Elezioni dirette del Parlamento europeo
Il diritto dei cittadini comunitari a eleggere i propri rappresentanti al Parlamento europeo (PE) è il frutto di una lunga battaglia politica promossa contestualmente all’avvio del processo di integrazione. A favore delle elezioni europee ha militato una pluralità di soggetti, mossi da motivazioni diverse e talvolta tra loro inconciliabili, classificabili in due categorie ben distinte: da una parte la convinzione, di impronta federalista (v. Federalismo), che il superamento degli egoismi nazionali dovesse necessariamente fare appello a una sovranità nuova «la cui fonte non può che essere che il suffragio universale diretto» (così Paul Reynaud al Congresso dell’Aia del maggio 1948); dall’altra parte l’idea, affermatasi gradualmente, che il “voto europeo”, pur implicando prevedibilmente un riequilibrio dei poteri comunitari a favore del Parlamento di Strasburgo, consentisse di dare una forma di legittimazione democratica allo specifico assetto politico-istituzionale in cui si erano concretizzati i progetti di integrazione, e che era ben diverso sia da quello auspicato dai federalisti, sia da quello puramente confederale (v. anche Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).
Queste distinte motivazioni, e le finalità politiche in esse implicite, sono state visibili soprattutto nelle fasi in cui si è discussa l’elaborazione di un sistema elettorale comune per il suffragio diretto del PE. Ciò in quanto il grado di uniformità delle regole della competizione elettorale ha sempre rappresentato un indicatore affidabile dell’effettiva “europeità” dell’elezione diretta – una caratteristica, quest’ultima, che non è mai stata considerata meramente simbolica. Al contrario, tanto più i parlamentari di Strasburgo potevano essere considerati rappresentanti di una volontà popolare realmente europea (anche in virtù dei meccanismi di espressione di tale volontà) tanto maggiore era lo spazio politico che si apriva ai fautori dell’incremento delle competenze del PE e dell’approfondimento dei vincoli integrativi.
Gli orientamenti di fondo prima riassunti emergono con chiarezza già nel corso degli anni Cinquanta. Tra il 1952 e il 1960 l’ipotesi di un’assemblea europea eletta a suffragio universale con un sistema elettorale comune venne affrontata con continuità, prima dalla Sottocommissione delle istituzioni politiche dell’Assemblea ad hoc (1952-1953) e poi dal Gruppo di lavoro per le elezioni europee, costituito dall’Assemblea parlamentare europea (APE) dopo l’entrata in vigore dei Trattati di Roma. Le proposte della Sottocommissione, guidata dal francese Pierre-Henri Teitgen, confluirono nello Statuto della Comunità europea, che stabiliva alcune regole generali ma rimandava a una successiva legge comunitaria la definizione dei principi del regime elettorale (art. 13). Fino all’entrata in vigore di tale legge, e quindi transitoriamente, le elezioni avrebbero avuto luogo nel territorio degli Stati membri secondo il sistema proporzionale con facoltà di apparentamento. Il progetto cadde in seguito alla mancata ratifica della Comunità europea di difesa da parte dell’assemblea nazionale francese. La questione venne quindi ripresa dal Gruppo di lavoro dell’APE, costituito nell’ottobre del 1958 sotto la presidenza del belga Fernand Dehousse, a cui fu affidato l’incarico di mettere in pratica quanto stabilito dal Trattato sulla Comunità economica europea (CEE), che all’articolo 138 prevedeva la formulazione da parte dell’APE di progetti intesi a promuovere l’elezione diretta secondo una procedura elettorale uniforme in tutti gli Stati membri. Il Gruppo terminò il suo compito nell’aprile del 1960, producendo una proposta estremamente moderata, che prevedeva l’adozione di un regime transitorio durante il quale un terzo dei “rappresentanti dei popoli” all’APE continuava ad essere designato tra i deputati nazionali e i restanti due terzi venivano eletti, ma attraverso procedure stabilite dagli Stati membri. Nonostante i suoi limiti, la “Convenzione Dehousse” fu approvata il 17 maggio 1960 dall’Assemblea e quindi trasmessa al Consiglio dei ministri, al quale, come previsto da un comma dell’art. 138, spettava di stabilire, con Voto all’unanimità, «le disposizioni di cui raccomanderà l’adozione da parte degli Stati membri, conformemente alle loro rispettive norme costituzionali». Il Consiglio, tuttavia, accantonò il progetto di Convenzione a causa dell’ostilità di alcuni governi – in particolare quello francese – nei confronti dei tratti sovranazionali in nuce nelle elezioni europee.
Il vulnus in tal modo arrecato al Trattato CEE fu denunciato, per tutti gli anni Sessanta, dal PE, dalle organizzazioni e dalle personalità europeiste e federaliste, e da alcuni settori dell’opinione pubblica. Soprattutto per il federalismo organizzato, del resto, l’indizione di elezioni dirette del PE rappresentava da sempre un obiettivo prioritario. In questo senso occorre almeno ricordare l’iniziativa del Movimento federalista italiano (v. Movimento federalista europeo), che svolse un’opera di pressione a favore di un’elezione “unilaterale” sfociata in un disegno di legge di iniziativa popolare che venne presentato al presidente del Senato, Amintore Fanfani, nel giugno del 1969. L’esempio dei federalisti italiani fornì lo spunto per azioni legislative simili promosse in altri paesi della Comunità europea, tese al superamento, sul piano nazionale, del veto governativo all’organizzazione del voto europeo.
Ciò nonostante, le elezioni europee tornarono effettivamente nell’agenda comunitaria solo all’inizio degli anni Settanta. Varie furono le ragioni del ripensamento; la più importante fu l’esigenza di intervenire sul rapporto tra opinione pubblica e Istituzioni comunitarie. Proprio in quel periodo, in coincidenza con il passaggio dall’integrazione negativa a quella positiva (e quindi alla formulazione di nuove politiche comuni e all’avvio di progetti di unificazione economica e monetaria), si iniziava ad avvertire un declino del consenso sul processo di integrazione. Eloquente, in tal senso, fu l’inchiesta pubblicata dalla Commissione nel 1972 – definita nell’introduzione come «la più importante che sia mai stata effettuata» – sull’opinione delle nuove generazioni nei confronti dell’integrazione europea. I risultati mostravano che l’ostacolo maggiore al radicamento di un atteggiamento filoeuropeista tra i giovani risiedeva nella natura “tecnoburocratica” della CEE; il rimedio individuato era l’indizione delle elezioni europee, giudicate il mezzo più idoneo per politicizzare e democratizzare il circuito istituzionale comunitario.
In questo quadro, i capi di Stato o di governo, riuniti a Parigi il 9-10 dicembre 1974, affermarono che il suffragio diretto doveva essere organizzato «il più presto possibile”» Si avviò così l’iter, assai contrastato, di preparazione e di organizzazione delle elezioni europee, e conseguentemente si ripropose la vexata quaestio della normativa elettorale comune. Nel nuovo progetto di convenzione, presentato dall’olandese Schelto Patijn e approvato dal PE nel gennaio 1975, si adottava una soluzione poco vincolante, con un basso livello di uniformità. Seguì l’Atto del Consiglio del 20 settembre 1976, base giuridica delle elezioni europee, che fissava alcuni criteri generali ai quali attenersi per la prima consultazione popolare (durata e incompatibilità del mandato, periodicità delle elezioni, ripartizione dei seggi tra Stati membri, ecc.), e rimandava al PE l’incarico di elaborare una procedura uniforme. Fino all’entrata in vigore di tale procedura, le varie fasi delle elezioni sarebbero state disciplinate in ciascuno Stato membro dalle rispettive disposizioni nazionali.
Nei nove Stati allora membri della CEE venne innanzitutto ratificato l’Atto del Consiglio e poi vennero promulgate le leggi nazionali per le elezioni europee; entrambi i processi giunsero a compimento tra molte polemiche, particolarmente vivaci in Francia, Gran Bretagna (v. Regno Unito) e Danimarca a causa dell’opposizione di partiti e movimenti euroscettici (gollisti, comunisti, laburisti, antimarketeers).
Finalmente, tra il 7 e il 10 giugno 1979 i cittadini comunitari si recarono alle urne per determinare la composizione del PE. Prima di soffermarsi brevemente sui tratti salienti delle elezioni europee, che si svolgono con cadenza quinquennale, occorre riprendere il tema della procedura elettorale uniforme, che dal 1980 è stata più volte proposta, ma invano, dal PE (in particolare con i progetti presentati da Jean Seitlinger, Reinhold Bocklet, Karel De Gucht e Georgios Anastassopoulos). Il Trattato di Amsterdam (1997) ha preso atto di queste difficoltà e attraverso la revisione dell’art. 138 ha istituzionalizzato un approccio più realista, derubricando la procedura uniforme a «principi comuni a tutti gli Stati membri» (art. 190). Il nuovo approccio è stato alla base della decisione del Consiglio del 25 giugno e 23 settembre 2002, che ha modificato l’Atto del 20 settembre 1976 onde consentire l’elezione «conformemente a principi comuni a tutti gli Stati membri». Sono state in tal modo imposte alcune regole generali, entrate in vigore per le elezioni del 2004, tra cui un unico sistema elettorale (scrutinio di lista o uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale) e il divieto di cumulare i mandati di parlamentare europeo e nazionale.
Sin dalla prima tornata, le elezioni del PE sono state classificate nell’alveo delle “elezioni di secondo ordine”. Questa interpretazione, benché recentemente contestata (v., tra gli altri, Pasquinucci, Verzichelli, 2004), è quella più diffusa tra gli studiosi, ed è perciò necessario darne conto. Alla sua base vi è l’idea che le elezioni europee siano una sorta di epifenomeno, giacché dipendenti dalla dimensione politico-elettorale nazionale. L’analisi del voto dimostrerebbe la tendenza dell’elettorato a esprimere un “voto di sanzione” contro il governo (nazionale) in carica, oppure un voto di protesta, mentre marginali rimarrebbero le motivazioni di indole “sovranazionale”; l’esame delle campagne elettorali metterebbe in luce la loro mancata “europeizzazione” e la netta prevalenza dei temi “domestici”; i legami transnazionali tra i partiti politici, di cui sono espressione i programmi elettorali comuni, rimarrebbero assai tenui e comunque irrilevanti tanto per la definizione della strategia di raccolta del consenso da parte dei partiti quanto per l’orientamento dell’elettorato; la posta in palio, e cioè la composizione del PE, sarebbe considerata ininfluente dai cittadini, ciò che spiegherebbe, infine, l’assai scarsa partecipazione elettorale.
Proprio il problema dell’astensionismo merita qualche considerazione conclusiva. Non c’è alcun dubbio che esso sia un elemento caratterizzante delle elezioni europee. Tra il 1979 e il 1999 l’affluenza alle urne è passata dal 63 al 49,8%, con una diminuzione costante; nella tornata del 2004, tenutasi dopo l’allargamento ai paesi dell’Europa centro orientale, a Cipro e a Malta, la partecipazione è scesa al 45,6% (con punte minime del 16,9% in Slovacchia e del 20,8% in Polonia). Appare però corretto inserire questi dati, pur con la loro innegabile specificità, nel contesto di una diminuzione della partecipazione elettorale che colpisce anche le elezioni nazionali (presidenziali, politiche e amministrative) nei paesi democratici; anche per questo appare opinabile dedurre da essi la conferma decisiva della natura “secondaria” delle elezioni europee. Resta il fatto, indiscutibile, che la credibilità stessa del PE sembra richiedere interventi efficaci (tanto sul piano europeo che su quello nazionale) per sostenere la mobilitazione elettorale. Ma è ipotizzabile che tali misure possano risultare realmente efficaci solo nel quadro di un ripensamento complessivo del rapporto tra il “centro” (l’UE) e la “periferia” (Stati e attori subnazionali) che conduca, tra l’altro, a una maggiore politicizzazione e democratizzazione del livello comunitario e, conseguentemente, all’attivazione di meccanismi di effettivo controllo e valutazione del processo di decision-making dell’UE da parte dei cittadini e dei loro rappresentanti a livello comunitario.
Daniele Pasquinucci (2008)