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Defferre, Gaston

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D. (Marsillargues 1910-Marsiglia 1986) trascorre parte della sua infanzia a Dakar, in Senegal, dove inizia anche i suoi studi. Avvocato al foro di Marsiglia, nel 1933 aderisce alla Section française de l’Internationale ouvrière (SFIO) nel 1936 diventa segretario della seconda sezione marsigliese. Il suo impegno nella Resistenza a capo della rete Brutus e l’azione svolta per la ricostituzione clandestina del Partito socialista gli valgono, dopo la Liberazione, la presidenza del Consiglio municipale di Marsiglia fino al 1945 e l’ingresso nel comitato direttivo della SFIO; prende parte contemporaneamente all’Assemblea consultiva. Dopo essere diventato editore, nel gennaio 1946 è segretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri incaricato dell’informazione nel governo Gouin. Poi siede sui banchi dell’Assemblea nazionale, dove si iscrive alla commissione dei Territori d’oltremare (TOM). È rieletto fino al 1958, è sindaco di Marsiglia dal 1953 e a quattro riprese ricopre funzioni ministeriali.

Il suo interesse per le questioni europee si manifesta a partire dal 1949. Come specialista degli affari d’oltremare aderisce al Mouvement socialiste pour les Etats Unis d’Europe, al Conseil français pour l’Europe unie e al Comité français du Mouvement européen (v. Movimento europeo), ai quali integra le commissioni dei TOM (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea). Si preoccupa di non lasciare in disparte nel processo di costruzione europea i territori che hanno svolto un ruolo capitale durante la guerra, sottolinea l’interesse economico di mettere in comune le loro risorse per un’Europa che vuole esistere in un mondo ormai dominato dai grandi insiemi geografici.

I dibattiti sulla Comunità europea di difesa (CED) a partire dal 1950 e poi sulla creazione di una Comunità politica europea (CPE) pongono il problema dei territori extrametropolitani in maniera più concreta. Questi ultimi sono esclusi sia dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che dalla CED. D., pur essendo favorevole al trattato, non nasconde la sua preoccupazione di fronte ai problemi che il testo solleva per la difesa dei Territori d’oltremare e la coesione dell’Union française. Tuttavia vede nella CPE che si sta progettando il mezzo per rimediare a queste lacune. Quindi il 17 novembre 1953, all’Assemblea nazionale, parla a favore della creazione di un’autorità politica europea sopranazionale, con competenze in un primo tempo limitate alla CECA e alla CED alle quali andrebbero integrati i TOM. Il desiderio di dare la possibilità alla Gran Bretagna (v. Regno Unito) di integrarsi all’Europa non è estraneo a questa soluzione intermedia, a metà fra un’adesione della sola metropoli, suscettibile di provocare agitazioni politiche e di mettere in pericolo la coesione della zona franca che D. considera l’unica vera ossatura dell’insieme francese, e un’integrazione dei TOM in un’Europa sovranazionale che rovinerebbe la loro economia esponendoli alla concorrenza degli europei.

La questione resta aperta, soppiantata dal dibattito sulla ratifica del Trattato della CED al quale D. partecipa attivamente. Nella commissione dei Territori d’oltremare si adopera per coinvolgere coloro che sono preoccupati per l’esclusione dei TOM dal Trattato: è relatore del progetto di legge diretto a modificare il Trattato e il 12 agosto 1954 dà parere favorevole, ma al tempo stesso chiede che i TOM siano parte ricevente di qualsiasi nuova integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Non riesce a convincere una commissione che in maggioranza è contraria alla CED, ma riesce a farla convergere su una proposta di risoluzione che impegna il governo ad attuare una vera e propria politica di difesa dell’Union française parallelamente alla CED. Il voto preliminare del 30 agosto 1954 all’Assemblea nazionale gli impedisce di pronunciare un discorso in cui metteva in guardia il governo contro la tentazione di approfittare della costruzione europea per abbandonare l’oltremare francese. Tuttavia tenta fino all’ultimo di evitare le divisioni all’interno della SFIO: sostenitore intransigente dell’unità di voto, sottolinea instancabilmente che l’alternativa non riguarda il riarmo della Germania ma l’autonomia dell’esercito tedesco. È consapevole dell’impossibilità per la Francia di restare isolata ed è favorevole alla ripresa di una politica d’intesa europea che includa la Gran Bretagna, quindi aderisce agli accordi di Parigi dell’ottobre 1954 ma deplora la marcia indietro sulla sovranazionalità e la porta aperta al riarmo autonomo della Germania.

Il fallimento della CED rinsalda la sua convinzione sulla necessità di tener conto delle ripercussioni della costruzione europea sull’oltremare e di associare alle discussioni i rappresentanti di questi territori. Dopo essere diventato ministro della Francia l’oltremare nel governo di Guy Alcide Mollet nel gennaio 1956, i negoziati per i trattati della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e del Mercato comune (v. Comunità economica europea; Trattati di Roma) gli offrono l’occasione per ribadire questa esigenza, tanto più che vede la possibilità di concretizzare l’idea di Eurafrica e di evitare, grazie all’Europa, una rottura totale con i territori che procedono ineluttabilmente verso l’indipendenza, preservandoli al tempo stesso da influenze extraeuropee. Quindi ritiene che la legge quadro per l’oltremare del 23 giugno 1956, che porta pacificamente questi territori all’autonomia, e l’integrazione europea debbano completarsi e non intralciarsi.

Per queste ragioni, se in un primo tempo Euratom attira la sua attenzione, dopo la pubblicazione del rapporto che porta il nome di Paul-Henri-Charles Spaak l’interesse di D. si sposta verso il Mercato comune (v. Comunità economica europea). Il 17 maggio 1956, in una lettera al Presidente del Consiglio Mollet, il ministro prende posizione a favore dell’ammissione dei TOM nel Mercato comune, con l’integrazione di clausole legate al loro stato di sottosviluppo, la cui accettazione deve condizionare l’adesione della Francia: protezione dell’industria nascente e della produzione agricola mediante una Tariffa esterna comune favorevole e soprattutto partecipazione degli europei agli oneri con uno sforzo di investimento nei territori in cambio della loro apertura.

Da allora la questione dei TOM diventa uno dei principali scogli nei negoziati. D. resta sulle sue posizioni, malgrado le forti resistenze dei Cinque e le pressioni del comitato interministeriale, che nel dicembre 1956 ritiene che l’associazione dei TOM a queste condizioni sia votata al fallimento. Nel gennaio 1957, con il sostegno dell’amministrazione del suo ministero e del ministro per gli Affari economici e finanziari Paul Ramadier, fa pressioni su Mollet perché rifiuti la formula di Maurice Faure, il quale per facilitare la conclusione dei negoziati intende accettare una dilazione di quattro anni per regolare in modo preciso la questione delle modalità d’associazione dei TOM al Mercato comune. D. minaccia di dimettersi intuendo che il rapporto di forza dopo la firma del trattato sarà sfavorevole alla Francia, invoca la ragion di Stato di fronte ai rischi di agitazioni politiche che una Repubblica già resa fragile dalla situazione algerina non potrebbe affrontare, evoca il caso di coscienza di un europeo convinto, costretto ad ammettere che «se dev’essere fatta una scelta, […] è meglio rinunciare al Mercato comune piuttosto che accettare una rottura con i territori d’oltremare». Negli ambienti politici, in particolare mendesisti, e in quelli degli affari legati agli interessi coloniali, anche altre voci denunciano un mercato di oltremare offerto in dote agli altri Stati europei. Quindi il ministro, che si preoccupa anche di non mettere in difficoltà i leader africani che sostengono la legge quadro, si sente incoraggiato a mantenere le sue posizioni, ancora alla vigilia della conferenza di Parigi nel febbraio 1957.

Il Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) comprende un accordo di associazione dei TOM al Mercato comune della durata di cinque anni. Questi ultimi sono liberi di mantenere la loro tariffa nei confronti di terzi e della metropoli e le tariffe doganali dei Sei sono abbassate del 30% sulle importazioni provenienti da questi territori. Ma la Francia ha dovuto cedere sul fronte degli investimenti, inferiore a quello auspicato da D. Tuttavia, cercando di conciliare vocazione africana e vocazione europea della Francia, D. e il governo Mollet sono riusciti ad ancorare l’Africa all’Europa e a posare la prima pietra di una politica nei confronti del Terzo mondo.

Negli anni Sessanta l’Europa diventa uno dei cavalli di battaglia dei socialisti e un tema che compatta la sinistra non comunista contro il generale Charles de Gaulle. E se pure D. non appare come uno degli specialisti in questioni europee nel Partito socialista, la tribuna che gli procurano la presidenza del gruppo parlamentare all’Assemblea nazionale e soprattutto le due candidature alle elezioni presidenziali del 1965 e del 1969, lo collocano in prima linea nell’opposizione al gollismo: quindi nei suoi discorsi riserva uno spazio essenziale all’Europa.

Il progetto europeo di “Monsieur X” è il frutto delle riflessioni della commissione “costruzione europea” dell’associazione Horizon 80 creata per la circostanza – alla quale appartiene anche Étienne Hirsch. D. condanna la politica che de Gaulle conduce in nome dell’indipendenza nazionale: giudica inutile la scelta della force de frappe nazionale, ne denuncia gli effetti perversi ritenendo che la ricerca dell’indipendenza per vie militari non impedisca la realizzazione di una vera e propria colonizzazione “economica” della Francia da parte degli Stati Uniti. All’“Europa delle patrie”, cara a de Gaulle e giudicata anacronistica, oppone la realizzazione di un’Europa “vera”, nazione dalle dimensioni moderne, dotata di un’autorità politica, che in un’assemblea eletta a suffragio universale vedrebbe rafforzati i suoi poteri. Prospetta anche la formazione a termine di un governo europeo sovranazionale (v Defferre, 1965). Ma pur condannando l’atteggiamento di de Gaulle nei confronti degli Stati Uniti, rifiuta che l’Europa sia loro subordinata e opta per un’Europa indipendente concepita come un trait d’union fra Stati Uniti e URSS. Questa posizione testimonia la ricerca di un punto di equilibrio tra la Francia gollista e l’atlantismo di certi partner europei. Ma persiste un’ambiguità sulla questione nucleare: D., pur rifiutando la proposta americana di una forza multilaterale, non prende posizione sul tema di una forza nucleare europea.

Malgrado il ritiro della sua candidatura nel giugno 1965, D. continua a denunciare la battuta d’arresto provocata da de Gaulle all’integrazione europea e non smette di sostenere l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune, indispensabile per fare da contrappeso alla Germania e rafforzare l’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Ma alle elezioni presidenziali del 1969 subisce un vero smacco.

Il 1969 resta anche l’anno in cui la storia europea entra in una fase nuova. D. dal gennaio 1968 è vicepresidente del comitato esecutivo del Movimento europeo e nel 1972 guida l’organizzazione francese del movimento: frequentando i “protagonisti” europei, è molto attivo su questo fronte al principio degli anni Settanta. In una lettera a Jean Monnet del marzo 1972 si dichiara contrario a qualsiasi dominio di una coalizione di Stati sull’Europa: è propenso a dotarla di un’autorità reale e diffida della tecnocrazia, quindi difende il rafforzamento della Commissione europea proponendo la presenza di una personalità di primo piano che la guidi, eletta per una “durata abbastanza lunga”, e la limitazione delle decisioni con Voto all’unanimità. Si impegna a favore di un’istituzione politica “di tipo comunitario” sul modello della commissione. In nome di questa concezione e per non avallare l’“Europa delle nazioni” di Pompidou (v. Pompidou, Georges) chiede l’astensione, insieme al PS ma contro la maggioranza del Bureau du Mouvement Européen, in occasione del referendum sull’Allargamento dell’Europa nel 1972.

Un anno più tardi, davanti ad un’Europa divisa, “umiliata” dalla sua impotenza di fronte alla guerra nel Vicino Oriente e investita dalla crisi energetica, D. sottolinea in occasione del congresso socialista sull’Europa a Bagnolet la necessità di «concepire e realizzare un’altra Europa». Più che mai avverso agli Stati Uniti, ritiene che in una congiuntura internazionale inedita l’indipendenza dell’Europa richieda la fine dell’ancoraggio all’ovest e il rifiuto dell’arma nucleare ed evoca, nel lungo termine, anche lo scioglimento simultaneo dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e del Patto di Varsavia. Ma essendo consapevole delle divergenze fra i socialisti europei sulla questione dei rapporti con gli Stati Uniti, nell’immediato incoraggia l’Europa a cercare un accordo con il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON) e a instaurare relazioni di cooperazione scevre da qualsiasi imperialismo con i paesi del Terzo mondo. Il presupposto non cambia: porre fine alle divisioni e creare nuove istituzioni sovranazionali e politiche comuni.

D. difende questa posizione, conforme al programma europeo del PS, fino alla campagna del 1979 per l’elezione dei deputati al Parlamento europeo (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). Ultimo, per sua volontà, della lista socialista, dirada sempre più la sua presenza alle riunioni del comitato esecutivo del Movimento europeo e se ne giustifica così con Robert van Schendel: «Sono stato un militante europeo assiduo nel momento in cui la costruzione europea cominciava appena a prendere corpo. Le difficoltà erano numerose all’epoca per chi difendeva la causa europea. Con il futuro Parlamento europeo entriamo in una fase che sarà certamente interessante ma più facile di quella che ho conosciuto io. Quindi ho meno ragioni per militare, e inoltre devo smaltire una mole sempre crescente di lavoro come sindaco di Marsiglia».

Gli impegni di D. per Marsiglia e la sua regione hanno spesso una risonanza europea. Nella campagna per la costruzione del canale Reno-Rodano, nel 1979, insiste sul suo interesse economico per la regione, ma sottolinea anche la dimensione europea di un progetto che contribuisce a collegare e a riequilibrare il Nord e il Sud dell’Europa. Ma poi, temendo la concorrenza di Spagna, Portogallo e Grecia, nel 1978 esige con il PS delle condizioni preliminari all’ingresso dei tre paesi in Europa.

La questione dell’equilibrio tra le regioni è all’ordine del giorno in un’Europa in cui si discute sulla creazione di un fondo di sviluppo regionale, come in Francia dove si lavora alla riforma regionale. D., che dagli anni Cinquanta è Presidente del Consiglio dei comuni d’Europa, non ha mai smesso di sottolineare il ruolo degli eletti locali nella formazione di uno “spirito europeo”, il solo in grado di dare corpo ad un’“Europa dei popoli” e di militare a favore di una rappresentanza delle collettività locali nelle Istituzioni comunitarie. Ormai presidente del Consiglio regionale Provence-Alpes-Côte d’Azur, D. pone al centro dei suoi discorsi la regione. Per lui l’Europa è una volta di più l’occasione per interessarsi alla coniugazione di due dimensioni differenti e per promuovere riforme istituzionali interne. Nella prospettiva della costituzione di regioni transfrontaliere, si appropria dell’idea dell’“Europa delle regioni” – che rappresenta un mezzo per aggirare gli Stati nazionali e portare l’Europa verso una sovranazionalità e un federalismo più accentuati – per dimostrare la necessità di una modernizzazione del sistema istituzionale francese: la creazione della dimensione regionale deve accompagnarsi al decentramento di cui la regione è il perno. In quest’ottica nel 1972 presenta una proposta di legge sull’organizzazione regionale insieme al gruppo socialista e in seguito, divenuto ministro dell’Interno e del decentramento nel governo Mauroy (v. Mauroy, Pierre) nel maggio 1981, fa votare le leggi del decentramento.

Ma il decentramento risponde anche, e forse soprattutto, alle sue preoccupazioni di eletto locale. Quando D. difende di fronte al Parlamento il suo progetto di legge, i riferimenti all’Europa sono scarsi. Il decentramento, soluzione francese ad un problema francese, non sembra essere stato concepito in una prospettiva europea e, concedendo al dipartimento i principali trasferimenti di competenze – una concezione che gli attira le critiche dei militanti europei federalisti – si allontana dal “modello europeo di decentramento” (v. Delcamp, 1993). Tuttavia, allineando in certa misura la Francia alle strutture esistenti negli altri paesi europei, favorendone l’accesso ad una modernità istituzionale – giudicata da D. indispensabile per accompagnare la sua integrazione europea – il decentramento francese ha incontestabilmente una risonanza europea.

D., pur non figurando nel pantheon dei padri dell’Europa, è stato nondimeno un militante della causa europea, convinto che la sua battaglia fosse iscritta nel “senso della storia”.

Anne-Laure Ollivier (2010)

Bibliografia

Brunet J.P., Gaston Defferre, in J.F. Sirinelli (a cura di), Dictionnaire historique de la vie politique française au XXè siècle, PUF, Paris 1995.

Defferre G., Un nouvel horizon. Le travail d’une équipe, Gallimard, Paris 1965.

Delcamp A., La décentralisation française a-t-elle été conçue dans une perspective européenne?, in H. Portelli (a cura di), La décentralisation française et l’Europe, Pouvoirs locaux, Paris 1993.

Marion G., Gaston Defferre, Albin Michel, Paris 1989.

Olivesi A., Gaston Defferre, in J. Maitron (a cura di), Dictionnaire biographique du Mouvement ouvrier français, vol. 24, Ouvrières, Paris 1964-1993.