La direttiva è un atto normativo comunitario che viene così definito all’art. 249 (ex 189) del Trattato che istituisce la Comunità europea (Roma, 25 marzo 1957) (v. Trattati di Roma), versione consolidata: «La direttiva vincola lo Stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi».
La direttiva si presenta quindi come uno strumento di legislazione comunitaria (v. Diritto comunitario), assieme agli altri elencati nel predetto articolo, ossia regolamenti, decisioni (v. Decisione), raccomandazioni (v. Raccomandazione) e pareri (v. Parere). Circa le caratteristiche redazionali, va consultato l’accordo interistituzionale (v. Accordi interistituzionali) del 22 dicembre 1998 sugli orientamenti comuni relativi alla qualità redazionale della legislazione comunitaria (“Gazzetta ufficiale delle comunità europee” C 73 del 17 marzo 1999).
Mediante la direttiva, le istituzioni dell’Unione europea impongono, con effetto obbligatorio, un obiettivo – politico, legislativo, amministrativo – a uno o più Stati membri, che sono perciò tenuti a raggiungerlo. A questo riguardo si distingue tra direttive generali, cioè rivolte contemporaneamente a tutti gli Stati membri, e direttive individuali o particolari, in quanto indirizzate ad uno o ad alcuni soltanto tra gli Stati membri.
A differenza del regolamento, che crea diritto comunitario uniforme e che opera direttamente, la direttiva è un mezzo normativo indiretto; infatti essa, di per sé, non dà vita a norme giuridiche che siano direttamente rilevanti per i soggetti degli ordinamenti interni (ma v. oltre, per l’evoluzione giurisprudenziale). Essa ha invece per effetto di imporre agli Stati membri degli obiettivi che a loro volta esigono, per il loro raggiungimento, misure legislative, regolamentari o amministrative nazionali.
La direttiva ha comunque una sua propria efficacia quale strumento normativo; infatti contiene disposizioni obbligatorie, nel senso che gli Stati devono corrispondere alle esigenze da essa indicate; tuttavia gli Stati sono liberi di scegliere i procedimenti idonei a raggiungere i risultati indicati.
La grande maggioranza delle direttive mira a obbligare gli Stati a porre in essere atti normativi; esse hanno per lo più come campo d’azione i programmi generali di Armonizzazione dei diritti nazionali in materia di stabilimento, di prestazione dei servizi, di eliminazione degli ostacoli agli scambi, di fiscalità e d’altro. Indirizzate a tutti gli Stati membri, tali direttive tendono a promuovere simultaneamente l’iniziativa normativa, onde assicurare il raggiungimento degli scopi previsti dai Trattati: come bene osservò la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) nel caso Simmenthal (causa 106/77, sentenza del 9 marzo 1978), «le regole del diritto comunitario devono dispiegare la pienezza dei loro effetti in una maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità».
Il raggiungimento degli scopi previsti dai trattati è possibile anche ove esista una disparità normativa, purché le misure adottate dagli Stati, nei settori in cui si esplica la vita comunitaria, si ispirino tutte ad un medesimo fine. In tal modo si tiene realisticamente conto della circostanza che esistono notevoli differenze tra i sistemi giuridici degli Stati membri.
Poiché le direttive si dirigono agli Stati membri, esse obbligano quegli organi degli Stati stessi la cui attività è necessaria per l’esecuzione delle direttive, e quindi, di volta in volta, gli organi legislativi, di governo, di amministrazione. Ai fini dell’adempimento, peraltro, la responsabilità riguardante l’esecuzione delle direttive incombe allo Stato come tale, e non a un determinato organo. Che in concreto vi sia preposto un determinato organo (l’amministrazione centrale dello Stato ovvero quella periferica, oppure le istituzioni territoriali: regioni, province, comuni) dipende dall’ordinamento interno dei singoli Stati e dalla ripartizione delle rispettive competenze.
In sostanza, ogni direttiva impone allo Stato destinatario non un’obbligazione di comportamento, bensì un’obbligazione di risultato: oggetto di tale obbligo sono le misure legislative, regolamentari e amministrative necessarie per raggiungere il risultato medesimo.
Non sempre sarà necessaria l’emanazione di una nuova normativa (nei casi di vuoto legislativo) o di una normativa modificativa o abrogativa di leggi preesistenti: si può dare anche il caso in cui la materia della direttiva sia trattata nell’ordinamento interno sul piano della semplice azione amministrativa. In questa ipotesi sarà sufficiente mutare od orientare diversamente la prassi interna mediante circolari e istruzioni indirizzate dagli organi dell’amministrazione interna agli uffici esecutivi dipendenti. Si veda al riguardo la sentenza del Consiglio di Stato, II, 21 aprile 1993, n. 1631 sulle direttive CEE in materia di omologazione dei veicoli a motore: essendo queste recepite, ai sensi dell’art. 229 cod. strad., con semplice decreto ministeriale, non occorre l’emanazione di un regolamento.
Nei primi anni di vita della Comunità prevalse l’orientamento secondo cui – come detto sopra – le direttive non possono spiegare un’efficacia diretta all’interno degli ordinamenti degli Stati membri. Ma, in prosieguo di tempo, diventando certe direttive sempre più dettagliate e restringendosi perciò i margini di autonomia degli Stati, la Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza Grad 6-X-1970 in causa 9/70; sentenza Sace 17-XII-1970 in causa 33/70; sentenza Van Duyn 4-XII-1974 in causa 41/74) andò via via elaborando la tesi dell’efficacia diretta nei confronti dei singoli. Le condizioni per l’effetto diretto delle direttive, descritte con chiarezza nel caso Van Duyn, sono state precisate in una serie di sentenze successive: la direttiva deve essere incondizionata e sufficientemente precisa; il termine per il recepimento assegnato agli Stati membri deve essere trascorso. Tutto ciò, in base al ragionamento che l'”effetto utile” di una direttiva sarebbe affievolito se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderla in considerazione come parte integrante del diritto comunitario.
In Italia questa impostazione evolutiva, dopo un primo periodo di inevitabili resistenze, ha finito per essere condivisa dalle supreme magistrature. Così la Corte costituzionale, con sentenza n. 168 dell’8/4/1991, ha riconosciuto l’applicabilità diretta purché la prescrizione della direttiva comunitaria sia incondizionata e sufficientemente precisa, «nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza in tutti i loro elementi».
Nella stessa direzione, e con un’ulteriore precisazione, la sentenza del Consiglio di Stato, IV, 6/5/1992, n. 481: affinché le direttive possano essere considerate direttamente applicabili non solo è necessario che le disposizioni in esse contenute siano chiare, precise e incondizionate, ma è anche indispensabile che sia trascorso inutilmente il termine imposto allo Stato destinatario della direttiva per adeguarvisi. Conforme altresì il parere dello stesso Consiglio di Stato n. 94, emesso in adunanza generale il 1° ottobre 1993.
Circa l’attuazione delle direttive nell’ordinamento italiano, esse venivano dapprima eseguite mediante legge ordinaria oppure mediante D.P.R. o D.M. su delega del Parlamento. Poiché, peraltro, le inadempienze e i ritardi erano frequenti, fu approvata la c.d. “legge La Pergola” (n. 86 del 9 marzo 1989, Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari). È prevista l’adozione, anno per anno, di una apposita “legge comunitaria”, il cui disegno viene presentato alle Camere dal governo, che vi allega un elenco delle direttive per l’attuazione delle quali chiede di essere autorizzato a emanare norme.
Giorgio Bosco (2008)
Bibliografia
Cappelli F., Le direttive comunitarie, Giuffrè, Milano 1983.
Del Vecchio A., L'attuazione della normativa comunitaria e segnatamente delle direttive, Giuffrè, Milano, 1979.
Fumagalli L., La responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto comunitario, Giuffrè, Milano 2000.
Oldenbourg A., Die unmittelbare Wirkung von EG-Richtlinien im innerstaatlichen Bereich, Florentz, München 1984.
Pescatore P., Etude des sources du droit communautaire, Presses universitaires de Liège, Liége 1975.