Gustav Heinemann e la riunificazione tedesca
Per cogliere l’importanza, ma anche la singolarità, del percorso politico di H. nella storia politica tedesca del secondo dopoguerra occorre risalire al 1950, a quando cioè H. decise di rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni del primo governo Adenauer, incarico che all’epoca ricopriva da appena un anno. Lo strappo si consumò sulla questione del riarmo tedesco, un argomento che nel breve termine avrebbe assunto un significato strutturante nella storia politica tedesca, segnando in maniera ancor più netta il solco tra i fautori della politica di piena integrazione con l’Occidente e coloro i quali temevano, invece, che una siffatta politica avrebbe reso permanente la divisione del paese. In particolare, H. si schierò tra questi ultimi, ritenendo che il recupero di sovranità e la parità di diritti non costituissero un obiettivo, ma un presupposto necessario per evitare lo scoppio di una guerra civile tra i tedeschi dell’Ovest e i tedeschi dell’Est. A suo avviso inoltre non vi era alcuna necessità di fornire un contributo militare al sistema difensivo occidentale, dato che gli alleati si erano impegnati a garantire incondizionatamente la sicurezza della Repubblica federale, e occorreva altresì scongiurare a tutti i costi il pericolo di un risveglio del militarismo tedesco; l’Unione Sovietica avrebbe potuto interpretare il riarmo come una provocazione e reagire con una guerra preventiva (v. Heinemann, 1977, pp. 97-107). La contrapposizione tra gli integrazionisti e i nazional-neutralisti non trovò, d’altra parte, perfetta corrispondenza nel rapporto governo-opposizione. Vi furono, infatti, anche nazional-neutralisti della prima ora come il cristiano-democratico Jakob Kaiser, che all’epoca decisero di continuare la loro battaglia per la Germania unita rimanendo all’interno della compagine governativa. Questa circostanza conferisce al gesto di H. un rilievo ancor maggiore, anche se tra le ragioni contestuali che motivarono la sua scelta di rassegnare le dimissioni da ministro degli Interni vi fu certamente il risentimento personale per il modo con il quale era stato, di fatto, esautorato dalle sue competenze di responsabile per la sicurezza (v. Vinke, 1986). Dal canto suo, Adenauer stigmatizzò l’atteggiamento di H. come quello di un pacifista privo di senso della realtà (v. Schwarz, 1986, pp. 766-774). Il cancelliere renano avrebbe, tuttavia, atteso sei settimane prima di accettare formalmente la richiesta di dimissioni di H., temendo che questo atto avrebbe potuto avere ripercussioni negative sugli equilibri politico-confessionali interni alla maggioranza. H. era pur sempre un autorevole rappresentante della minoranza evangelica nella CDU, nonché presidente del Sinodo della Chiesa evangelica. Il tentativo di H. e di Niemöller di capitanare la componente protestante fuori dalla CDU s’infranse, però, dinanzi all’opposizione della corrente filoadenaueriana, che era interessata a preservare la natura interconfessionale dell’unione (v. Doering-Manteuffel, 1988, pp. 317-335).
Passato all’opposizione, H. cercò di costruirsi da solo la propria casa politica ideale, con la costituzione di un movimento politico, “L’unione d’emergenza per la pace europea”, e, nel 1952, attraverso la creazione di un nuovo partito, il Partito popolare per la Germania unita. Tra gli esponenti di spicco della Gesamtdeutsche Volkspartei si ricordano, in particolare, la cofondatrice Helene Wessels, Erhard Eppler e Johannes Rau. Le linee guida del partito erano prevalentemente centrate sulla questione nazionale, come si legge anche nel manifesto programmatico che venne presentato il 29 e 30 novembre 1952:
«Noi vediamo l’obiettivo centrale della politica estera tedesca nel mantenimento della pace e nella riunificazione del nostro popolo in un’unica entità statale […]. La Germania come terra di mezzo e senza vincoli coloniali deve tenersi al di fuori degli schieramenti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica […]. Una posizione per la Germania unita esige l’indipendenza sia da Est che da Ovest […]»(v. Gallus, cit., p. 82 e ss.).
Portatrice in ambito internazionale di una posizione neutralista e del non allineamento, sul piano della politica interna la GVP si riconosceva pienamente nei principi della cultura occidentale e, in particolare, in quelli della democrazia parlamentare e del cristianesimo sociale. Il partito di Gustav H. e di Helene Wessels si rivelò, tuttavia, troppo di nicchia per poter sopravvivere, come la FDP, a quel fenomeno di crescente concentrazione del voto a vantaggio dei due grandi partiti popolari. Sull’esito fallimentare registrato alle elezioni del 1953 – la GVP ottenne solamente l’1,6% dei consensi – sembrerebbe, peraltro, aver pesato in maniera significativa anche l’impatto emotivo degli avvenimenti del 17 giugno 1953 e il conseguente discredito delle posizioni neutraliste. La GVP si sciolse nel maggio 1957, comportando l’ingresso di una parte dei suoi militanti tra le file della SPD (v. Müller, 1990).
L’approdo di H. alla socialdemocrazia tedesca non fu scontato, ma neanche un incidente della storia. In particolare, H. era stato, insieme ad alcuni esponenti della SPD, uno dei principali ispiratori del “Manifesto tedesco” del 1955, ovvero di quel disegno che prevedeva di svincolare la Repubblica federale e la Repubblica democratica dai due sistemi di alleanze militari vigenti e di realizzare l’unificazione all’interno di un sistema di sicurezza collettivo sotto l’egida delle Nazioni Unite. L’entrata in vigore dei Trattati di Parigi del 1954-1955 segnò il definitivo tramonto dell’illusione di poter risolvere il problema della divisione del paese prima che la Repubblica federale venisse assorbita in un sistema di alleanze militari. Con l’ingresso della Repubblica federale nella NATO, la questione della difesa venne, d’altra parte, separata da quella dell’integrazione europea, così che, a partire da quel momento, risultò sicuramente meno compromettente per le correnti nazional-neutraliste sostenere il progetto di un’Europa unita centrato sull’integrazione economica. La risoluzione della questione della Saar, dopo la bocciatura nell’ottobre 1955 del referendum per l’europeizzazione del territorio, aveva poi eliminato un secondo importante motivo, che fino ad allora aveva reso difficile sostenere il processo d’integrazione. In questo contesto, anche H. supportò la decisione della SPD di votare nel 1957 a favore della ratifica dei trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom).
Gli sviluppi sulla scena internazionale non fecero, però, cambiare idea a H. rispetto alla necessità di esplorare la via del dialogo con l’Unione Sovietica al fine di trovare una soluzione al problema della divisione del paese. Al riguardo, è nota la circostanza che vide H., insieme al liberale Thomas Dehler, sferrare nel gennaio 1958 uno dei più duri attacchi al governo Adenauer che si ricordino nella storia parlamentare tedesca. Nella seduta del 23 e 24 gennaio i due ex ministri del governo Adenauer denunciarono senza mezzi termini il “fallimento” della politica governativa per la riunificazione del paese. Particolarmente efficace (anche se successivamente confutata dagli storici) fu l’accusa rivolta al cancelliere renano di aver deliberatamente sprecato nel 1952, con riferimento alla nota Stalin, la presunta grande opportunità di giungere a una soluzione di compromesso con i sovietici sulla questione nazionale. Il discorso pronunziato da H. in quella occasione è, peraltro, emblematico di quanto il suo impegno politico fosse pervaso dalla sua religiosità. Significativo, in particolare, il passaggio in cui H. paragonò Adenauer a un crociato: «Ritiene che sia una cosa buona che l’Occidente si schieri come un fronte cristiano? Non si tratta di una lotta del cristianesimo contro il marxismo, ma della presa di coscienza che Cristo non è morto contro Karl Marx, ma per tutti noi!» (v. Schwarz, 1991, p. 405 e ss.].
Come membro della Commissione parlamentare agli Affari esteri, H. continuò a occuparsi di politica estera e della questione della divisione del paese anche nel decennio successivo, fino a quando nel 1966 fu chiamato a ricoprire l’incarico di ministro della Giustizia nel governo di Grande coalizione presieduto da Kurt Georg Kiesinger. Al bilancio sostanzialmente positivo della prima esperienza consociativa della storia politica tedesca, H. contribuì con l’importante riforma del diritto penale che, tra le altre cose, portò all’abolizione della prescrizione per i crimini di genocidio.
Fortemente sostenuto da Willy Brandt, che di lì a breve sarebbe divenuto il primo cancelliere socialdemocratico della Bundesrepublik, il 5 marzo 1969 H. fu eletto Presidente della Repubblica ottenendo al terzo scrutinio il 50% dei consensi. Così come era avvenuto in occasione dell’elezione di Theodor Heuss e di Heinrich Lübke, rispettivamente venti e dieci anni prima, anche le elezioni presidenziali del 1969 contribuirono a rendere più chiaramente riconoscibili le dinamiche all’interno e tra le principali forze politiche del paese, anticipando la configurazione partitica della successiva coalizione di governo. Lo stesso H., in una intervista rilasciata il 6 marzo alla “Stuttgarter Zeitung”, definì la sua elezione come un «frammento di cambio di potere». In particolare, l’indisponibilità della CDU a sostenere un esponente socialdemocratico e la decisione della SPD di presentare H. come candidato di punta decretarono anzitempo la fine dell’esperienza consociativa della Grande coalizione. Allo stesso modo, la divisione sulla scelta del candidato che si consumò all’interno della CDU sui nomi di Gerhard Schröder e di Richard von Weizsäcker, la grande disciplina di partito esibita invece dalla SPD al momento dell’elezione di H. e la convergenza dei liberali di Scheel sul candidato socialdemocratico prefigurarono la possibilità di un accordo tra SPD e FDP in vista delle imminenti elezioni per il Bundestag.
H. è stato uno dei presidenti federali più dinamici, ma anche più discussi nella storia politica tedesca, se non altro per il ruolo di moralizzatore che cercò di esercitare in una fase segnata dalle proteste studentesche e dalla crescita di consensi delle forze politiche extraparlamentari. Lo stile informale, la capacità di intercettare con i suoi discorsi i bisogni della gente comune e la particolare attenzione che dedicò alla causa della riconciliazione dei popoli del continente europeo gli valsero il soprannome di “presidente dei cittadini” (Bürgerpräsident).
Gabriele D’Ottavio