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Ducci, Roberto

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Per generale riconoscimento, nazionale e internazionale, l’ambasciatore D. è stato uno dei protagonisti dell’interminabile cantiere dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Per una sua naturale ritrosia, non comparve spesso fra gli artefici della politica alla pubblica ribalta, ma si collocò invece stabilmente fra quegli artigiani che, dietro le quinte, ne posero le premesse e ne costruirono l’impalcatura. Egli rappresenta ancor oggi, nell’immaginario collettivo del ministero degli Esteri italiano e nella memoria dei colleghi stranieri che l’hanno conosciuto, uno dei migliori esempi di grand commis de l’Etat, consigliere del principe ma anche raffinato interprete dei suoi interessi essenziali.

Nato nel 1914, D. entrò in diplomazia nel 1937, primo del suo concorso. Dopo due incarichi consolari nell’America del Nord, ed un periodo all’Ufficio confini del ministero degli Esteri per la definizione postbellica della frontiera nordorientale, la carriera lo vide giovane funzionario successivamente a Varsavia, a Parigi presso l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), poi nell’impegnativo ruolo di presidente del Comitato di redazione dei Trattati di Roma, per un decennio consigliere di amministrazione della Banca europea per gli investimenti (BEI), quindi ambasciatore a Helsinki, capo della delegazione italiana alle trattative per l’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea (CEE) fino al veto di Charles de Gaulle nel 1963, ambasciatore a Belgrado nel 1964, a Vienna nel 1967. Diventato direttore generale degli Affari politici, D. svolse infine dal 1970 al 1975 un ruolo determinante nella costruzione della Cooperazione politica europea, concludendo la sua vita professionale come ambasciatore a Londra fino al 1980. Morì a Roma nel 1985, lasciando incompiuta una autobiografia della quale soltanto le memorie giovanili hanno visto la luce, rivelatrici del mondo di ieri, scomparso anche perché rimosso di proposito dalla memoria nazionale.

Figlio di un ammiraglio, D. ne ereditò il senso dello Stato, riassumendo in sé la tensione ideale e l’impegno concreto dell’Italia all’edificazione europea, tanto nell’ispirare una classe politica distratta da prevalenti preoccupazioni interne, quanto nel rifornire di contributi propositivi i vari cantieri diplomatici. Letterato per vocazione (scrisse D’Annunzio vivente, pubblicato nel 1973, nonché due volumi di poesie, L’innocenza e Il Libro di musica, pubblicati nel 1978 e nel 1980) e funzionario diplomatico per senso del dovere civico, D. si attribuiva la funzione di stimolare il dibattito pubblico su temi internazionali in un ambiente nazionale incline ad adagiarsi nel compromesso e nel quieto vivere, mentre l’evoluzione del mondo circostante avrebbe imposto una riscossa delle migliori qualità nazionali.

Nei momenti tragici della catastrofe bellica, appena trentenne, egli attirò l’attenzione di chi operava per lenire le condizioni armistiziali. Nelle sue memorie, il generale Giuseppe Castellano lo menziona, assieme ad Antonello Pietromarchi e a Mario Visetti, fra i funzionari degli Esteri con i quali era in contatto, definendolo «uno dei più intelligenti funzionari della nuova generazione» (v. Castellano, 1945, p. 46). Attraversate le linee nemiche con grave rischio personale, D. si collocò subito a Brindisi e poi a Salerno nello sparuto drappello superstite di funzionari del ministero degli Esteri che, sotto la guida di Renato Prunas posero le premesse di una emancipazione dai propositi dei vincitori.

Gli scritti di ispirazione europea di D. testimoniano l’intensità e la continuità delle sue convinzioni. L’impegno personale che il giovane si era assegnato era alimentato dall’intensa consapevolezza della «dura e amara opera da compiere: prendere contatto con i vincitori, restaurare almeno l’aspetto esteriore dell’indipendenza italiana, riaprire le finestre sul mondo, far conoscere agli stranieri la nostra verità». Sua fu l’iniziativa, incoraggiata dal ministero degli Esteri, di fondare e dirigere a tal fine dal marzo 1944 al dicembre 1946 una rivista mensile, “Politica estera”, che ebbe notevole risonanza. Mediante la pubblicazione di documenti, traduzioni di articoli stranieri e commenti di varia ispirazione, tale rivista aveva l’ambizione di “intendere ed essere intesi”, e di definire una nuova fisionomia italiana per collocarla d’urgenza nel dibattito postbellico (vi contribuì anche Mario Ercoli, alias l’appena rimpatriato Palmiro Togliatti, a dimostrazione dell’imparzialità dell’effimera testata). L’ultimo numero, datato 29 dicembre 1946, comprende – sotto pseudonimo – un articolo di D. su Governo mondiale e unità dell’Europa, i traguardi ideali che perseguirà con ostinazione durante l’intero arco della sua esistenza.

Fu allora che maturò la vocazione di D. all’Unione europea, che considerava non soltanto l’unica via di uscita per nazioni martoriate ma anche, nell’immediato, l’“ancoraggio esterno” indispensabile per la riedificazione materiale e morale di una nazione sempre adolescente. Un europeismo funzionale, dunque, e non astrattamente ideale. Il suo contributo si rivolse pertanto soprattutto alla proiezione internazionale della nuova Repubblica. Dopo la liberazione di Roma, utilizzando anche noms de plume ben noti agli iniziati (Clodio, Verax, Astolfo, Bardolfo, Legatus), D. collaborò a diversi fra i periodici spuntati come funghi nella rinata democrazia (“Il Cosmopolita”, “Mercurio”, “Il Globo”, “La Città Libera”, “Libera Stampa”, nonché “Il Tempo”, “Nuova Antologia” e “Il Mondo”), per argomentare che soltanto inedite forme di coesione politica fra le nazioni europee avrebbero potuto al contempo pacificare il continente e sottrarlo all’incombente alternativa fra le due superpotenze emerse dal conflitto. Suo fu anche un lucido e coraggioso saggio introspettivo sull’indole nazionale (e pertanto sul significato del fascismo), dal titolo Questa Italia (pubblicato nel 1948) che Angelo Tasca definì un «bellissimo libro, con il pregio di contestare l’idea che il fascismo sarebbe una semplice aberrazione della storia italiana».

Incluso nella delegazione italiana alla Conferenza di pace di Parigi, D. si occupò soprattutto della sistemazione delle questioni relative ai confini e pose anche mano allo storico discorso col quale Alcide De Gasperi riaffermò la dignità della nazione. Egli era consapevole della necessità di superare le tentazioni neutraliste serpeggianti fra tutti i nuovi partiti democratici, e che ciò non poteva avvenire in modo endogeno bensì necessariamente nel congiungere in qualche modo l’emergente nuova identità nazionale alle nuove costruzioni internazionali (che in Europa il Piano Marshall aveva in particolar modo sollecitato). La scelta di campo operata da De Gasperi tagliò il nodo gordiano, ma le lacerazioni politiche interne, trasversali, persistenti, continuarono a tormentare l’ambizioso funzionario durante l’intera sua vita professionale. Nel costante intento di spiegare, stimolare e sollecitare i migliori istinti nazionali, egli scriveva nella dichiarata «ingenua illusione di contribuire a sospingere in un certo senso la ruota della Storia», convinto com’era che «la diplomazia è un mezzo per immaginare il futuro».

Europeista convinto e coraggioso, irrequieto, talvolta irruente rispetto ai tempi più lenti della politica, D. affiancò sempre all’attività diplomatica una intensa attività di saggista e commentatore politico su riviste e quotidiani, non sempre con pseudonimi, ciò che gli attirò anche ricorrenti critiche da politici e colleghi. Egli descrive l’europeista, distinto dall’eurocrate, come «uomo di sogni insaziabili, di moti della fantasia di poeti e profeti, anche se calati sulla terra da mercanti ed avventurieri». Scrivendo di Jean Monnet con ammirazione palesemente autobiografica, D. lo definisce «inventore di idee, elaboratore di metodi, persuasore efficace nell’ombra del colloquio a quattr’occhi». In qualsiasi sede si trovasse, D. si adoperava per affermare quelle che, spes contra spem, amava definire “le speranze d’Europa”, cosciente del fatto che, come scrisse, si trattava di «un’impresa iniziata per debito di coscienza […] a metà strada fra il disinteresse e lo scetticismo dei più», terreno di elezione per i diplomatici. Il momento più impegnativo si presentò finalmente quando, nominato direttore generale degli Affari politici, istituì – assieme al belga Étienne Davignon – la Cooperazione politica europea (CPE). Al meno appariscente livello dei funzionari diplomatici, dietro le quinte dell’Europa politica e pubblica, si trattava in sostanza di riesumare il Piano Fouchet fallito nel 1962, embrione di quella più strutturata cooperazione intergovernativa che sarebbe poi lentamente sbocciata nell’attuale Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’Unione europea, dalla salute ancor cagionevole.

Le tre costanti intrecciatesi nel filo conduttore dell’europeismo di D. erano il perseguimento di un rapporto paritario fra Europa e Stati Uniti, l’europeizzazione del problema tedesco e l’evoluzione della Comunità europea verso una entità politica distinta (corredata dall’opzione nucleare, che a suo avviso Francia e Gran Bretagna avevano il compito di tenere in serbo per l’Europa politica futura). Intenso, tenace e frustrante fu il suo impegno durante l’“Anno dell’Europa” invocato da Henry Alfred Kissinger nel 1973, sbiadita riedizione del pilastro europeo invocato dieci anni prima da John Fitzgerald Kennedy e che gli europei, anche a causa dell’embargo petrolifero arabo conseguente alla guerra del Kippur, non seppero per l’ennesima volta raccogliere (v. Ducci, 2005). Una spirale perversa che D. non cessò mai di tentare di sospingere comunque in senso ascensionale.

Fu per l’iniziativa e la perseveranza personale di funzionari come D. che l’Italia potuto poté recare il proprio originale e talvolta determinante contributo all’edificazione europea. Col trasporto di coloro che si sentono investiti di una missione, D. non rinunciò mai a dire la sua. Sistematicamente, anche dalle sue meno cruciali sedi iniziali, indirizzava missive direttamente al ministro perché ne traesse elementi supplementari di giudizio oltre che di informazione; da direttore generale per gli Affari politici condivideva le sue sensazioni e riflessioni con i colleghi presso le principali ambasciate. Nella sua qualità di membro cooptato in esclusivi e influenti gruppi consultivi informali, quali il Bilderbeg e la Commissione trilaterale, D. ebbe frequenti occasioni di impegnare i grandi della terra fra i quali in special modo Henry Kissinger, caratterialmente affine, in accesi dibattiti sulle compatibilità fra la necessaria integrità del rapporto transatlantico e la dichiarata utilità delle ambizioni europeiste.

Instancabile anche in pensione, D. intraprese, assieme a Maria Grazia Melchionni (con l’assistenza dalla quale aveva svolto un corso su “L’arte del negoziato diplomatico all’Università La Sapienza di Roma) la raccolta delle testimonianze degli artefici dei Trattati di Roma, proponendosi fra i pionieri di quella storia orale che va imponendosi come autonoma disciplina – i documenti prodotti sono conservati presso la Fondation Jean Monnet di Losanna, l’Archivio storico della Commissione europea a Firenze (v. Archivi storici delle Comunità europee), e la Discoteca di Stato a Roma. In limine mortis, a metà degli anni Ottanta, D. denunciava in Europa «il decadimento di vitalità, la frustrazione da impotenza, la tentazione del neutralismo, la sindrome di antiamericanismo, e, per reazione, lo sbandare dell’America verso l’unilateralismo imperiale». Talvolta, guardandosi attorno, D. constatava che «abbiamo degli abbozzi di monumenti, che non si comprende bene se siano costruzioni in corso o ruderi abbandonati, in una Europa incompiuta» (v. Ducci, Olivi, 1971).

Partecipe di ogni fermento intellettuale della nostra epoca, con un misto di pragmatismo e di utopia, di scetticismo e di fiducia nel risorgere dei miti e delle virtù umane, sempre legato al primato dell’intelligenza, D. si impone ai posteri non soltanto come uno dei migliori rappresentanti della nostra diplomazia, ma anche come scrittore versatile ed originalissimo, quale insigne interprete del suo tempo.

Guido Lenzi (2010)

Bibliografia

Castellano G., Come firmai l’armistizio, Mondadori, Milano 1945.

Ducci R., I contemporanei, Editip, Torino 1976.

Ducci R., I capintesta, Rusconi, Milano 1982.

Ducci R. La bella gioventù, il Mulino, Bologna 1996.

Ducci R., Le carte sparse, Rubettino, Soveria Mannelli 2005.

Ducci R., Olivi, B., Europa incompiuta, CEDAM, Pavia 1971.