Dialogo sociale
Nell’ambito del negoziato sul Piano Schuman, Jean Monnet e altri delegati ritennero opportuno avviare una qualche forma di cooperazione con i rappresentanti dei sindacati anticomunisti (v. anche Parti sociali). Era infatti evidente che le decisioni della futura Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) avrebbero interessato migliaia di lavoratori di questi due settori; inoltre, nel clima di contrapposizione frontale determinato dalla Guerra fredda appariva necessario che il processo di integrazione godesse del consenso più ampio possibile. Da parte loro, alcune organizzazioni sindacali, in particolare quelle di ispirazione cattolica, come l’italiana Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL), vicine a partiti direttamente impegnati nella scelta europea, mostrarono attenzione e interesse verso il processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Fu dunque all’interno della CECA, in particolare nel contesto del Comitato consultivo, che nacquero le prime forme di dialogo e collaborazione fra gli organismi europei, i sindacati e le rappresentanze delle associazioni padronali.
Il modello proposto con la CECA non venne però seguito in occasione del “rilancio dell’Europa” e della creazione della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). Non solo le forze sociali non vennero coinvolte nelle trattative per la redazione dei Trattati di Roma, ma ad esse il trattato CEE riservava altresì un ruolo marginale all’interno di un organo consultivo, il Comitato economico e sociale; nel corso degli anni Sessanta, d’altronde, anche i sindacati non comunisti e le loro organizzazioni internazionali parvero mostrare un minore interesse verso il processo di integrazione, il quale trovava espressione nella formazione di un’Unione doganale. Il “maggio francese” e gli analoghi fenomeni verificatisi in altri paesi europei con un evidente spostamento a sinistra determinarono una maggiore combattività da parte dei sindacati e un loro desiderio di contare maggiormente sul piano politico. La fine del periodo di espansione economica che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, nonché l’esplodere di una grave crisi economica internazionale, fecero comprendere ai vertici sindacali dei paesi europei che i problemi presentatisi avrebbero dovuto trovare soluzione in un contesto continentale. Si ritenne inoltre che la costruzione europea e le Istituzioni comunitarie dovessero tenere conto in maniera crescente delle esigenze dei lavoratori, favorendo ad esempio l’avvio di una efficace Politica sociale europea.
Nel 1970 si teneva a Lussemburgo, in ampia misura per iniziativa del ministro italiano del Lavoro Carlo Donat Cattin, la prima conferenza “tripartita”, che vedeva riuniti delegati delle organizzazioni sindacali europee, della Commissione europea, dei governi e delle associazioni imprenditoriali (v. anche Unione delle industrie della Comunità europea). In tale sede si decideva di creare un Comitato per l’occupazione permanente. Nel 1973, inoltre, veniva istituita la Confederazione europea dei sindacati (CES), alla quale aderivano non solo le maggiori organizzazioni non comuniste dell’Europa occidentale, ma anche la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Ciò nonostante, forse anche a causa degli scarsi risultati delle prime iniziative comunitarie in tema di politica sociale e del ruolo giocato da alcune centrali sindacali tradizionalmente scettiche sulla costruzione europea, quali ad esempio le unions britanniche, nel corso degli anni Settanta la CES parve non farsi coinvolgere nelle dinamiche comunitarie. L’arrivo al potere nel Regno Unito di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan negli Stati Uniti segnavano l’avvio di una fase “neoliberista” nell’economia occidentale, nel cui contesto il ruolo dei sindacati appariva destinato a indebolirsi.
La nomina di Jacques Delors alla guida della Commissione determinò un “rilancio” europeo, che nel campo economico mostrava un apparente allineamento a scelte “liberiste”, ad esempio nella volontà di creare un efficace Mercato unico europeo. Ma Delors, oltre a essere stato ministro delle Finanze con François Mitterrand, proveniva da un’esperienza sindacale e riteneva che alle scelte liberiste si dovesse affiancare un costruttivo “dialogo sociale” che consentisse alle forze sindacali europee di trovare uno spazio nella nuova architettura comunitaria delineata dal presidente della Commissione con il sostegno di Mitterrand e di Helmut Josef Michael Kohl.
Nel gennaio del 1985 una delle prime mosse di Delors fu la convocazione di una conferenza a Val Duchesse che vedeva riuniti i rappresentanti della Commissione, delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati. Si sviluppava così un “dialogo sociale” che non si sarebbe più interrotto. Le intenzioni della Commissione trovavano varia espressione: dal progetto di Carta dei diritti sociali fondamentali (v. anche Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), al cosiddetto “capitolo sociale” del Trattato di Maastricht, all’attenzione del Trattato di Amsterdam verso il problema dell’occupazione (v. anche Protocollo sulla politica sociale). Ciò nonostante e a dispetto del crescente interesse mostrato dalla CES, i risultati del “dialogo sociale” vengono spesso considerati marginali, soprattutto perché, al di là di una serie di pur importanti provvedimenti normativi presi dalla Unione europea, il ruolo dei sindacati nel Processo decisionale comunitario resta limitato.
Antonio Varsori (2006)