Eisenhower, Dwight David
E. (Denison, Texas, 1890-Washington 1969) proveniva da una famiglia di origine alsaziana (Eisenhauer) emigrata in America alla metà del XVIII secolo, stabilendosi in Pennsylvania e poi in Kansas. Sull’infanzia del futuro presidente ebbe un’influenza significativa l’atmosfera di forte religiosità in cui la famiglia viveva: gli Eisenhower erano appartenuti a una setta mennonita e i genitori di Dwight si sarebbero negli anni seguenti avvicinati ai Testimoni di Geova. E. invece, se ne sarebbe progressivamente allontanato e nel febbraio 1953 sarebbe poi stato battezzato e cresimato nella Chiesa presbiteriana, poche settimane dopo la sua elezione alla presidenza. Terminati gli studi nel 1909, iniziò la carriera militare nell’esercito a West Point nel 1911.
Negli anni di accademia E. si distinse più per le sue qualità di giocatore e di allenatore della squadra di football che come studente, riuscendo comunque nel 1915 a completare il suo corso di studi tra i primi classificati. Il suo primo incarico da ufficiale lo portò a Fort Sam Houston, nel Texas. Durante la Prima guerra mondiale fece ripetutamente domanda per essere inviato al fronte, ma con sua grande frustrazione rimase destinato a compiti interni – per lo più l’addestramento delle reclute – per tutta la durata del conflitto. All’estero si recò per la prima volta tra il 1922 e il 1924, quando accettò l’invito del generale Fox Conner a far parte del suo Stato maggiore, nella Zona del Canale di Panama. Fu una scelta ben ponderata, che si rivelò cruciale per il futuro di E.: come capo ufficio operazioni del Corpo di spedizione americano durante la Prima guerra mondiale sotto il generale Pershing, Conner aveva acquisito una eccellente reputazione tra i militari americani e sotto il suo comando E. completò con un mentore di eccezione la sua formazione culturale e professionale. Oltre a guidarlo nel completamento degli studi, Conner lo aiutò ad entrare alla Scuola superiore di Stato maggiore (la Command and general staff school a Ft. Leavenworth, Kansas), dove nel 1926 E. si sarebbe laureato primo su 245 iscritti. Negli anni seguenti E. lavorò con alcune delle personalità più celebri e brillanti dell’esercito degli Stati Uniti, prima con il generale Pershing e successivamente, dal 1933 fino al 1939, come principale aiutante di campo del generale MacArthur. Con quest’ultimo nel 1935 si trasferì nelle Filippine, dove collaborò all’addestramento e alla creazione dell’esercito nazionale. Infine, nei primi due anni della Seconda guerra mondiale, fu trasferito nuovamente in Texas, con l’incarico di capo di Stato maggiore della Terza armata sotto il comando del generale Krueger. Le brillanti intuizioni e le notevoli qualità messe in luce in quel periodo lo segnalarono all’attenzione del capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale George Catlett Marshall, che lo convocò a Washington pochi giorni dopo l’attacco di Pearl Harbour, per assegnargli incarichi di crescente importanza.
Nominato maggior generale nel marzo del 1942, in maggio E. fu inviato a Londra come comandante generale del teatro europeo, e da quel momento cominciò il suo coinvolgimento diretto nelle operazioni più importanti della Seconda guerra mondiale in Europa. Nel novembre 1942 guidò l’operazione Torch, lo sbarco americano nel Nord Africa francese, e la successiva campagna conclusasi con la resa delle forze italo-tedesche in Tunisia. Come comandante in capo del Mediterraneo, seguì le trattative che portarono alla resa italiana il 3 settembre del 1943 e guidò le operazioni in Sicilia e in Italia fino al dicembre di quell’anno, quando il presidente Franklin Delano Roosevelt gli assegnò il Comando supremo per lo sbarco in Francia – l’operazione Overlord. Nominato comandante supremo delle forze alleate, E. divenne responsabile della più importante operazione della Seconda guerra mondiale, destinata a cambiare le sorti del conflitto. Dopo il successo dello sbarco, rimase al comando delle forze alleate in Europa fino alla resa della Germania, superando non senza qualche difficoltà gli ostacoli derivanti dalla diversità di visioni strategiche all’interno della coalizione. Generale a 5 stelle nel dicembre 1944, alla fine della guerra divenne comandante in capo della zona di occupazione americana in Germania, dove rimase fino al novembre 1945, quando ricevette l’incarico di capo di Stato maggiore dell’Esercito. Nel 1948 lasciò la vita militare per diventare presidente della Columbia University, posizione che rivestì fino al dicembre del 1950.
La grande popolarità e l’esperienza acquisita nel guidare le forze dell’eterogenea coalizione che aveva vinto la campagna in Europa occidentale nel 1944-1945 resero E. il candidato quasi naturale per l’amministrazione guidata da Harry Spencer Truman al momento di nominare il primo comandante supremo delle forze dell’Alleanza atlantica. Quando nel dicembre del 1950, in seguito allo scoppio della guerra di Corea, ebbe inizio la creazione dell’organizzazione permanente delle forze dell’alleanza – quella che poi sarebbe diventata l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) – E. fu perciò nominato Supreme allied commander in Europe (SACEUR). In questa posizione entrò direttamente in contatto con i principali problemi dell’organizzazione politica e militare dell’Europa occidentale: arrivò infatti a Parigi, dove il suo comando avrebbe avuto il quartier generale, nel momento in cui il governo Pleven (v. Pleven, René) aveva appena proposto la possibilità di dar vita a un esercito europeo come soluzione per il riarmo della Germania federale. Il primo impatto con l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) fu abbastanza difficile: E. ebbe un’impressione molto negativa del Piano Pleven, da lui giudicato come un progetto che «includeva ogni sorta di ostacolo, difficoltà, e nozione fantastica che esseri umani mal guidati avrebbero potuto mettere insieme in un unico pacchetto» (v. Winand, 1997, p. 27). Il suo giudizio negativo rifletteva le perplessità di quanti, chiamati ad allestire in fretta uno strumento militare che rafforzasse le difese dell’Europa occidentale e rendesse meno probabile un’aggressione sovietica, vedevano nella proposta francese una manovra volta soprattutto a guadagnare tempo e a procrastinare il riarmo tedesco. E. avrebbe cambiato idea a seguito di alcune celebri conversazioni con Jean Monnet, che nel giugno del 1951 lo convinse dell’opportunità politica, prima ancora che militare, di procedere all’unificazione degli eserciti francese e tedesco. E. rimase fortemente impressionato dalla logica di Monnet e da quel momento sarebbe diventato un convinto sostenitore del progetto di una comunità europea di difesa e più in generale della logica dell’integrazione come strumento complessivo per il rafforzamento dell’Europa occidentale. Di lì a pochi giorni, all’inizio di luglio, rese nota la sua nuova prospettiva in un celebre discorso tenuto a Londra, a Grosvenor palace, nel quale descrisse come “incalcolabili” i vantaggi dell’integrazione europea, un tema che avrebbe poi ripetutamente ripreso nei mesi seguenti come quando, nel Consiglio Atlantico del 26 novembre, auspicò con calore il successo del Piano Schuman e del Piano Pleven. Né i suoi sforzi erano limitati al piano puramente propagandistico, dal momento che anche in privato non mancò di insistere con l’amministrazione Truman perché si adoperasse per rafforzare le tendenze del Federalismo europeo, fino ad appoggiare l’ipotesi di un’unione politica ed economica dell’Europa come lo strumento migliore che gli Stati Uniti avevano a loro disposizione per migliorare la difesa dell’Occidente. In breve, inserito nell’ambiente parigino in un momento critico per il futuro dell’integrazione europea, E. risentì profondamente dell’influenza di quel milieu franco-americano (in particolare le personalità di David Bruce e Jean Monnet) che dette un contributo fondamentale alla definizione di un’Europa unita saldamente inserita nell’alleanza atlantica.
Nel luglio del 1952 E. lasciò l’incarico di SACEUR per partecipare alla campagna elettorale negli Stati Uniti. Sollecitato dal movimento “draft Eisenhower”, che raccoglieva firme a livello popolare per proporne la candidatura, accettò alla fine la proposta del partito repubblicano: a più riprese avrebbe poi ammesso di averlo fatto anche, se non soprattutto, per evitare il successo di quei candidati dell’ala radicale del partito che avrebbero voluto imprimere una marcata svolta alla politica estera degli Stati Uniti. Erano gli anni della virulenta e demagogica campagna anticomunista del senatore McCarthy, che minacciava di scuotere dalle fondamenta il mondo politico americano, e la candidatura di E. doveva servire anche a mantenere il partito repubblicano su posizioni più moderate.
Una volta presidente, E. iniziò una approfondita revisione della politica estera seguita dagli Stati Uniti fino a quel momento. Condivideva la scelta di Truman di contenere l’Unione Sovietica, ma non la decisione di farlo con spese militari apparentemente inesauribili per sostenere un apparato di forze convenzionali sempre più grandi; né riteneva strategicamente importante continuare a combattere in Corea, una guerra che rischiava di logorare il potenziale bellico del paese senza conseguire risultati decisivi. Nel corso del 1953 vari gruppo di analisti, politici, diplomatici e militari dettero vita all’operazione Solarium, un’analisi delle scelte possibili che la nuova amministrazione avrebbe potuto attuare. Il risultato fu definito tra la fine del 1953 (quando fu emanata la direttiva 162/2 del National security council, che autorizzava i militari americani a prevedere l’uso delle armi atomiche nella loro pianificazione) e l’aprile del 1954, quando il neosegretario di Stato John Foster Dulles, in un celebre discorso al Council for foreign relations, ne espresse pubblicamente i principi. In breve, la nuova amministrazione sceglieva di mantenere la politica di contenimento dei sovietici, ma di attuarlo riducendo le spese per le forze convenzionali e potenziando invece quelle per le armi nucleari, il cui impiego avrebbe potuto aver luogo in maniera indiscriminata (con una “rappresaglia massiccia”) per sanzionare nuove aggressioni da parte dell’avversario. Il new look dell’amministrazione repubblicana, come fu prontamente ribattezzato, sfruttava dunque il temporaneo, enorme vantaggio in termini di armi nucleari di cui gli Stati Uniti godevano nei confronti dell’URSS per tenere i russi sotto scacco minacciandoli di ritorsioni violentissime e sproporzionate all’eventuale aggressione da loro perpetrata.
Nel contesto della nuova strategia, l’integrazione europea svolgeva un ruolo fondamentale. Uno dei motivi di fondo che aveva spinto E. a concepire il new look era la sua ferma determinazione a mantenere salda nel lungo periodo la stabilità economica degli Stati Uniti, riducendo le spese per la difesa, sacrificando l’apparato militare convenzionale e scommettendo sulle potenzialità dell’arsenale nucleare. Un’Europa saldamente integrata e parzialmente autosufficiente dal punto di vista militare, oltre a risolvere le tensioni interne al vecchio continente, avrebbe senz’altro favorito il contenimento dell’Unione Sovietica sia riducendone i costi complessivi per gli Stati Uniti, sia compensando con il proprio riarmo convenzionale l’inversione delle spese militari a favore delle armi nucleari che E. intendeva attuare. La nuova amministrazione non fece perciò mistero del proprio incondizionato sostegno per la creazione della Comunità europea di difesa (CED) e più in generale per la causa di un’Europa federale, vista come l’unica soluzione che avrebbe potuto offrire agli Stati Uniti un alleato forte e coeso, un “terzo grande blocco”: come dichiarò qualche anno dopo lo stesso E., se l’Europa si fosse riarmata e federata, gli Stati Uniti avrebbero potuto «in qualche modo ritirarsi e rilassarsi. Per contribuire a realizzare tale sviluppo essi devono dimostrare a tutti i paesi dell’Europa occidentale che ciascuno di essi beneficerebbe dell’unione di tutti e che nessuno avrebbe nulla da perdere»” (discorso tenuto al National security council il, 21 novembre 1955). Questo incondizionato appoggio a una visione federale dell’Europa era però destinato a scontrarsi con le resistenze di una parte delle classi dirigenti francesi, restie a portare fino alle estreme conseguenze l’idea implicita nella CED di un’Europa federale. Le pressioni americane generarono perciò crescenti risentimenti nella IV Repubblica, che però restava strettamente dipendente dagli Stati Uniti non solo per la sua politica di sicurezza ma anche per il crescente supporto fornito da Washington alla guerra che la Francia conduceva per mantenere il controllo sulle sue colonie in Indocina. Dulles arrivò a minacciare una “revisione lacerante” della politica americana verso Parigi se il trattato istitutivo della CED non fosse stato ratificato dall’Assemblea nazionale francese, ma senza nessun effetto.
La mancata ratifica della CED nell’agosto del 1954 aprì non solo una crisi nelle relazioni franco-americane, ma generò anche un parziale ripensamento nell’atteggiamento americano verso l’integrazione europea. Durante i successivi negoziati che risolsero il problema del riarmo della Germania federale mediante la creazione dell’Unione europea occidentale, gli Stati Uniti manifestarono un blando interesse nei confronti di una formula che giudicavano strettamente intergovernativa (v. Cooperazione intergovernativa) e quindi inadeguata a risolvere in maniera strutturale i problemi dell’Europa. Quando poi a partire dal 1955 i sei stati membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) iniziarono a discutere la possibilità di un rilancio dell’integrazione europea, gli Stati Uniti mostrarono un rinnovato interesse sia per la possibilità di un mercato comune sia di un’organizzazione volta a sfruttare a fini pacifici l’energia nucleare, come dimostra la precedente citazione dello stesso E.; al tempo stesso però decisero di adottare nei confronti delle trattative un atteggiamento pubblico di basso profilo per evitare che si ripetesse l’equivoco della CED, e che anche le nuove iniziative potessero apparire all’opinione pubblica e alle forze politiche europee come un progetto esclusivamente di matrice americana. Dietro le quinte, perciò, gli Stati Uniti si adoperarono per favorire la nascita delle nuove comunità, soprattutto nel caso della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), ma nel complesso la loro posizione per tutto il periodo tra il 1955 e il 1957 sembrò decisamente più sfumata che in passato. Paradossalmente, E. influenzò comunque l’andamento delle trattative, sia pure in maniera involontaria. L’atteggiamento ostile tenuto dalla sua amministrazione nei confronti delle scelte effettuate dai governi di Londra e Parigi durante la crisi di Suez dell’estate-autunno del 1956, infatti, suscitò un profondo malumore in molti governi europei, e in particolare nei primi ministri francese e tedesco Guy Alcide Mollet e Konrad Adenauer, spingendoli ad accelerare le trattative per la nascita delle due nuove comunità in modo da bilanciare il peso degli Stati Uniti all’interno dell’Alleanza atlantica mediante la creazione di un’Europa più integrata.
E. fu rieletto presidente per un secondo mandato nel novembre del 1956, dopo un periodo di salute malferma che lo aveva allontanato per alcuni mesi dalla presidenza. Nel suo secondo periodo alla Casa Bianca, le relazioni con l’Europa occidentale furono caratterizzate da crescenti difficoltà, a causa sia della necessità di superare l’eredità negativa di Suez sia di contrastare la sfiducia diffusasi all’interno dell’alleanza atlantica a seguito dei successi conseguiti nel 1957 dall’URSS in ambito strategico con il lancio del primo satellite orbitale, lo Sputnik, e del primo missile balistico intercontinentale (ICBM). Le implicazioni di entrambi quegli avvenimenti minavano infatti alla radice la credibilità della dottrina della rappresaglia massiccia, dal momento che gli Stati Uniti non potevano più impunemente minacciare un’eventuale ritorsione nucleare americana a difesa dell’Europa occidentale contando sulla pressoché totale invulnerabilità del proprio territorio nei confronti di un analogo attacco da parte sovietica. I successi sovietici lasciavano perciò intravedere una potenziale frattura tra la difesa degli Stati Uniti e quella dell’Europa, a meno che non si fosse scelto o di rivedere la dottrina strategica della rappresaglia massiccia, o di rassicurare gli alleati sull’effettiva volontà di far ricorso alle armi atomiche per tutelare la loro sicurezza. Fu su quest’ultimo punto che negli ultimi anni dell’amministrazione di E. si verificò un acceso dibattito con gli europei, che vedevano in una crescente condivisione dell’arsenale nucleare americano l’unico strumento che garantisse loro la piena efficacia dell’Alleanza atlantica. E. si mostrò moderatamente disponibile nei confronti delle richieste degli alleati, e pur nei limiti impostigli dal McMahon Act, la legge del 1946 che impediva agli Stati Uniti di condividere con terzi i propri segreti nucleari, si sforzò di avviare vari progetti in ambito NATO che consentissero di rivitalizzare l’alleanza e di tranquillizzare i propri partner. In particolare, tra il 1957 e il 1960, gli Stati Uniti promossero lo schieramento in Europa occidentale di missili balistici a raggio intermedio (IRBM), per ribadire il proprio impegno a difesa dell’alleanza.
Al tempo stesso, E. cercò di contenere le possibili spinte che dall’interno stesso dell’Europa minacciavano la solidità della struttura euro-atlantica, sia mostrando scarso apprezzamento per i tentativi inglesi di dar vita a una zona di libero scambio che poteva indebolire i primi passi delle nuove Comunità, sia rifiutandosi di accettare le proposte di Charles de Gaulle di creare un direttorio tripartito (Francia, Regno Unito e Stati Uniti) che prendesse in mano la direzione strategica della NATO. Fino al termine del suo mandato, E. rimase convinto che un’Europa coesa sarebbe rimasta il miglior alleato possibile su cui gli Stati Uniti potessero contare, ma le tendenze emerse nel sistema internazionale alla fine del decennio gli impedirono di raggiungere un simile obiettivo. E. rimane comunque uno dei politici americani più importanti per il contributo offerto alla genesi e al rafforzamento delle Istituzioni comunitarie negli anni Cinquanta.
Leopoldo Nuti (2010)