Fondo sociale europeo
Introduzione
Presente fin dalla versione originaria del Trattati di Roma, il Fondo sociale europeo (FSE) è stato il primo dei fondi strutturali della Comunità economica europea (CEE), ed è tutt’oggi il principale strumento della Politica sociale comunitaria.
Già il Trattato Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. Trattato di Parigi) prevede l’istituzione di un “fondo di riadattamento”, col compito di finanziare il ricollocamento della manodopera che perda l’impiego a causa delle nuove condizioni di concorrenza stabilite dal mercato comune carbosiderurgico. Creato soprattutto grazie alle pressioni italiane e belghe, a partire dal 1953 esso effettua numerosi interventi, contribuendo alle spese di trasferimento e di riqualificazione professionale di un numero crescente di lavoratori di tutti e sei gli Stati membri.
È anche grazie a tale precedente che, al momento del “rilancio europeo” durante la Conferenza di Messina, la proposta di istituire uno strumento analogo nell’ambito della futura Comunità economica europea trova ampi consensi. Il suo principale sostenitore è comunque il governo di Roma che, oltre alla funzione di ammortizzatore sociale, vede nel nuovo fondo di riadattamento una possibile fonte di risorse finanziarie per lo sviluppo e la lotta alla disoccupazione del Mezzogiorno, obiettivi che lo “schema decennale” del ministro del Bilancio Ezio Vanoni ha appena iscritto ufficialmente nell’agenda politica.
Superata qualche ritrosia dei partner (soprattutto da parte tedesca), tale visione viene sostanzialmente soddisfatta: l’articolo 123 del Trattato CEE prevede infatti l’istituzione di un Fondo sociale europeo, con la missione di migliorare le opportunità d’impiego e di favorire la mobilità geografica e professionale dei lavoratori. A seguito di ulteriori discussioni, iniziate poco dopo l’entrata in vigore del Trattato e protrattesi per oltre due anni, viene approvato un regolamento per il nuovo strumento finanziario che, nominato un comitato di gestione composto di rappresentanti dei governi e delle Parti sociali, nel settembre 1960 può finalmente entrare in attività.
Come previsto dall’articolo 125, il fondo contribuirà alle spese per la rieducazione professionale dei lavoratori licenziati dopo l’entrata in vigore del Trattato e ai costi di trasferimento di chi, fra di essi, sarà costretto a cambiare residenza per lavorare di nuovo. Gli aiuti saranno erogati a titolo di rimborso per spese già effettuate, e subordinati a una dimostrazione della loro indispensabilità ai fini del ricollocamento, vale a dire all’ottenimento in tempi rapidi, da parte della manodopera interessata, di un impiego stabile nel settore di nuova formazione o nella nuova località di residenza.
È presto evidente che tale condizione, stabilita per garantire efficienza alle azioni del fondo, avvantaggia nettamente i paesi più ricchi e con maggiori opportunità di impiego, laddove le risorse per organizzare corsi di formazione sono più facilmente reperibili e, grazie anche alla fase di alta congiuntura degli anni Sessanta, è decisamente più semplice trovare un nuovo lavoro. È così che, dopo pochi anni di attività, la Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) comincia ad assumere una posizione di beneficiario netto del fondo, che la porterà progressivamente ad ottenere più risorse di qualsiasi altro paese membro, Italia compresa.
Sviluppi dell’istituzione comunitaria
Nonostante il riequilibrio dei divari territoriali di sviluppo non figuri fra gli obiettivi ufficiali del FSE – mentre rappresenterà lo scopo primario del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), attivato nel decennio successivo –, fin dall’inizio è ampiamente condivisa l’idea che la sua attività debba concentrarsi prevalentemente nelle zone più povere, prima fra tutte il Mezzogiorno d’Italia. Anzi, al momento della firma del trattato CEE, i sei Stati membri si sono impegnati a favorire un particolare utilizzo delle sue risorse proprio nella lotta alla disoccupazione strutturale del Sud della penisola. I risultati dei primi anni rappresentano quindi una delusione, oltretutto impossibile da correggere a causa del totale “automatismo” del sistema, che impedisce qualsiasi azione di indirizzo politico. Ai difetti propri del fondo si aggiunge infine l’inadeguatezza delle autorità italiane, che in più occasioni si rivelano incapaci di sfruttare le opportunità finanziarie offerte dalla Comunità, omettendo di segnalare situazioni passibili di intervento o non rispettando le forme e i tempi previsti per la presentazione delle domande, e contribuendo così a determinare la distribuzione “distorta” delle risorse del fondo.
Questo insieme di problemi fa sì che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, inizino a levarsi voci favorevoli a una riforma dei suoi meccanismi, voci che trovano appoggi crescenti via via che, anche a causa della progressiva implementazione del mercato comune (v. Comunità economica europea), le economie dei paesi CEE cominciano a presentare esigenze di tipo nuovo. A seguito della lunga fase di crescita, che ha permesso di raggiungere tassi di occupazione spesso non lontani dal pieno impiego, emergono infatti problemi legati alla carenza di manodopera qualificata e al declino delle aree industriali specializzate in settori oramai obsoleti, come il tessile.
Nonostante discussioni ufficiali prendano avvio fin dal 1967, le numerose divergenze fra gli Stati membri permettono di raggiungere un accordo sulla riforma del fondo soltanto quattro anni dopo. Secondo il compromesso finale, al “secondo” Fondo sociale europeo, entrato in vigore nel 1972, sono affidati compiti di due tipi: tamponare le ripercussioni sociali delle politiche comunitarie, sulla base di priorità che il Consiglio dei ministri stabilirà di volta in volta, e intervenire a sostegno dell’occupazione nei settori e nelle regioni con maggiori difficoltà, al fine di eliminare un serio ostacolo allo sviluppo armonioso delle politiche comuni.
Il secondo aspetto intende sia dare una risposta ai processi di deindustrializzazione in atto, sia accontentare il governo di Roma, che nel corso delle discussioni non ha mai cessato di richiamare l’attenzione sui problemi del Mezzogiorno. È, anzi, proprio a seguito delle insistenze italiane, che per i primi anni si decide di destinare almeno il 50% delle risorse del nuovo FSE alla lotta contro la disoccupazione strutturale nelle regioni in ritardo di sviluppo.
Il fondo riformato sembra inoltre garantire maggiore efficacia grazie anche all’introduzione di una serie di novità normative. Ad esempio l’istituzione, nel 1970, di un sistema di Risorse proprie della Comunità, eliminando la dipendenza dai finanziamenti degli Stati membri, permette di abolire ogni automatismo nell’erogazione dei contributi, sottoponendoli invece all’approvazione della Commissione europea. Altra novità di rilievo è l’estensione del diritto a richiedere i finanziamenti, dalle sole autorità pubbliche, come nel primo FSE, agli operatori privati. Per avere un’idea dell’incremento di efficacia ottenuto con i nuovi meccanismi, basti pensare che in soli due anni di attività il secondo FSE supera la cifra di 420 milioni di unità di conto (equivalenti a dollari USA) erogata dal predecessore in più di un decennio.
I primi a beneficiare dei suoi aiuti, sulla base di una decisione del Consiglio, sono i lavoratori dei settori agricolo e tessile. Nel primo caso gli interventi mirano alla riqualificazione di chi abbandona l’agricoltura per cercare lavoro nell’industria, nel secondo a formare la manodopera delle imprese in difficoltà per effetto della crescente concorrenza internazionale. Ma sempre più spesso, negli anni successivi, i destinatari degli aiuti saranno individuati in base non al settore economico di provenienza, ma alla loro appartenenza a categorie sociali con oggettive difficoltà di inserimento sul mercato del lavoro. Così, ad esempio, saranno via via destinatari degli interventi del FSE i lavoratori migranti, i portatori di handicap, i disoccupati con meno di 25 anni, le donne. Parallelamente prendono avvio le misure di intervento strutturale, le quali, non essendo in relazione con la realizzazione di politiche comuni, non richiedono alcuna decisione del Consiglio, e possono contribuire a finanziare le azioni avviate dai singoli Stati membri nel quadro delle politiche per l’occupazione nazionali.
Il FSE di fronte alla crisi petrolifera degli anni Settanta e all’allargamento della CEE negli anni Ottanta
Gli effetti della crisi petrolifera, e il conseguente aumento del fabbisogno di risorse, spingono il Consiglio ad approvare, nel dicembre 1977, una nuova decisione che amplia ulteriormente la capacità di azione del fondo e l’articola su quattro direttrici: l’aggiornamento della manodopera ai cambiamenti tecnologici, gli interventi per i lavoratori di settori in difficoltà a causa di nuove condizioni di produzione o di commercializzazione, le misure per favorire l’inserimento dei portatori di handicap sul mercato del lavoro, la formazione della manodopera disoccupata o sottoccupata nelle regioni in ritardo di sviluppo o in declino industriale. Quest’ultimo rappresenta in sostanza il lato “risorse umane” della neonata politica regionale comunitaria (v. anche Politica di coesione), nel cui quadro il Fondo europeo di sviluppo regionale provvede invece allo sviluppo infrastrutturale. Le regioni ammesse a tale tipo di intervento sono infatti le stesse per i due fondi.
Dato il numero crescente di domande, il cui ammontare spesso eccede le risorse disponibili, la Commissione inizia inoltre a fissare scale di priorità, per cui determinate operazioni (generalmente quelle ammesse al finanziamento di più fondi strutturali, o quelle realizzate congiuntamente da più Stati membri) hanno la precedenza, e solo se dopo il loro completamento vi è ulteriore disponibilità di risorse, possono essere finanziati interventi di tipo diverso. Un’ulteriore novità sta infine nell’applicazione delle norme del fondo anche ai lavoratori autonomi, che fino a quel momento ne sono rimasti esclusi. È facilmente comprensibile come, pur rimanendo sostanzialmente nel quadro giuridico stabilito nel 1971, dopo i cambiamenti del 1977 si parli di “terzo” Fondo sociale europeo.
Ma ben presto neanche le nuove regole sono più sufficienti. Alla crisi di metà anni Settanta si aggiungono sia gli effetti dello shock petrolifero di fine decennio, sia le difficoltà strutturali causate dalla concorrenza sempre più agguerrita dei paesi di nuova industrializzazione. Ne deriva un incremento dei divari di sviluppo fra le regioni europee, accompagnato da un aumento del tasso di disoccupazione medio fino a oltre il 10% (livello che l’Europa non registra da decenni), concentrato soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione (il 40% dei disoccupati ha meno di 25 anni). Nella nuova situazione, i programmi di lotta alla disoccupazione giovanile prontamente varati dalla Comunità si rivelano rapidamente insufficienti, e l’esigenza di una nuova riforma del fondo si pone in modo pressante.
Nell’ottobre 1983 nasce così il “quarto” FSE, il cui regolamento da una parte stabilisce che almeno il 40% delle risorse totali debba essere impiegato nelle cosiddette “regioni a priorità assoluta” (Mezzogiorno d’Italia, Grecia, Irlanda, Irlanda del Nord, Groenlandia e Dipartimenti francesi d’Oltremare; dal 1° gennaio 1986 vi si aggiungeranno il Portogallo e nove regioni spagnole, e la percentuale sarà elevata al 44,5%), dall’altra, nel quadro di un’azione generale per l’inserimento lavorativo delle categorie più svantaggiate, destina alla lotta contro la disoccupazione giovanile i ¾ delle disponibilità del fondo, riservando la quota rimanente agli altri gruppi sociali (le donne, i disoccupati di lunga durata, i migranti, ecc.).
Il nuovo fondo esercita un’azione d’indubbia efficacia, contribuendo a finanziare la formazione di oltre due milioni di lavoratori all’anno. Ma ancora una volta l’enorme quantità di domande crea difficoltà di gestione e determina una costante scarsità di risorse, alla quale la Commissione risponde riducendo sistematicamente le somme da erogare rispetto alle richieste. A fine decennio è quindi necessaria l’ennesima riforma, anche allo scopo di adeguare il fondo alle novità introdotte dall’Atto unico europeo, i cui obiettivi esigono un maggior coordinamento fra i fondi strutturali della Comunità.
Nel 1988 si ha quindi una profonda revisione dell’intera politica strutturale comunitaria, che assume ora una fisionomia completamente nuova, articolandosi su cinque obiettivi generali: il riequilibrio delle regioni in ritardo di sviluppo; l’aiuto alle regioni colpite da declino industriale; la lotta alla disoccupazione di lunga durata; l’inserimento professionale dei giovani; l’adattamento delle strutture agricole e lo sviluppo rurale, anche nella prospettiva di una riforma della Politica agricola comune.
È in tale contesto che nasce il “quinto” FSE, competente per tutti e cinque gli obiettivi ma con diverso raggio d’azione nelle varie regioni. Nelle aree comprese nel primo, nel secondo e nel quinto obiettivo, sulle quali hanno competenza anche altri fondi strutturali, la destinazione degli aiuti va ben oltre le abituali categorie, fino a comprendere la formazione di manodopera già occupata e di funzionari pubblici operanti nel settore delle politiche strutturali. Nelle altre zone, dove il fondo agisce con competenza esclusiva per il terzo e il quarto obiettivo, i suoi interventi toccano invece sfere più limitate: nel primo caso la formazione dei disoccupati da più di un anno e delle donne che intendono reinserirsi dopo una lunga interruzione di carriera, nel secondo quella dei giovani in cerca di un impiego stabile al termine degli studi. La riforma stabilisce inoltre un cospicuo aumento delle risorse del FSE, il cui budget per il periodo 1989-1993 supera i 20 miliardi di ECU (v. Unità di conto europea) (quello totale dei fondi strutturali è di circa 63 miliardi): oltre la metà di questi finirà in operazioni nelle regioni del primo obiettivo, circa 1/3 rientrerà nel terzo e quarto obiettivo.
Sempre nel quadro del FSE, nel 1990 la Commissione destina 760 milioni di ECU all’attivazione di tre iniziative comunitarie volte a sperimentare nuovi approcci nel settore della formazione delle risorse umane. Si tratta di “Euroform”, che punta a favorire la diffusione delle nuove competenze richieste nel mercato unificato, “Now”, per la promozione delle pari opportunità in materia di lavoro e formazione, e “Horizon”, per aiutare l’inserimento lavorativo dei portatori di handicap. Mirando a promuovere una “dimensione comunitaria” che possa gradualmente sostituirsi alle prassi nazionali, esse riservano i propri finanziamenti alle proposte presentate congiuntamente da soggetti provenienti da almeno due diversi paesi membri della Comunità.
Le nuove sfide degli anni Novanta
Un nuovo cambiamento si rende però necessario con l’entrata in vigore del Trattato sull’Unione europea (v. Trattato di Maastricht), che assegna al fondo il nuovo compito di facilitare l’adattamento ai cambiamenti tecnologici e produttivi. A partire dal 1993 questo diviene il nuovo quarto obiettivo della politica strutturale, mentre nel terzo obiettivo sono accorpati la lotta alla disoccupazione giovanile e di lunga durata e la promozione delle pari opportunità (a seguito dell’adesione all’Unione europea di Svezia e Finlandia, nel 1995, verrà stabilito anche un “sesto obiettivo”, consistente nello sviluppo delle aree a bassissima densità di popolazione). Il “sesto” FSE gestisce quindi la nuova versione del terzo e quarto obiettivo, pur continuando ad agire, nel quadro degli altri obiettivi, anche nelle regioni interessate da interventi strutturali che richiedano un rafforzamento del potenziale umano. Il suo budget per il periodo 1994-1999 è pari a circa 42 miliardi di ECU.
Secondo il modello già sperimentato nel 1990, nel 1994 la Commissione avvia inoltre un programma con ben 14 nuove iniziative comunitarie, fra le quali le tre denominate “Occupazione”, dedicate rispettivamente all’inserimento lavorativo di donne, giovani e portatori di handicap, e una, “Adapt”, tesa a promuovere la formazione della manodopera per facilitarne l’adattamento ai cambiamenti economici e tecnologici.
Il regolamento n. 1.784 del 1999, sulla base delle proposte avanzate dalla Commissione nel documento programmatico noto come “Agenda 2000”, apporta nuovi cambiamenti volti a rafforzare la politica strutturale comunitaria e a promuoverne la semplificazione, in modo da consentirne anche un migliore adattamento all’ormai imminente Allargamento a Est dell’Unione. Ciò significa, innanzitutto, una nuova ridefinizione degli obiettivi strutturali, accorpati ora in tre sole categorie: mentre il primo obiettivo mantiene le sue caratteristiche tradizionali, il secondo comprende adesso il sostegno alla conversione socioeconomica di tutte le aree in declino, siano esse industriali, rurali o urbane, mentre il terzo concerne, in generale, l’adattamento e la modernizzazione dei sistemi di istruzione e formazione e dei meccanismi di collocamento. La riforma si inserisce anche nel quadro della strategia europea per l’occupazione varata nel 1997 che, prefiggendosi di aumentare le opportunità d’impiego e di migliorarne la qualità, ha istituito forme di coordinamento fra le Politiche per l’occupazione nazionali e comunitarie basate su orientamenti generali decisi in sede di Consiglio europeo.
A questi cambiamenti fa riscontro anche un sostanzioso aumento del budget dei fondi strutturali, passato dai 140 miliardi di ECU del periodo precedente ai 195 miliardi di Euro per il 2000-2006. In tale contesto, ben 60 miliardi sono assegnati al FSE e ai suoi tradizionali settori d’intervento: lotta alla disoccupazione giovanile, femminile o di lunga durata, sviluppo delle Pari opportunità in materia di accesso al mercato del lavoro e formazione di manodopera altamente qualificata che sappia adattarsi alle innovazioni tecnologiche e a tutti i cambiamenti dell’ambiente lavorativo (v. anche Politica della formazione professionale).
Sulla base di un accordo con la Commissione, le risorse disponibili sono preventivamente ripartite fra i tre obiettivi strutturali e fra gli Stati membri, dopodiché la gestione è affidata alle singole autorità nazionali o regionali.
Dato il carattere trasversale del terzo obiettivo, il FSE è in questa fase l’unico fondo strutturale che agisce su tutto il territorio dell’Unione. Esso finanzia inoltre il programma “Equal” che, con un budget di 3 miliardi di Euro per il periodo 2000-2006, sostituisce le precedenti iniziative comunitarie “Occupazione” e “Adapt” nella ricerca di una dimensione europea della lotta alle discriminazioni sul mercato del lavoro. Lo 0,40% delle risorse è infine destinato alle cosiddette “azioni innovative”, operazioni pilota tese a individuare ogni possibile miglioramento nell’attuazione delle attività finanziate dal fondo stesso.
Com’era prevedibile, le problematiche emerse a seguito dell’allargamento a Est hanno consigliato una nuova ristrutturazione generale del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), i cui aspetti più visibili sono l’inizio di una lenta riduzione delle spese per la politica agricola comune e un parallelo aumento di quelle per i fondi strutturali. La dotazione finanziaria totale di questi ultimi, per la nuova fase di programmazione relativa al periodo 2007-2013, è stata infatti portata a 308 miliardi di euro, mentre, contestualmente, sono state di nuovo ripensate le linee generali della loro azione. In particolare, mentre l’obiettivo “Cooperazione territoriale europea”, che ha sostituito l’insieme delle iniziative comunitarie (compresa “Equal”), è oggi finanziato soltanto dal fondo regionale, ai due obiettivi maggiori, “Convergenza” (successore del vecchio primo obiettivo e degli interventi del Fondo di coesione) e “Competitività regionale e occupazione” (erede del secondo e del terzo obiettivo), contribuisce, per le materie di sua tradizionale competenza, anche il Fondo sociale europeo.
Lorenzo Mechi (2007)