Dehaene, Jean-Luc
Politico belga, presidente di turno del Consiglio dei ministri dell’Unione europea (UE) ed europarlamentare, D. (Montpellier 1940) ha avuto un ruolo rilevante nella politica europea negli anni Novanta e più di recente negli ultimi sviluppi del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Si è inoltre distinto per il suo europeismo durante i lavori della Convenzione europea, di cui è stato uno dei vicepresidenti insieme a Giuliano Amato.
Di madre francese e padre belga (quest’ultimo, arruolatosi come medico durante la guerra, era stato uno dei pionieri della moderna psichiatria), D. si trasferì presto in Belgio, dove frequentò le scuole primarie a Bruges e più tardi si stabilì ad Aalst per terminare gli studi umanistici presso un istituto gesuitico. Nel 1958 D. decise di intraprendere gli studi giuridici presso la Facultés universitaires Notre-Dame de la Paix (FUNDP), l’antica e rinomata Università cattolica di Namur; due anni dopo proseguì gli studi in economia presso l’Università cattolica di Lovanio (Katholieke Universiteit Leuven, KUL), laureandosi in giurisprudenza nel 1963.
Dal 1963 al 1967 fu commissario della Vlaams Verbond van Katholieke Scouts (VVKS), la storica associazione fiamminga degli scout cattolici. Questa esperienza, come ricordava lo stesso D., contribuì ad arricchire la sua formazione, insegnandogli il lavoro di squadra e rafforzando in lui il senso della leadership e della responsabilità. Contemporaneamente alla collaborazione con la VVKS, dal 1965 al 1971 lavorò presso l’Ufficio studi del Movimento cristiano dei lavoratori (Christelijke Arbeidersbeweging, ACW), allora diretto da Herman De Leeck, grande specialista in materia di sicurezza sociale. L’esperienza presso le VVKS e l’ACW fornì a D. una conoscenza approfondita del mondo del lavoro e delle questioni sociali, preparandolo alla successiva attività politica.
Entrato nel 1967 a far parte della gioventù del Partito democratico cristiano belga (Christelijke Volkspartij, CVP) in qualità di vicepresidente nazionale della sezione giovanile, nel 1972 fu cooptato come membro della presidenza nazionale del partito sotto la guida del suo nuovo presidente Wilfried Martens, futuro primo ministro del Belgio e presidente del Partito popolare europeo (PPE). In seguito, dal 1977 al 1981 avrebbe ricoperto la presidenza della circoscrizione di Bruxelles-Halle-Vilvoorde del Partito democratico cristiano fiammingo.
Per dieci anni, tra il 1971 e il 1981, D. fu alle dipendenze di vari gabinetti ministeriali: collaborò con Jozef De Saeger, l’allora ministro dei Lavori pubblici e della sanità nonché ex presidente nazionale del CVP; lavorò per il ministro degli Affari economici André Oleffe (1974-1975) e ancora per il suo suo successore Fernand Herman (1975-1977). Infine, nel 1979 entrò a far parte del gabinetto del primo ministro Wilfried Martens i cui mandati si susseguirono per oltre dieci anni dal 1979 al 1992. D., divenne così uno dei più stretti collaboratori del leader del Partito popolare cristiano, tanto da esserne designato l’erede naturale. Infatti, dopo aver ricoperto la carica di ministro degli Affari sociali e delle riforme istituzionali (1981-1987) e di vice primo ministro e ministro delle comunicazioni (1988-1992), nel 1992, in seguito all’uscita di scena del vecchio leader democristiano, D. venne nominato primo ministro, carica che mantenne fino al 1999. Al termine del mandato fu insignito dal re dei belgi del titolo onorifico di ministro di Stato (Minister van Staat).
Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta il governo di Martens non ebbe vita facile. Il Belgio, infatti, stava attraversando una profonda crisi economica e politica: la prima era stata la conseguenza della crisi petrolifera, mentre la seconda era dovuta alla forte divisione interna tra le forze politiche e i partiti nazionali riguardo all’autonomia e all’organizzazione dello Stato, crisi che negli anni Novanta avrebbe condotto alla riforma costituzionale in senso federale del Belgio. Nel 1977 le forze unitarie e quelle federaliste avevano raggiunto un primo accordo per una revisione costituzionale, detto “Patto di Egmont”. Successivamente però l’accordo fallì a causa dell’opposizione di buona parte del movimento fiammingo e dell’ala più dura del Partito nazionalista fiammingo (Volksunie), oltre che quella del Partito liberale, escluso dalle negoziazioni.
Il dibattito sul regionalismo fu lungo ed estenuante specialmente all’interno del CVP dove al federalista Wilfried Martens si contrapponeva il più moderato Léo Tindemans. Durante il primo governo Martens, però si affermò la linea federalista di cui D. era un convinto assertore (v. Federalismo). Il giovane politico belga, infatti, aveva partecipato attivamente a quella battaglia, sostenendo l’idea di una riforma dello Stato in senso federale a carattere regionalistico. Per la determinazione, l’impegno e l’originalità delle idee, D. può essere considerato, insieme a Wilfried Martens e a Hugo Schiltz, uno dei padri del cosiddetto federalismo unionista (unionistisch federalisme), corrente del federalismo fiammingo.
Nell’aprile 1980 un governo tripartito guidato da Martens e formato da cattolici, socialisti e liberali riuscì, tenendo in sospeso la questione di Bruxelles, ad avviare una revisione costituzionale che comportava la regionalizzazione della Vallonia e delle Fiandre. Con la nuova revisione le Comunità, cui vennero attribuite competenze quali la gestione del territorio, dell’ambiente, dell’abitazione, della politica energetica ed economica, furono dotate di esecutivi propri, sebbene i consigli di comunità e regioni rimanessero composti dai rappresentanti eletti della Camera e del Senato, mantenendo, in questo modo, le autorità decentrate subordinate alla politica nazionale. Nelle intenzioni di Martens questa prima e parziale riforma costituzionale avrebbe dovuto avere carattere transitorio in attesa di una seconda e più radicale riforma in senso federale. In realtà, dopo la crisi di governo del 1981, le riforme subirono una battuta d’arresto, restando congelate per quindici anni; solo nel 1993, durante l’esecutivo cattolico-socialista guidato da D., le riforme vennero effettivamente riprese e portate a compimento con l’approvazione delle norme di revisione costituzionale e della legge speciale e legge ordinaria per la realizzazione della struttura federale dello Stato. Il primo ministro aveva potuto contare anche su una lunga esperienza nel campo delle riforme, essendo stato per quasi dieci anni ministro delle Riforme istituzionali.
In conclusione, secondo D. la scelta federalista era la risposta più realistica e pragmatica di fronte alle sfide poste dalle problematiche politiche, sociali ed economiche presenti nella società belga ed europea. La struttura federale dello Stato, sosteneva il primo ministro belga, è «il frutto di un’evoluzione sociale progressiva e non di una rivoluzione. Esso è il risultato di una ricerca permanente di un equilibrio tra l’unità e la diversità, in una società in continua evoluzione» (v. Dehaene, 1993, pp. 235-6). Il federalismo fu certamente alla base delle scelte di Martens e di D. nelle questioni di politica interna, ma influenzò e condizionò anche la loro condotta all’interno delle istituzioni comunitarie. La posizione dei due statisti in campo europeo, infatti, è sempre stata caratterizzata da un forte europeismo, accompagnato da una naturale propensione a riconoscere nel modello federale il futuro possibile dell’Europa e nel federalismo una valida risposta alla crescente globalizzazione.
Al termine del suo mandato, dopo aver avuto importanti incarichi di governo e aver svolto una lunga attività parlamentare come senatore (1982-1987; 1995-2000) e membro della Camera dei rappresentanti (1987-1995), D. si dedicò all’amministrazione di Vilvoorde, un piccolo centro delle Fiandre, di cui venne eletto sindaco nel 2001.
Accanto all’impegno nella politica nazionale si deve però sottolineare il ruolo avuto dal politico belga all’interno delle istituzioni europee, prima come presidente di turno del Consiglio europeo, poi come vicepresidente della Convenzione europea e, infine, come eurodeputato.
D. venne nominato primo ministro belga il 7 marzo 1992, un mese dopo la firma del Trattato di Maastricht con il quale si superava l’obiettivo meramente economico della Comunità – ossia la realizzazione di un mercato comune – e si affermava la vocazione politica dell’Europa sancendo la nascita dell’Unione europea. Il nuovo Trattato richiedeva pertanto una nuova responsabilità e un approccio diverso al processo d’integrazione europea, aspetti che D. dimostrò di possedere e perseguire attraverso la sua idea unitaria di Europa.
Durante il suo primo mandato (1992-95) D. si trovò di fronte alle sfide poste da Maastricht che, da una parte, imponevano al nuovo governo una riduzione del debito pubblico diretta a soddisfare gli standard previsti per l’Unione economica e monetaria e, dall’altra, una maggiore coerenza politica europea nelle scelte interne. In qualità di primo ministro, partecipò ai diversi Consigli europei (v. Consiglio europeo) che si susseguirono dal giugno 1992 al dicembre 1993, nel corso dei quali vennero prese importanti decisioni sul futuro dell’integrazione europea. In questa prima fase di attuazione dei principi contenuti nel Trattato, D. fu tra i più assidui sostenitori della necessità di portare a compimento senza indugi gli obiettivi prefissati a Maastricht, accogliendo favorevolmente l’applicazione delle proposte elaborate dalla Commissione europea guidata da Jacques Delors (Libro bianco su crescita, competitività e occupazione, v. anche Libri bianchi), partecipando ai negoziati per l’adesione all’Unione europea di Austria, Finlandia e Svezia e approvando la legislazione per avviare l’Istituto monetario europeo (IME). Inoltre, dal luglio al dicembre 1993, D., ricoprì anche il ruolo di presidente di turno del Consiglio europeo, riuscendo a trasmettere, durante gli incontri di questa istituzione, un forte euro-ottimismo (v. Presidenza dell’Unione europea).
Al Consiglio europeo di Corfù, nel giugno 1994, in previsione dello scadere del mandato di Delors da presidente della Commissione europea, si discusse sulla designazione del suo successore che dai più fu individuato proprio nella figura D. Questa candidatura, caldeggiata dal Presidente della Repubblica francese François Mitterrand e dal cancelliere tedesco Helmut Kohl, generò nei britannici il timore che il primo ministro belga potesse rappresentare un elemento di continuità rispetto alla linea di colui che per molti anni era stato il vero e proprio motore del processo d’integrazione europea. Per questo il premier britannico John Major bocciò la candidatura di D., aprendo una nuova crisi in seno alle istituzioni europee. Il politico belga, infatti, era noto presso le cancellerie europee per il convinto europeismo e per le sue idee sul dovere e sul ruolo preciso delle istituzioni comunitarie nel perseguire una politica europea più coesa e coerente. Posto a latere il nome di D., il compromesso sul successore di Delors fu raggiunto un mese dopo sul nome del primo ministro lussemburghese Jean-Jacques Santer.
Una svolta decisiva nella carriera politica europea di D. si verificò nel 1999 in seguito alla conclusione del suo secondo governo in Belgio (luglio) e alle dimissioni di Santer da presidente della Commissione europea (marzo). Conseguenza di quest’ultimo avvenimento fu la nomina di una nuova Commissione, presieduta da Romano Prodi (1999-2004). In quell’occasione la designazione dell’ex Presidente del Consiglio italiano a guida della Commissione europea era stata sostenuta dallo stesso D. durante il Consiglio europeo di Berlino. Oltre ad avere in comune con Prodi l’estrazione cattolico-progressista, il belga ne condivideva la linea politica europea, contrassegnata dalla convinzione della necessità di potenziare l’unione politica come contrappeso all’unione monetaria.
Nel luglio dello stesso anno Prodi, che aveva avuto modo di apprezzare l’operato di D. in occasione degli incontri ufficiali del Consiglio europeo, chiamò l’ex primo ministro belga a presiedere un “gruppo di saggi” incaricato di redigere una relazione da presentare alla Commissione europea in vista della Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) di ottobre. Il comitato, composto anche da Richard von Weizsäcker e da Lord David Simon, si prefiggeva di confezionare un documento in cui venivano presentate “in tutta indipendenza” le opinioni dei tre specialisti sulle implicazioni istituzionali dell’allargamento previsto per il 2004. Infatti, la questione della riforma delle istituzioni europee, già sollevata durante il Vertice di Colonia (giugno 1999), era un problema aperto e urgente che la Commissione Prodi considerò prioritario. Anche per questa ragione il presidente della Commissione aveva chiesto al gruppo di lavoro di individuare i problemi istituzionali specifici da affrontare e di enunciare i motivi che rendevano necessaria una discussione sulle riforme istituzionali in sede di CIG.
L’impegno di D. nell’ambito della politica comunitaria non terminò con la relazione del comitato della Commissione Prodi, ma, grazie alla sua ormai ampia popolarità europea, egli continuò a ricoprire in qualità di “saggio” compiti e incarichi di alto profilo istituzionale. Al Vertice di Tampere (ottobre 1999), durante il quale si decise di stabilire la composizione, il metodo di lavoro e le modalità pratiche dell’organo che sarebbe stato incaricato di elaborare il progetto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, D. venne scelto come membro della Convenzione incaricata di redigere la Carta che sarebbe stata adottata ufficialmente a Nizza nel dicembre 2000.
Dopo il Trattato di Nizza, nel giugno 2001, D. entrò a far parte del cosiddetto “gruppo di Laeken”, di cui facevano parte anche Jacques Delors, Giuliano Amato, Bronisław Geremek e David Miliband. Il comitato, nato in previsione del Consiglio europeo di Laeken in cui si sarebbe discusso sul futuro dell’Europa, veniva istituito dal primo ministro belga Guy Verhofstadt, allora presidente di turno del Consiglio europeo. Le finalità del gruppo erano quelle di consigliare il primo ministro belga durante la presidenza del Vertice riguardo al tema delle riforme istituzionali e della riorganizzazione dei trattati. Aspetti che divennero ancora più urgenti subito dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri gemelle di New York. Di fronte allo sgomento internazionale, D., insieme a due “saggi” del gruppo di Laeken e ad altre dieci personalità (Giuliano Amato, Étienne Davignon, Jacques Delors, Felipe González, Roy Jenkins, Helmut Kohl, Maria Lourdes Pintassilgo, Jacques Santer, Helmut Schmidt, Mario Soares, Peter Sutherland, Karel Van Miert), firmò un vibrante documento-manifesto dal titolo Svegliamo l’Europa, in cui si denunciavano i ritardi e le insufficienze dell’Europa di fronte ai nuovi scenari internazionali. Il documento, accolto con favore dalla Commissione Prodi, invitava gli Stati membri e le istituzioni europee a uscire dall’apatia con impegni concreti d’azione e radicali riforme delle istituzioni comuni.
Il Vertice di Laeken, conclusosi in un clima di incertezza, diede comunque avvio a un processo di riflessione sulla natura e il futuro dell’Unione europea, indicando nella Dichiarazione conclusiva (dicembre 2001) le modalità per la creazione di una Convenzione europea per le riforme (marzo 2002- luglio 2003). Di fronte a questa iniziativa e al ruolo avuto nel “gruppo di Laeken”, apparve quasi una conseguenza naturale che a dirigere i lavori della Convenzione accanto al presidente Valéry Giscard d’Estaing, venissero incaricati in qualità di vicepresidenti D. e Giuliano Amato.
Durante i lavori sulla futura Costituzione europea, oltre a ricoprire il ruolo di vicepresidente del “Presidium” della Convenzione, D. si occupò di presiedere il comitato incaricato di redigere una relazione finale sull’“Azione esterna” dell’Unione europea (Gruppo di lavoro VII). L’obiettivo principale del comitato era quello di assicurare la coerenza dell’azione dell’Unione e apportare modifiche al processo decisionale per permettere alla UE di agire in modo rapido ed efficace sulla scena internazionale. Secondo D. la Convenzione europea era riuscita a raggiungere alcuni obiettivi importanti, come l’accordo sulla necessità di un testo costituzionale destinato a fondere e sostituire i trattati esistenti, l’attribuzione di una personalità giuridica unica all’Unione (v. Personalità giuridica dell’Unione europea), la fine della divisione in pilastri dell’Unione europea e l’integrazione della Carta dei diritti fondamentali nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Restava comunque aperta, secondo D., la questione della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), in cui persisteva un forte squilibrio tra l’istanza intergovernativa e quella comunitaria a danno della seconda e del grado di democrazia espresso dalle istituzioni dell’Unione (v. anche Deficit democratico).
Nel giugno 2004, terminati i lavori della Convenzione, D. fu eletto al Parlamento europeo per il Gruppo del Partito popolare europeo (PPE) (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo). Durante il suo mandato si distinse per i temi trattati e portati all’attenzione del PE. Si fece latore di un’interrogazione parlamentare sulla non proliferazione nucleare e sul disarmo, presentò una proposta di risoluzione sull’annosa questione del Tibet e infine nel marzo 2009, in qualità di membro della Commissione parlamentare per gli affari costituzionali, presentò una relazione sull’impatto del Trattato di Lisbona sullo sviluppo dell’equilibrio istituzionale dell’UE, facendo nuovamente rilevare la necessità di conseguire un maggiore grado di coesione interna e un più alto livello di trasparenza, di efficacia e di democrazia nelle istituzioni europee.
Attualmente oltre all’attività europarlamentare D. è presidente del Consiglio di amministrazione del Collegio d’Europa (Bruges-Natolin).
Filippo Maria Giordano (2012)