuto impedire la normale ripresa dei lavori, a dimostrazione del fatto che nessuno, nemmeno la Francia gollista, era realmente disposto a mettere a repentaglio quel reticolo di interessi comuni che si era sviluppato a partire dalla fine degli anni Quaranta.
Ben presto l’attenzione comunitaria si focalizzò su una altra questione che era stata solo temporaneamente accantonata: la partecipazione inglese alla Comunità europea. Anche questa volta chi sperò in un ammorbidimento della posizione di de G. restò deluso. L’opposizione alla richiesta d’adesione dell’Inghilterra venne replicata, anche se con una maggiore attenzione alla forma e qualche apertura in più. D’altra parte, se il rifiuto fu meno drastico, dettato più da presunte incompatibilità economiche che da ragioni politiche, ciò si deve anche al fatto che l’America di Lyndon Johnson, impantanata nella guerra del Vietnam, decise di non appoggiare apertamente la richiesta inglese come aveva fatto Kennedy con Macmillan. L’Europa, però, non uscì dall’orizzonte principale della proposta gollista. Essa fu recuperata nell’ambito di una strategia su scala mondiale, che de G. avrebbe privilegiato, soprattutto a partire dal 1965 quando, dopo la riconferma popolare all’Eliseo, il sentimento dell’approssimarsi della fine della sua vicenda politica lo spinse sempre più spesso a ricercare “eventi di fondazione”, destinati nelle sue intenzioni a lasciare una traccia. Da questa propensione derivarono alcuni dei suoi più discutibili atti di politica estera, come il discorso di Montreal sul Quebéc libero del 24 luglio 1967 o la conferenza stampa su Israele del 27 novembre 1967, ma anche la costante attenzione a declinarli all’interno di una prospettiva mondiale. In particolare, in questo contesto vanno ricordati il grande interesse per il Terzo Mondo, l’opposizione incessante e crescente al conflitto in Vietnam, la sorprendente apertura verso la Cina comunista, la definitiva inversione di tendenza della strategia francese in Medio Oriente con l’abbandono del rapporto privilegiato che aveva storicamente legato la Francia a Israele, l’assunzione di un orientamento filoarabo e, infine, una nuova apertura verso l’Unione Sovietica e i paesi dell’Est. In questo quadro si colloca la ricerca gollista di un’Europa che, secondo la formula, si sarebbe dovuta estendere dall’Atlantico agli Urali, e che fu il vettore principale della politica di distensione inaugurata e portata avanti dal presidente francese nella seconda metà degli anni Sessanta. L’atto che consacrò questa prospettiva fu il viaggio di de G. a Mosca al quale il presidente intese dare il risalto e la rilevanza di un momento di fondazione di una nuova fase per il continente. In de G. vi era l’intenzione di sfruttare l’indebolimento di Mosca per proporre una strategia di distensione che avrebbe dovuto portare l’URSS a liberalizzare il suo regime e, soprattutto, ad allentare progressivamente i vincoli imposti ai paesi europei appartenenti alla sua sfera d’influenza. Inoltre, de G. auspicava di poter avere un ruolo decisivo nel convincere Mosca a prendere in considerazione l’ipotesi di un riavvicinamento alla Germania occidentale. In tal modo, si sarebbero potute porre le premesse per la costruzione di una grande unione europea delle nazioni, in un mondo divenuto ormai multipolare. de G. che aveva sempre sottovalutato l’importanza del vincolo ideologico nel campo comunista, era convinto che i paesi dell’Est potessero emanciparsi dall’Unione Sovietica senza strappi, attraverso un processo d’accrescimento dell’indipendenza regolare e continuo. Dal punto di vista degli equilibri europei, il generale giunse a prefigurare la riedizione di una “piccola intesa” – l’unione dei paesi dell’Europa centro orientale, formatasi tra le due guerre con la Francia come potenza di riferimento – che mettesse Mosca di fronte al fatto compiuto. In una prospettiva storica più ravvicinata, ritenne che le nuove contingenze avrebbero reso possibile l’avanzamento del processo d’aggregazione ed emancipazione dei paesi del blocco dell’Est, per scongiurare il quale Stalin nel 1948 era giunto alla rottura con Tito. In quest’ottica la Francia gollista, parallelamente al disgelo con URSS, compì un eccezionale sforzo diplomatico in direzione dei paesi dell’Europa orientale. Per de G., Polonia e Romania furono anche mete di visite di stato, rispettivamente nel 1966 e nel 1968. Per comprendere l’importanza fondamentale che il generale attribuì a questi viaggi basti pensare che la visita in Romania si svolse dal 14 al 18 maggio 1968, quando era già in pieno svolgimento la crisi del maggio francese. Il bilancio politico di quest’offensiva diplomatica fu a lungo limitato.
Nondimeno ancora una volta de G. dimostrò di essere un uomo dotato di una straordinaria lungimiranza, al limite della chiaroveggenza. In un contesto che molto probabilmente non avrebbe amato, la sua Europa dall’Atlantico agli Urali, oggi più di ieri, appare all’ordine del giorno.
Gaetano Quagliariello (2012)
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