Einaudi, Luigi
La fama di E. (Carrù 1874-Roma 1961) è legata agli studi di economia (fu professore di Scienza delle finanze all’Università di Torino), al giornalismo (fu collaboratore della “Stampa” di Alfredo Frassati e del “Corriere della Sera” di Luigi Albertini), all’attività politica (aderì al liberalismo democratico d’ispirazione inglese e fu contrario al fascismo; emigrato in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, venne nominato governatore della Banca d’Italia nel 1945 ed eletto deputato alla Costituente nel 1946; fu vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio con Alcide De Gasperi e Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955). Meno noto è il fatto che E. sia stato un convinto europeista e uno dei maestri del pensiero federalista del Novecento (v. Federalismo), autore di una serie di saggi originali sulla pace, sulla crisi dello Stato nazionale, sull’unificazione dell’Europa. Come riconosciuto dallo stesso Altiero Spinelli, furono gli scritti di E., in particolare le Lettere politiche di Junius (ristampate da Laterza nel 1920), a influenzare alla fine degli anni Trenta le riflessioni degli autori del Manifesto di Ventotene, assurto poi a testo fondamentale del federalismo contemporaneo.
Gli scritti einaudiani sull’unità europea coprono oltre mezzo secolo, dal 1897 al 1956, con una interruzione fra il 1925, quando E. sospese la collaborazione al “Corriere della Sera” in segno di solidarietà con il direttore Luigi Albertini, dimessosi a seguito della fascistizzazione della testata, e il 1940, quando riprese ad affrontare il problema della pace e dell’unificazione europea. Sono più frequenti negli anni 1915-1925 e 1943-1954, cioè nei momenti critici della storia del Novecento che videro le guerre mondiali, la crisi del dopoguerra, la fondazione della Società delle Nazioni, la ricostruzione e l’avvio dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Tali scritti sono sparsi, occasionali, brevi, rigorosi ma non accademici, pubblicati per lo più su quotidiani con lo scopo di educare l’opinione pubblica e spingerla a vedere oltre l’apparenza delle cose. In tutto compongono alcune centinaia di pagine. Particolarmente rilevanti sono i contributi einaudiani alla definizione del concetto di crisi dello Stato sovrano, alla distinzione tra federazione e confederazione, alla critica della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), all’individuazione delle ragioni che portarono ai conflitti mondiali, all’analisi delle cause della guerra e dei mezzi per garantire la pace, alla dottrina dello Stato federale, alla critica del funzionalismo.
Contro il mito dello Stato sovrano
Il concetto di crisi dello Stato sovrano rappresenta per il federalismo, oltre che un fatto empirico, la categoria storiografica fondamentale di valore euristico per comprendere la storia del Novecento, l’origine delle due guerre mondiali e del fascismo, la ragione principale del processo di integrazione europea e, in prospettiva, mondiale. Tale concetto è alla base della riflessione einaudiana. E. denuncia il dogma della sovranità assoluta, contrapponendovi la necessità della cooperazione imposta dalla crescente interdipendenza. La sua riflessione prende le mosse dall’analisi dello sviluppo economico generato dalla rivoluzione industriale. La sovranità assoluta, cioè il non dipendere da altri, richiede l’autosufficienza economica, quindi la possibilità di disporre di uno spazio vitale. La teoria degli spazi vitali come rimedio alla mancanza di materie prime e all’eccesso di produzione presuppone una condizione che di fatto non esiste: l’autosufficienza economica di ognuno degli spazi vitali. Nell’epoca dell’interdipendenza, lo spazio vitale è il mondo intero, in quanto nessun aggregato economico, per quanto grande, possiede tutte le materie prime necessarie al suo sviluppo; anche nello spazio ampliato mancherà sempre qualche bene rintracciabile in paesi più lontani. La pretesa di conseguire la sovranità assoluta e la conquista dello spazio vitale presuppongono così il dominio del mondo, quindi la guerra.
La rivoluzione industriale e la conseguente evoluzione socioeconomica e scientifica avevano dato avvio al processo di interdipendenza globale, favorito l’affermazione di Stati di grandi dimensioni (E. cita, all’inizio del Novecento, gli Stati Uniti, la Russia, l’Impero britannico), condannato i paesi europei, ridotti a pigmei, all’emarginazione e all’impotenza. Le dimensioni di questi ultimi erano ormai insignificanti, il loro territorio troppo piccolo, il mercato interno troppo ristretto per permettere una vera divisione del lavoro e alle imprese di raggiungere una dimensione ottimale. La conclusione di E. è categorica: «Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta».
Dalla demolizione del dogma dello Stato sovrano E. ricava quattro conseguenze: l’affermazione del diritto d’ingerenza; l’individuazione della causa ultima della guerra; la critica della Società delle Nazioni e dell’ONU; la necessità della federazione europea.
Il diritto d’ingerenza
Dalla critica del mito della sovranità assoluta discende il diritto, addirittura l’obbligo secondo E., all’ingerenza negli affari interni di un altro paese. La dottrina del non intervento deriva dalla proclamazione della sovranità assoluta dello Stato. La crescente interdipendenza mondiale ha reso labile la divisione fra relazioni esterne e relazioni interne. E. si pone la domanda se le società moderne debbano ancora organizzarsi in Stati sovrani o se ogni paese non debba accettare l’intervento degli altri nei propri affari interni. La risposta è scontata: se lo Stato non è più sovrano, in quanto l’interdipendenza ha vanificato tale pretesa, è evidente che cade anche la dottrina del non intervento. Chi resta fedele a tale teoria non ha imparato la lezione delle due guerre mondiali, combattute contro la dottrina del non intervento. Gli alleati, afferma E., lottarono per affermare l’obbligo, (l’obbligo, ribadisce con chiarezza, non solo il diritto), di intervenire negli affari interni di uno Stato il cui regime rappresentava una minaccia costante alla loro esistenza e per proclamare l’intollerabilità in ogni angolo del mondo di regimi tirannici. L’esistenza di una dittatura, infatti, coinvolge non solo i cittadini che la subiscono, ma ogni paese, perché è un germe d’infezione per tutto il mondo. È una evidente anticipazione del diritto d’ingerenza, dell’obbligo per l’ONU di intervenire per tutelare la pace e la democrazia.
La causa ultima della guerra
Il pacifismo di E. s’inserisce nel filone del pacifismo giuridico risalente a Kant, cui si ricollega la tradizione federalista d’ispirazione hamiltoniana. Secondo questa, la causa ultima della guerra non risiede né nella forma interna degli Stati, né nelle ragioni politiche o economiche che possono sì spiegare uno specifico conflitto, ma non perché la guerra è possibile. Secondo E., la causa vera sta nella sovranità assoluta dello Stato, nell’assenza di un governo superiore, quindi nella conseguente anarchia internazionale in cui senza un giudice superiore e imparziale è impossibile risolvere pacificamente le controversie. Solo la federazione, cioè la costruzione di un potere statale superiore, può garantire la pace. Su questo tema E. interviene nuovamente nel 1948, prendendo spunto da due temi all’epoca di grande attualità, con due articoli pubblicati sul “Corriere della sera”, Chi vuole la bomba atomica? e Chi vuole la pace?. Il dissidio non sorge contro l’uso della bomba atomica, su cui regna l’accordo, ma sui mezzi per impedirne l’uso. Fautori e avversari della nuova arma non possono essere distinti solo dal rifiuto o dall’accettazione di sottoscrivere una convenzione internazionale di messa al bando della bomba atomica. Colui che sottoscrive il bando negando i mezzi per fare osservare il divieto, diventa il più efficace sostenitore della bomba atomica. Bisogna indicare i mezzi sufficienti a fare osservare tale divieto. L’unico criterio per giudicare se alle parole corrispondano i fatti è chiedersi se il divieto debba agire entro l’ambito della piena sovranità degli Stati o presupporre la rinuncia alla sovranità medesima. Nel primo caso, la proclamazione solenne del divieto dell’uso della bomba atomica è pura utopia, come dimostra l’esperienza storica. I divieti, infatti, non hanno impedito alla Germania di riarmarsi dopo la Prima guerra mondiale e non ci sono controlli internazionali che possano impedire a uno Stato sovrano di perseguire i propri interessi. E. propone il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla fabbricazione della bomba atomica a un ente internazionale, una sorta di super Stato, limitato nei suoi scopi al tema specifico, che detenga il possesso di tutte le materie prime e dei giacimenti di minerali indispensabili alla fabbricazione dell’arma atomica.
Circa la pace, E. scrive che non basta gridare nelle piazze “vogliamo la pace”, occorre chiedersi come attuare tale proposito. Paragona la società internazionale alla società interna; dentro gli Stati, per difendersi da ladri e assassini, gli uomini hanno creato i giudici e i poliziotti, rinunciando a difendersi da sé e ricorrendo al superiore potere della legge e al monopolio statale dell’uso della forza. Così nella società internazionale solo una forza superiore alle singole nazioni può impedire di scatenare la guerra. Chi vuole la pace deve volere la federazione, cioè la creazione di un potere superiore ai singoli Stati sovrani.
I limiti della Società delle Nazioni e dell’ONU
La critica della sovranità assoluta offre a E. gli strumenti per sottolineare le insufficienze e prevedere il fallimento della Società delle Nazioni e dell’ONU. A tale scopo impiega la distinzione tra federazione (intesa come limitazione della sovranità degli Stati che si federano e costruzione di un nuovo Stato cui è trasferita parte dei poteri di quelli federati) e confederazione (concepita come cooperazione intergovernativa fra paesi che rimangono sovrani e non delegano poteri agli organi comuni). La Società delle Nazioni è intesa come alleanza di Stati sovrani e indipendenti al fine di mantenere la concordia fra gli associati e difenderli dalle aggressioni esterne. Nessuno pensa che per conseguire tali obiettivi si debba costituire un super-Stato fornito di sovranità diretta sui cittadini e del diritto di stabilire imposte proprie, di mantenere un esercito sovrannazionale, di avere una propria amministrazione. Si vuole una Società delle Nazioni, ma ogni Stato deve rimanere indipendente. Fra lo stupore e la riprovazione generale (sarà aspramente criticato per questa presa di posizione), E. pubblica un articolo all’inizio del 1918 in cui definisce la Società delle Nazioni un puro nome, il nulla, capace addirittura di aumentare le ragioni di guerra. Alla debole e incapace Società ginevrina contrappone una vera federazione, dotata di poteri limitati ma reali.
Dopo la nascita dell’ONU, E. riprende le argomentazioni del 1918 per criticare la nuova organizzazione e dimostrarne l’inefficacia nel perseguire lo scopo di garantire la pace. Il suo valore morale è indiscusso, scrive; forse non si può fare di più, forse la guerra sarà resa meno frequente, ma annota sconsolatamente che il meccanismo giuridico atto a sopprimere i conflitti non è stato creato neppure questa volta: manca la limitazione della sovranità assoluta; la nuova organizzazione non ha il potere di impedire lo scoppio di altri conflitti. E. conferma la natura giuridica, e non morale, del suo pacifismo. Assicurare la pace non è un problema di buona volontà, di palingenesi sociale, di rinnovamento religioso, ma significa creare il «meccanismo giuridico» atto a sopprimere le guerre, cioè la federazione.
Dalla critica dello Stato sovrano e dall’impostazione giuridica del problema della pace deriva per E. la necessità storica dell’unificazione europea, condizione per il progresso del continente e per impedire altri conflitti. A questo proposito sviluppa la sua interpretazione delle guerre mondiali.
L’interpretazione delle guerre mondiali
Secondo E., le guerre mondiali sono una manifestazione della necessità storica dell’unificazione europea, uno sforzo cruento verso la creazione di unità statali superiori innescato dalle spinte all’integrazione generate dall’evoluzione del processo produttivo e dall’aumento degli scambi. L’interdipendenza economica è in contraddizione con l’esistenza di Stati chiusi e protezionistici. Ad alcuni paesi non rimaneva dunque che conquistare lo spazio vitale, logica e fatale conseguenza del principio dello Stato sovrano, con la forza. I conflitti mondiali risultano così il tentativo di unificare l’Europa con la violenza, la risposta aberrante alla crisi degli Stati nazionali e all’esigenza di integrare i mercati. Guglielmo II e Hitler sono il frutto di una necessità storica, l’unificazione dell’Europa, e hanno posto un problema reale che va risolto scartando soluzioni confederali, del tipo societario, perché consacrano l’idea dello Stato sovrano e non eliminano la guerra. Ricorrendo a un’immagine biblica, E. afferma che il problema europeo non può essere risolto che in due maniere: o con la spada di Satana (quella impugnata da Hitler, cioè l’egemonia) o con la spada di Dio (cioè la federazione realizzata con il consenso dei popoli). Se non si realizzerà la federazione, l’Europa sarà sconvolta da altre guerre finché non sarà compiuta la necessità storica della sua integrazione.
L’organizzazione dello Stato federale
E. ritorna sull’argomento della federazione europea verso la fine del 1943 e prende in considerazione per la prima volta la struttura istituzionale dello Stato federale. La federazione, scrive, ha un fondamento prevalentemente economico, conseguenza delle moderne condizioni di vita che hanno unificato economicamente il mondo e trasformato i mercati nazionali in spazi troppo stretti. Alla filosofia della scarsità, propria dello Stato piccolo, bisogna contrapporre la filosofia dell’abbondanza, propria dello Stato grande. Nella federazione i danni di un’eventuale politica protezionistica, comunque sbagliata perché il mercato deve ormai coincidere con il mondo intero, sono attenuati dalla maggiore ampiezza, rispetto a quello nazionale, dello spazio economico, i beni e i servizi circolano liberamente, la concorrenza è meglio garantita e gli accordi monopolistici risultano più difficili. E. elenca le competenze minime che gli Stati devono delegare alla federazione: il commercio interno; i trasporti (per abolire ogni discriminazione per viaggiatori e merci); le migrazioni interne (per garantire la libertà di movimento e di residenza); le poste, i telefoni, il telegrafo (per assicurare l’illimitata facilità di comunicazione); infine la competenza più significativa e limitativa della sovranità degli Stati, la moneta, con la fissazione di rapporti legali stabili tra le varie divise nazionali e la creazione di una banca centrale di emissione (per regolare la spesa pubblica, limitare l’inflazione ed evitare le misure protezionistiche). In sintesi, la federazione deve essere competente su moneta, libertà di circolazione, dogane, sicurezza.
Per realizzare i suoi obiettivi, l’amministrazione federale dovrà essere dotata di strumenti adeguati. Innanzitutto l’esercito comune, composto non da contingenti degli Stati membri, ma reclutato individualmente; ai singoli paesi rimarrebbe il controllo della polizia. Senza una forza propria la federazione sarebbe un puro nome, una dannosa società delle nazioni. Il diritto di dichiarare la guerra verrebbe così sottratto alle singole nazioni e trasferito alla federazione; con esso gli Stati sarebbero amputati dell’espressione più significativa della sovranità. Poiché la federazione ha competenze sulla difesa e sul commercio estero, le spetta anche la rappresentanza diplomatica per quanto riguarda le materie federali, mentre continuerebbero a sussistere le rappresentanze diplomatiche e consolari degli Stati federati per i restanti settori. La federazione dovrà disporre di una magistratura federale, di una corte suprema e di una polizia federale per far rispettare le leggi. Gli organi legislativi devono prevedere un parlamento bicamerale, composto da un consiglio degli Stati, in cui ogni paese è rappresentato da un uguale numero di rappresentanti, e da un consiglio legislativo, eletto direttamente dai cittadini in proporzione alla popolazione. Le camere esercitano la potestà legislativa e le leggi devono essere approvate da entrambe. Il potere esecutivo spetta al consiglio federale (la terminologia è chiaramente mutuata dall’esperienza elvetica), eletto dal parlamento in seduta comune.
Fissati i compiti e gli strumenti della federazione, E. si preoccupa di precisarne i mezzi finanziari. Secondo una sua radicata convinzione, maturata dall’esperienza americana (amava citare la frase di Alexander Hamilton secondo cui il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche era un puro nome), qualsiasi organismo, per risultare vitale, deve vivere con risorse proprie, non dipendere dal contributo di altri. Le dogane sono la più ovvia entrata finanziaria da attribuirsi esclusivamente alla federazione. Spettano inoltre allo Stato federale le imposte di fabbricazione e le entrate derivanti dai servizi gestiti direttamente. Se l’insieme di queste risorse non risultasse sufficiente, si potrebbe imporre un’eventuale imposta sul reddito dei cittadini. Viene delineato così un vero Stato federale, garante dell’unicità del mercato e della pace interna, con un unico territorio doganale, un esercito comune, una finanza propria, un’autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria.
Nel 1950 con il memorandum che porta il nome di Jean Monnet si avvia effettivamente l’unificazione europea secondo l’impostazione funzionalistica. Il 9 maggio la Dichiarazione Schuman (v. Schuman, Robert) dà avvio alla prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Il 27 giugno E. detta una nota sul Piano Schuman, in cui raccomanda, come condizione di buon funzionamento dell’organizzazione, che si adotti il principio del voto a maggioranza (v. anche Maggioranza qualificata) e che l’Alta autorità possa dare ordini direttamente ai soggetti economici, in qualsiasi territorio nazionale siano situati, senza attendere ratifiche di sorta da parte dei singoli Stati. Unanimità significa (v. anche Voto all’unanimità), ammonisce E., Società delle Nazioni, ONU, Consiglio d’Europa, cioè enti privi di poteri effettivi.
La critica al funzionalismo
Chiarita la necessità dell’unificazione e il modello di Stato federale, E. si chiede come realizzarlo. All’epoca della Prima guerra mondiale egli aveva mostrato interesse verso il metodo funzionalistico. Ora ne rileva i limiti e sottolinea le incongruenze cui sarebbero andate incontro le Comunità europee di tipo funzionale. Da tempo esistono unioni internazionali amministrate da tecnici che limitano la sovranità degli Stati (la Croce rossa, l’unione postale, l’unione per la tutela della proprietà industriale, dei marchi di fabbrica, della proprietà letteraria, ecc.). Dati i buoni risultati conseguiti da tali unioni tecniche, si pensò di estenderne il principio ad altre materie, creando così il Fondo monetario internazionale, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità europea di difesa (CED). Tutti questi sono tentativi che dimostrano buona volontà, a patto che non siano fini a se stessi, ma implichino a breve scadenza il passaggio alla federazione politica. E. non crede all’evoluzione spontanea dall’integrazione tecnica e settoriale all’unificazione politica. Il gradualismo può risultare utile, ma deve prevedere chiaramente le tappe verso l’unione politica, collocata non in un imprecisato futuro, ma posta fin dall’inizio come meta ultima, da conseguire attraverso stadi intermedi altrettanto chiaramente prefissati. L’oggetto delle vecchie unioni internazionali era tecnico e limitato; l’oggetto di quelle nuove coinvolge gli interessi vitali dei paesi membri. Sia la CECA sia la CED, se vorranno funzionare, dovranno ingerirsi nella vita economica e sociale degli Stati; quindi dovranno disporre di un vero governo e di un vero parlamento.
E. cerca di immaginare le conseguenze concrete cui condurrà il Funzionalismo. Se le nuove unioni si limitassero a sopprimere gli ostacoli al libero commercio, forse potrebbero anche funzionare; ma se vogliono prendere decisioni di natura politica, che toccano interessi contrastanti di ceti diversi, andrebbero incontro al fallimento. Se lo Stato nero del carbone vorrà non solo liberalizzare il commercio, ma anche fissare il prezzo del carbone e dell’acciaio, distribuire le imprese produttrici sul territorio e regolare il commercio, le sue decisioni si scontrerebbero con gli interessi dello Stato verde degli agricoltori, danneggiato dai prezzi fissati da quello nero per il combustibile e per i macchinari agricoli; entrambi poi litigherebbero con lo Stato funzionale più importante, quello della difesa, il cui bilancio sarebbe gravato dalle pretese degli altri due circa il costo delle vettovaglie e dei cannoni. Gli Stati a pezzettini, conclude E., non funzionano; meglio un’alleanza tradizionale, che si sa che dura finché gli alleati hanno interesse a rimanere uniti. L’idea della federazione funzionale è frutto di confusione mentale. Chi accetta l’idea dell’esercito comune deve andare fino in fondo e accettare l’idea della federazione politica. Le unioni parziali, quali la CECA, il “Pool verde”, la CED sono accettabili solo provvisoriamente, come tappa intermedia sulla via della più vasta federazione politica. L’Unione doganale senza quella monetaria è un non senso e l’unione monetaria non si realizza senza la rinuncia alla stampa dei biglietti e a una parte notevole di sovranità politica: «È un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico». E. avverte che la realizzazione della CED è fondamentale; l’esercito comune è la condizione necessaria della federazione, in quanto non ci si può più difendere da soli. L’angoscia in cui vivono gli europei è l’angoscia di Machiavelli per l’impotenza degli Stati italiani di fronte a Francia e Spagna; è l’angoscia odierna di italiani, francesi, tedeschi per la loro impotenza di fronte ai colossi mondiali dell’Est e dell’Ovest. L’esercito comune diventa così la garanzia dell’indipendenza dell’Europa, condannata, se permane la divisione, a una condizione di vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.
Conclusioni
Il contributo di E. all’unificazione europea fu essenzialmente teorico. Predicò con profonda dottrina la necessità dell’integrazione, apportando contributi originali al pensiero federalista, ma operò poco, rispetto, per esempio, al suo impegno nella politica interna italiana. A differenza di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli, mancò a E. la volontà di tradurre in azione la sua riflessione teorica. Invocò l’unità dell’Europa dal 1897, ne dimostrò la necessità, ma non si impegnò per realizzarla. Qui sta il paradosso di E.: scrisse, suggerì, propagandò l’idea dell’unità europea, aderì, finanziò e fece finanziare il Movimento federalista europeo, ma non vi è traccia di un suo impegno concreto, né egli è ricordato nelle autobiografie di altri illustri politici europeisti suoi contemporanei come un artefice dell’integrazione europea.
E. fu un teorico, più che un politico dell’integrazione europea. Pur arrecando contributi significativi all’elaborazione del pensiero federalista, non riconobbe nel federalismo una ideologia autonoma, dotata di propri valori e di nuove categorie concettuali, in grado di produrre originali riflessioni sulla società e sul potere, capace di alimentare un movimento politico indipendente dai partiti e teso a un fine esclusivo e prioritario rispetto alla realizzazione nella politica interna dei tradizionali ideali liberali o socialisti, cioè alla federazione europea. Il suo orizzonte culturale circa l’organizzazione politica ed economica della società rimase quello liberale; il federalismo diventava accessorio rispetto al liberalismo, garantendo il pieno realizzarsi degli ideali liberali attraverso le strutture dello Stato federale, l’abolizione delle barriere doganali e l’unificazione dei mercati, una più sana gestione monetaria, la stabilità dei cambi, l’assicurazione della pace.
E. va comunque annoverato tra i maestri del pensiero federalista del Novecento. La rilevanza delle sue riflessioni spicca soprattutto se paragonata all’incapacità della cultura italiana coeva (Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Benedetto Croce) di cogliere il significato degli avvenimenti che stavano accadendo, di accorgersi della crisi dello Stato nazionale, di cercare nuove categorie interpretative del fascismo e della storia del Novecento. Alla maggior parte degli intellettuali italiani sfuggì la connessione fra i problemi interni e il contesto internazionale in cui maturavano e la percezione che l’effettiva soluzione a tali problemi andava cercata al di là dei confini nazionali, superando la forma di Stato uscita dalla Rivoluzione francese. Mentre per la maggior parte della cultura italiana lo Stato nazionale continuava a essere la forma indiscussa di organizzazione politica (Gaetano Salvemini, per esempio, nel 1944-1945 consigliava a Rossi di non perdere tempo a fabbricare castelli in aria, cioè la federazione europea, ma di tornare a Firenze a costruire la repubblica democratico-socialista italiana, aspirante successivamente a diventare parte della federazione europea), E. seppe emanciparsi da questa prospettiva nazionale e leggere la storia da un punto di vista sovrannazionale. Ebbe la capacità di vedere con chiarezza il problema storico fondamentale del Novecento: il superamento dello Stato nazionale sovrano verso l’unificazione europea e mondiale.
E. ebbe forte il senso dell’autonomia europea rispetto alle superpotenze e non accettò la riduzione del continente a una condizione di vassallaggio, scongiurabile proprio con la realizzazione della federazione europea. L’unione, non la protezione americana, poteva garantire ai cittadini europei ciò che gli Stati nazionali non erano più in grado di assicurare: sicurezza e benessere. E i tempi per realizzare l’unione non erano infiniti, come ricordò il 1° marzo 1954, all’epoca della ratifica della CED, nell’ultimo scritto europeista: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani della fine del Quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; e il tempo delle decisioni, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente a impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nordamericana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare a una assurda indipendenza militare ed economica».
Umberto Morelli (2010)