Gaja, Roberto
G. (Torino 1912-Roma 1992) entrò in diplomazia nel 1937, assolvendo i primi incarichi all’estero a Hannover e Bastia. Rientrato a Roma nel febbraio 1943, raggiunse, dopo l’8 settembre, il ministero che si ricostituiva a Salerno, ove divenne collaboratore del segretario generale, Renato Prunas. Dopo la guerra, fu chiamato a far parte della Rappresentanza italiana presso il territorio libero di Trieste, poi a Tripoli, per prepararvi la costituzione del regno senussita, a Parigi e a Sofia. Ricoprì le cariche di direttore degli Affari politici (1964-1969), segretario generale (1969-75) e Ambasciatore a Washington, dove concluse la carriera nel 1977. Fu successivamente direttore della rivista “Affari esteri”, dal 1978 alla scomparsa, docente di relazioni internazionali, editorialista di politica estera e scrittore (tra le sue opere spicca la biografia di un grande diplomatico suo conterraneo, che guidò per un quindicennio la politica del regno sardo e ne rinnovò l’amministrazione: Il marchese d’Ormea, pubblicato nel 1988).
Nel ricordo di quanti collaborarono con lui, G. era per molti versi il diplomatico della belle époque, dai modi riservati e cortesi. Ma fu soprattutto un caparbio sostenitore dell’ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’Occidente. Non si può capire un uomo e un funzionario della sua generazione senza riandare alla crisi dell’8 settembre 1943, su cui scrisse in tarda età pagine rivelatrici. L’auspicio di un ritorno dell’Italia nel consesso delle nazioni libere e democratiche contribuì a far superare a G. il duplice trauma della disfatta e della fine della monarchia che per lui, “sabaudo di cappa e spada”, rappresentò un momento molto difficile. Ma G. era uomo che sapeva distinguere i sentimenti dalla ragione e si rivelò uno dei grands commis più efficaci che la nuova diplomazia italiana potesse annoverare sul palcoscenico internazionale.
G. non fu, in senso stretto, uno degli artefici della politica europeista dell’Italia, come lo furono, nella stessa generazione, il suo “eterno rivale” Roberto Ducci, o ancora Attilio Cattani, Giorgio Bombassei, Eugenio Plaja, Francesco Guazzaroni, e i più giovani Renato Ruggiero, Raniero Vanni d’Archirafi e Pietro Calamia. Non si trovò mai in sede a Bruxelles e la sua carriera fu quella di un classico “bilateralista” e un “atlantista”, con una tarda ma importante missione a Washington, che non sfigurò dopo quelle, di ben maggiore durata, di Manlio Brosio, Sergio Fenoaltea ed Egidio Ortona, precedendo altri colleghi, due dei quali, Boris Biancheri e Ferdinando Salleo, avrebbero anche seguito le sue orme quali segretari generali del ministero. G. apparteneva a una tradizione per la quale diplomazia era ancora sinonimo di cultura umanistica, non solo di arido tecnicismo. Era inoltre permeato di valori cristiani, a cominciare dalla pace (anche se non disarmata). Si spiega così la dedica di un suo libro a Giorgio La Pira.
Eccellente organizzatore, G. fu uno degli artefici della prima, fondamentale riforma dell’ordinamento dell’amministrazione degli Affari esteri (D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18). Vi era già adombrata la necessità di preparare i funzionari italiani ai compiti di una diplomazia europea, come ora previsto espressamente dall’art. III-296 c. 3 del Trattato costituzionale (servizio europeo per l’azione esterna) (v. Costituzione europea; Trattato di Lisbona). G. si batté anche per la creazione di una scuola di formazione del ministero e fu tra i promotori dell’odierno Istituto diplomatico.
La vocazione europeista di G. nacque da tre fattori congiunti: il collasso della nozione di grande potenza sul continente, che aveva alimentato in trent’anni due guerre civili europee divenute guerre mondiali e risolte solo dall’intervento extraeuropeo; la conseguente subordinazione dell’Europa nelle sfide strategiche della Guerra fredda ormai dominate dal confronto nucleare; l’allontanamento dall’Europa, quale entità di riferimento, delle ex colonie dell’Africa e del mondo arabo. Concettualmente, il punto di partenza era per lui «la decadenza politica dell’Europa» (v. Gaja, 1986, pp. 48 e ss.), che poteva trovare un correttivo solo attraverso l’unità del nostro continente. Il paradosso del secondo dopoguerra era infatti che un’Europa sempre più ricca e dinamica, ormai grande potenza anche finanziaria e commerciale, aveva dovuto registrare una perdita d’influenza nei confronti di Stati Uniti, Russia e, un domani non lontano, anche Cina. Anche per questo, G. fu uno dei sostenitori del riconoscimento italiano della Cina comunista, nonostante certe perplessità d’oltre Atlantico, intuendo il potenziale di scambi tra l’Europa e il mercato cinese: tema, come si vede, oggi nuovamente di attualità.
Ma fu essenzialmente sui problemi strategici e sul fattore nucleare che G. si cimentò come studioso e protagonista della diplomazia, in una serie di saggi che furono tra i primi dedicati in Italia a questa materia (pubblicati sotto lo pseudonimo di R. Guidi: v., 1959 e 1964). Il ridimensionamento postbellico dell’Europa comportava per gli stati del vecchio continente, in particolare per l’Italia, una scelta di campo atlantica, che andava tuttavia attuata nella consapevolezza che «L’Italia è una potenza esclusivamente europea e la nostra importanza è legata all’importanza collettiva dell’Europa», come scrisse trenta e più anni fa (v. Serra, 1970). Deterrente regionale e ancorato alle strategie dell’Alleanza atlantica; tale, nondimeno, da restituire agli europei il senso di una missione comune e non più da “debitori netti” di sicurezza nel confronto Est-Ovest.
Questa ipotesi subì una netta inversione con il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) di cui G. fu uno dei principali negoziatori per l’Italia, per quanto negoziatore sofferto in quanto le sue convinzioni non collimavano sempre con le istruzioni che riceveva. L’adesione del nostro paese al trattato, nel gennaio 1969 rappresentò una scelta difficile, che corrispondeva però a un’ampia convergenza politica interna: non per nulla, fu presa dal governo di centro-sinistra, con l’apporto del Partito comunista italiano. Il trattato riconosceva in larga misura gli interessi convergenti delle potenze nucleari, di fatto USA e URSS, rispetto alle prospettive di una deterrenza nucleare europea, che l’Italia aveva precedentemente perseguito, sia pure con varie attenuazioni, insieme con Francia e Germania. È vero che l’opzione europea era diventata meno realistica da quando il generale Charles de Gaulle aveva avviato il programma della “force de frappe”, ed era probabilmente tramontata a Nassau, nel dicembre 1962, quando, con grave irritazione del generale, John Kennedy e Harold Macmillan si accordarono per la fornitura di missili Polaris al Regno Unito. Nondimeno, mancava un atto internazionale che sancisse l’irreversibilità per gli altri europei della rinuncia all’arma atomica e non vi era, secondo G., ragione di farlo, perlomeno in mancanza di adeguate contropartite.
Anni dopo, tornando a riflettere su quella vicenda, G. riconobbe che il TNP era «obiettivamente un accordo anti-europeo» (v. Gaja, 1986), che vanificava quella “clausola europea” che l’Italia (ossia, il negoziatore G.) si era battuta per far inserire nel testo. In tal modo, la sicurezza dell’Europa veniva affidata definitivamente alle armi nucleari americane. Ma ciò comportava il pericolo che l’URSS potesse accedere prima o poi all’obiettivo di “denuclearizzare” e controllare il vecchio continente. Una strategia che si delineò, subito dopo l’entrata in vigore del TNP, nel 1970, con la lunga battaglia degli euromissili.
Con la fine del confronto Est-Ovest e l’avvio della “bipolarità zoppa”, come la definì G., l’idea di un’Europa quale potenza nucleare regionale era destinata a perdere qualsiasi significato residuo. Molto più rilevante diventavano, ai suoi occhi, la collaborazione europea nel campo della ricerca spaziale, soprattutto nei settori più innovativi dell’energia applicata allo spazio, dalle incalcolabili conseguenze anche sulla tutela e lo sviluppo dell’ambiente: «L’Europa, se vuol sopravvivere, deve realizzare al più presto una sua dimensione spaziale di tale impegno, grandezza e sofisticazione da rendere inevitabile la sua partecipazione a qualsiasi trattativa fra Stati Uniti e Russia in proposito» (ibid.). Occorreva, insomma, evitare di ripetere l’errore già compiuto sul nucleare.
Questo messaggio riappare, con una nota di preoccupazione in una raccolta di scritti che G. non poté ultimare, per la morte improvvisa (v. Gaja, 1995). Come molti diplomatici che avevano attraversato dall’inizio alla fine l’esperienza della Guerra fredda, con le sue dure ma in buona misure prevedibili realtà, G. aveva salutato con molte speranze ma anche con realismo il nuovo scenario aperto dalla caduta del muro di Berlino (v. Germania). Ne intuiva le inedite aperture, ma temeva il risorgere violento del nazionalismo e la crescita dell’anarchia internazionale. Intuiva anche la deriva che avrebbe portato dal mondo bipolare alla “bipolarità zoppa” fino all’unilateralismo. Il rischio che un’Europa, unita “ma non troppo”, avviata al federalismo, ma percorsa da refoli sciovinisti, prospera ma restia a pagare per la propria sicurezza, non sapesse cogliere le opportunità offerte dal dopo Guerra fredda e dalla “de-ideologizzazione” della politica estera è il punto finale della riflessione di G. Egli vedeva in principio con favore l’Allargamento dell’Unione europea all’ex Europa comunista, di cui conosceva il potenziale, sin dai tempi della missione a Sofia; ma era meno attratto dalla realizzazione di un’Unione a più velocità, che avrebbe reso più difficile la formazione di un’identità comune di politica estera e di difesa (v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). Nella sua lunga ed esemplare carriera, aveva visto l’Europa soccombere troppo spesso ai nemici esterni e interni, per non sentirsi autorizzato a rivolgere questo monito alla nuova generazione destinata a tradurre in realtà la costituzione per l’Europa.
Maurizio Serra (2010)