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Hallstein, Walter

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H. (Magonza 1901-Stoccarda 1982) proveniva da una famiglia borghese di confessione evangelica. Suo padre, Jakob, era consigliere governativo per l’edilizia. Dopo il ginnasio a Magonza, durante il quale dimostrò un’acuta sensibilità storica per l’opera di Bismarck, H. studiò scienze giuridiche a Bonn, Monaco e Berlino, indirizzandosi quindi alla carriera accademica sotto la guida del giurista Martin Wolff, grande nome dell’ateneo berlinese negli anni Venti. Nel 1925 conseguì sotto la direzione di Wolff la Promotion (dottorato di ricerca), con una dissertazione di diritto privato sull’istituto del contratto di assicurazione sulla vita nelle clausole del Trattato di Versailles, e ne divenne l’assistente nella facoltà di Giurisprudenza. Nel 1927 fu chiamato come ricercatore all’Institut für Ausländisches und Internationales Privatrecht della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft, specializzandosi nel diritto dell’azionariato internazionale. Conseguita la Habilitation (libera docenza) nel 1929 in diritto privato e commerciale presso la facoltà di Legge berlinese, nel 1930 divenne ordinario di diritto commerciale, internazionale e comparato, e di diritto del lavoro all’Università di Rostock, pubblicando nel 1931 lo studio Die Aktienrechte der Gegenwart. Gesetze und Entwürfe in rechtsvergleichender Darstellung, che ne confermò le brillanti e precoci doti di giurista. Gli anni di Rostock coincisero con l’ascesa al potere del nazismo, rispetto al quale H. – totalmente dedito agli studi, ma sostenitore della democrazia weimariana – si mantenne lontano e critico. Lo dimostra, tra l’altro, la difesa da lui assunta del giovane democratico antinazista Eugen Gerstenmaier, futuro presidente del Bundestag a Bonn e allora esponente degli studenti evangelici, il quale si trovò coinvolto in uno scontro col capo della lega filonazista “Tannenberg” Gerhard Schinke, sfidato a duello e sottoposto a processo disciplinare in un giurì universitario per disposizione del Gauleiter di Rostock. Nella sua posizione di giudice del giurì, H. fu decisivo per l’assoluzione di Gerstenmaier.

Nel 1936 fu nominato decano della facoltà di Diritto ed economia dell’Università di Rostock. Segno dell’acquisizione di una solida posizione accademica, fu invitato nel 1940 a prendere servizio per l’anno successivo nella più centrale e importante Università di Francoforte. Tuttavia, questa brillante carriera fu interrotta il 25 febbraio 1941 dalla chiamata alle armi e dalla partenza come ufficiale d’artiglieria sul fronte occidentale. Per tre anni fu aiutante di campo del comandante del reggimento, il colonnello Reiter, insieme al quale il 6 giugno 1944 fu catturato a Cherbourg dagli americani e internato nel campo di prigionia di Como (Mississippi). Qui si mise in luce organizzando la biblioteca del campo e due semestri di corsi universitari per i detenuti, di cui ottenne successivamente il riconoscimento ufficiale. Nel periodo di prigionia H. iniziò a familiarizzarsi con il modo di vita americano e a stringere i primi importanti legami con le autorità statunitensi, che consoliderà durante il periodo annuale di visiting professor presso la Georgetown University tra il 1948 e il 1949. Ritornato in patria alla fine del 1945, riprese a insegnare a Francoforte, divenendovi nel 1946 rettore della Johann Wolfgang Goethe-Universität fino al 1948. Nel settore occupato dagli angloamericani H. svolse determinanti funzioni per la ricostruzione dei sistemi universitari e della giustizia, in modo particolare per le regioni comprese tra Assia e Palatinato, divenendo altresì presidente della Conferenza dei rettori della Germania sudoccidentale, nonché cofondatore e dal 1950 presidente della Commissione tedesca della United Nations educational scientific and cultural organization (UNESCO).

L’interesse europeista di H. precedette l’avvio della carriera politica, e si può far risalire alla partecipazione al Congresso dell’Aia del Movimento europeo (7-10 maggio 1948), durante il quale incontrò per la prima volta il futuro cancelliere Konrad Adenauer. In verità, una prima offerta di occuparsi di politica economica giunse ad H. da parte del potente ministro bavarese dell’Economia, Ludwig Erhard, il quale già nel 1946 gli chiese di assumere un posto di rilievo nel ministero. Ma H. all’epoca declinò l’invito, non intendendo rinunciare all’incarico accademico e di rettore. Il suo rapporto con la politica attiva ebbe pertanto iniziò solo nel 1950. Adenauer, da poco cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (Bundesrepublik Deutschland, BRD) fondata l’anno prima, fu favorevolmente impressionato dalla competenza economica di H. e dal fatto che non fosse stato iscritto al partito nazista. Ciò lo rendeva particolarmente “presentabile” agli occhi degli alleati. Pertanto il cancelliere lo designò il 17 giugno 1950 – su segnalazione dell’economista Wilhelm Röpke, ma non senza obiezioni da parte del ministero federale per l’Economia – alla direzione della delegazione tedesca inviata a Parigi per discutere l’adesione della Germania al Piano Schuman, sfociata nelle trattative che portarono i Sei il 18 aprile 1951 a stipulare il Trattato di Parigi istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). In quella sede H. conobbe e divenne amico di Jean Monnet, capo della delegazione francese.

La sicura competenza, l’abilità negoziatrice e l’enorme capacità di lavoro dimostrate da H. in tale veste, convinsero il cancelliere a proporlo (e i membri prima riluttanti del governo ad accettarlo) il 1° agosto dello stesso anno al posto di segretario di Stato per gli Affari esteri della Cancelleria federale, nomina ufficializzata il 26 agosto e poi trasformata nel 1951 in quella di segretario di Stato nell’Ufficio esteri (da non confondere con la carica di ministro federale, che H. non ricoprì mai, essendo prima sottoposto ad Adenauer nella sua funzione di responsabile pro tempore agli Esteri, e poi a Heinrich von Brentano, nuovo ministro federale degli Esteri dal 7 giugno 1955). Come segretario di Stato egli fu il numero due del ministero (di cui disegnò la struttura interna e l’organizzazione) e giocò un delicato ruolo di cerniera con gli uffici del cancelliere. H. fu, insomma, il più fidato collaboratore di Adenauer sul versante internazionale. Come tale, consolidò il rapporto di amicizia atlantica con gli USA e si mise in luce negli anni Cinquanta per l’elaborazione della rigida posizione di non riconoscimento della Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik, DDR). Con la dichiarazione del 29 settembre 1955 – grazie alla quale gli fu attribuita sui giornali e da parte dell’opposizione la paternità della cosiddetta “dottrina H.”, che in realtà fu, più che una creazione originale di H., un’etichetta che racchiudeva il contributo di diverse personalità, tra cui il ministro degli Esteri von Brentano e il direttore generale del ministero degli Esteri Wilhelm G. Grewe – gettò le basi della Deutschlandpolitik, secondo cui la Repubblica federale era la sola legittima rappresentante costituzionale del popolo tedesco. L’importante corollario politico di tale dottrina – formulato da H. a seguito della conferenza di lavoro degli ambasciatori tedeschi tenuta a Bonn l’8-9 dicembre 1955 e ufficializzato da von Brentano il 28 giugno 1956 con dichiarazione ministeriale –enunciava il diritto-dovere del governo federale di non intrattenere relazioni con gli Stati che riconoscessero diplomaticamente la DDR (con la rilevante necessaria eccezione dell’URSS). Tale dottrina ebbe la prima applicazione nell’autunno 1957, allorché causò la rottura delle relazioni diplomatiche con la Iugoslavia di Tito. Sarebbe rimasta in auge fino al 1969, allorché venne sostituita dalla Ostpolitik inaugurata da Willy Brandt all’atto di assumere la cancelleria. Nel periodo trascorso come segretario di Stato agli Esteri H. si mise in luce altresì sulle questioni riguardanti le riparazioni a Israele e le trattative per il ritorno del Saarland sotto la sovranità tedesca.

Sul terreno europeo, dopo aver guidato nel 1950-51 la delegazione tedesca per la CECA, H. diresse anche le trattative per l’istituzione della Comunità europea di difesa (CED) e della Comunità politica europea (CEP), conclusesi col fallimento decretato dal voto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Fu centrale, pertanto, fin dall’inizio della sua attività politica, l’impegno sulle problematiche europee in connessione coll’affermarsi del metodo funzionalista dell’integrazione economica (v. Funzionalismo) propugnato nei memorandum di Jean Monnet e fatto proprio dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman nella celebre dichiarazione del 9 maggio 1950. La formazione di specialista di questioni giuridico-economiche internazionali, unitamente all’ispirazione europeista e federalista (v. Federalismo) condivisa con Adenauer, fece di H. uno dei protagonisti della prima ora del processo d’unificazione europea. Egli continuò, in effetti, a sovrintendere alle varie delegazioni tedesche nelle successive fasi in cui fu elaborata nel 1955-57 la complessa posizione comune che portò i Sei della CECA dalla Conferenza di Messina alla stipulazione dei Trattati di Roma (25 marzo 1957), coi quali furono istituite la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA). H. fu tra i principali sostenitori della creazione di un mercato comune (v. Comunità economica europea), visto come luogo di un’integrazione orizzontale, cioè globale e non settoriale, delle economie europee (v. Integrazione, metodo della). A conferma di tale contributo ideale e politico fu chiamato nel gennaio 1958 come Presidente della Commissione europea, incarico che svolse in modo lungimirante e decisivo, presentando ai governi e facendo approvare tra il 1959 e il 1960 il piano di sviluppo della CEE che portò il suo nome. H. giocò un ruolo di importanza storica per il destino comunitario per quasi dieci anni fino al 30 giugno 1967. Chiuso in quella data il periodo di lavoro istituzionale europeo, H. fu eletto dal 1968 presidente del Movimento europeo fino al 1974, partecipando con gli scritti – tra cui fondamentale il libro del 1969 intitolato Der unvollendete Bundesstaat – allo sviluppo della concezione federale dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della). Nel 1969 fu eletto deputato al Bundestag come candidato del Rheinland-Pfalz, mantenendo il seggio fino al 1972, quando si ritirò dalla politica attiva per dedicarsi esclusivamente alla rielaborazione della sua visione europea.

Con quali idee, prospettive e finalità attuò H. l’opera di presidente della Commissione CEE? Consentono di rispondere a questo interrogativo documenti, conferenze e discorsi tenuti in università, istituti di ricerca o di fronte a platee di operatori economici. Di particolare interesse è il libro United Europe. Challenge and opportunity, (Harvard University Press, Cambridge, Massachussets, 1962). Occorre rilevare innanzi tutto che le convinzioni del presidente della Commissione non si fondavano su una speciale fede politico-dottrinaria. Da buon giurista dell’economia internazionale, il suo abito mentale lo portava a considerare le cose dal punto di vista del diritto e della prassi. H. fu incline a un rapporto pragmatico con le teorie politiche. Il suo convincimento europeista partiva dall’intuizione del destino comune della Germania e dell’Europa distrutte all’indomani della Seconda guerra mondiale. Gli anni di prigionia in America lo avevano reso consapevole dell’inevitabilità e della positività dell’orizzonte atlantico. L’amicizia con gli Stati Uniti e l’integrazione definitiva della nuova Germania nell’Europa occidentale erano i due paletti fissi attraverso i quali soltanto poteva passare, a suo avviso, la prospettiva unificatrice del continente europeo. A maggior ragione, ciò gli sembrò vero dopo il varo del Piano Marshall e la fondazione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE, 1947), che costituì la prima concreta esperienza di decisioni istituzionalmente concordate tra i governi impegnati nella ricostruzione.

Il problema centrale dell’Europa era di risolvere definitivamente il conflitto franco-tedesco e, a tale scopo, l’elaborazione del Piano Schuman era il primo passo nella giusta direzione. Premesso questo, la posizione di H. non è però riconducibile essenzialmente a un’articolazione o a un approfondimento della teoria monnetiana. Certamente H., vero figlio del Palatinato renano, fu sensibile al rapporto con la Francia, di cui valorizzò il contributo culturale. Occorre però ricordare che l’idea di un intreccio (Verflechtung) necessario e pacifico di tutte le industrie minerarie e di base esistenti nel bacino renano e della Ruhr era presente già in Adenauer negli anni successivi alla Prima guerra mondiale e faceva parte del bagaglio federalista dei democratici renani. L’obiettivo di una stretta cooperazione delle industrie pesanti tedesca e francese era visto da Adenauer come un potente mezzo per render impossibile la guerra tra i due vicini. Pertanto, anche la concezione europeista di H., e soprattutto gli originali moventi dinamici che lo porteranno allo scontro con Charles de Gaulle nel 1965, si fondavano su elementi precedenti e oltrepassanti il funzionalismo monnetiano, incardinandosi piuttosto da un lato sull’autoctona tradizione federalista tedesca e dall’altro su esigenze di tendenziale e graduale trasformazione della sfera “politica” che il processo di unificazione europea necessariamente comportava.

In realtà, H. considerò l’unità europea come “la sfida e l’opportunità” politiche a tutto tondo, che lo spirito del tempo poneva ai popoli liberi, al fine di trasformare in meglio – ossia in senso modernizzatore e democratico – il vecchio mondo delle relazioni internazionali tra potenze. Il suo assunto fondamentale esprimeva la convinzione che la necessità per gli Stati nazionali di lavorare insieme in modo comunitario avrebbe prodotto non solo una forma pacifica di coesistenza e di integrazione economica, ma anche un nuovo tipo di zoon politikón, un modo inedito di intendere la dimensione politica a livello nazionale e sovranazionale. È interessante che, per argomentare l’avanzata delle nazioni europee verso l’unità, egli riprendesse la teoria fatta da Tocqueville ne La democrazia in America, quasi a unire – in controtendenza rispetto al contemporaneo gollismo – la cultura francese con la realtà statunitense. Alcuni temi esaminati da Tocqueville gli sembravano di bruciante attualità alla metà del Novecento: la crescita dell’interdipendenza delle nazioni e l’impossibilità per esse di restare estranee l’un l’altra a causa del progresso tecnico-industriale e dello sviluppo delle comunicazioni; infine, tratto che si sarebbe vieppiù imposto, il mondo sarebbe stato dominato da Stati giganti, come l’America e la Russia. Di fronte a tale evoluzione, che metteva all’ordine del giorno l’esigenza di nuove forme di cooperazione interstatale pacifica, continua, stabile ed efficiente, l’organizzazione politica del mondo, e segnatamente dell’Europa, restava per H. purtroppo ancorata a un sistema di Stati sovrani retti sull’anacronistico reticolo delle tradizionali relazioni internazionali di potenza. Di qui l’apprezzamento del valore innovativo dell’iniziativa Monnet-Schuman, che superava le finalità confederative mettenti capo al Consiglio d’Europa del 1949.

Il dato realmente innovatore della Comunità creata nel 1951, e in generale delle comunità funzionaliste, era visto da H. nel loro carattere “sopranazionale”. Era questo aspetto delle nuove Istituzioni comunitarie che faceva superare i loro limiti settoriali e faceva credere che, necessariamente, dall’integrazione economica settoriale si sarebbe passati gradualmente a una integrazione allargata orizzontalmente a tutta l’economia dei paesi membri, e dall’unità economica a quella politica. L’elemento “sopranazionale” era l’esponente dell’esigenza di creare un centro di direzione continentale non solo indipendente dagli Stati membri, ma anche tendenzialmente democratica, politica ed economica, stabile ed efficiente. Ciò implicava, per H., che una parte del potere decisionale degli Stati era sottratto loro e usato da un’autorità sopranazionale, in embrione di tipo federale, con finalità che superavano le singole ottiche nazionali. In particolare, tale carattere sarebbe stato rivestito dopo il Trattato di fusione degli esecutivi (poi approvato nell’aprile 1965 e applicato nel 1967) dalla Commissione CEE, di cui il presidente esaltava le tre funzioni di “motore”, “custode” e “mediatore” riconosciutele dal trattato del 1957. Funzioni che nulla avevano a che fare con la creazione di una “eurocrazia”, come volgarmente veniva apostrofata la burocrazia di Bruxelles, in quanto non legittimata dal voto popolare e lontana dai paesi membri. In realtà, anche per H., a torto identificato come il capo della nuova genìa di euroburocrati, la logica comunitaria non era quella di «stabilire una lontana tecnocrazia governante a colpi di ukase da un qualche Cremlino sopranazionale», bensì di dare corpo e realtà agli obiettivi stabiliti nei Trattati, che secondo H. mettevano in essere una vera e propria normativa “costituzionale”, e alle decisioni politico-legislative prese dal Consiglio dei ministri su proposta della Commissione. Proprio il monopolio di proposta della Commissione era visto quale tratto qualificante del suo potere, simbolo del suo potenziale profilo di “governo europeo”. In questo senso è da interpretare il gesto di far stendere un tappeto rosso nella sede di Bruxelles, un segno di distinzione usato per le massime autorità di uno Stato, e quindi da usare anche per onorare il carattere sovranazionale e potenzialmente statuale del nuovo potere europeo (v. Padoa-Schioppa, 2001, p. 141). In tale prospettiva era da collocare la battaglia di H. per dare maggiore efficienza e fluidità ai processi decisionali europei (v. Processo decisionale) allargando gradualmente anche l’area di incidenza del voto a maggioranza nel Consiglio (v. Maggioranza qualificata) già previsto dal Trattato CEE (v. Trattati di Roma) per la terza fase del periodo transitorio, e restringendo al minimo l’uso del Voto all’unanimità, ossia della possibilità del veto da parte degli Stati per i soli casi eccezionali in cui venisse effettivamente messa in questione la loro sovranità in materia di vitale importanza. E questo sarà uno dei nodi che verranno al pettine nella crisi del 1965.

In realtà, i paesi che avevano scelto di procedere verso l’integrazione delle economie attraverso l’Unione doganale, la Libera circolazione delle merci, la Libera circolazione delle persone, la Libera circolazione dei servizi e la Libera circolazione dei capitali, non avevano deciso soltanto – secondo H. – di realizzare un mero fatto giuridico-economico, ma si erano dati il compito, in modo forse non del tutto consapevole per alcuni dei firmatari (ben chiaro però per Schuman e Monnet), di dar vita a una forma politica nuova che influenzava fortemente la vita degli Stati coinvolti e il più vasto mondo. Anche sotto il profilo teorico, l’integrazione comunitaria era considerata da H. come una “rivoluzione incessante”, a un tempo, della scienza economica e della scienza politica. Come sosteneva l’economista James Meade (Problems of Economic Union, London, 1953) a proposito delle unioni economiche interstatali, quando alcuni Stati mettevano in comune delle funzioni economiche, avveniva un trapasso di poteri economico-politici molto più forte da questi all’istanza sopranazionale. Analogamente, aggiungeva H., nel caso della CEE lo stesso trattato istitutivo prevedeva elasticamente un certo numero di eventualità per politiche congiunte nei campi della politica agricola (v. anche Politica agricola comune), sociale (v. anche Politica sociale), monetaria, finanziaria e fiscale, nella concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza), nei trasporti (v. anche Politica comune dei trasporti della CE) e nel commercio estero (v. anche Politica commerciale comune). Ribadiva pertanto che la logica dell’integrazione economica non solo guidava all’unità politica attraverso la fusione degli interessi, ma implicava anche l’azione politica unitaria in se stessa. Cosa c’era in effetti di più politico e connesso con la sovranità degli Stati della fissazione dei tassi di cambio e della politica monetaria? Non a caso, fin dall’inizio il processo d’integrazione economica europea faceva emergere l’esigenza dell’allargamento alla politica, fallito per responsabilità francese nel caso della CED e della CEP, ma dalla stessa Francia gollista riproposta con il Piano Fouchet in modo attenuato e coerente con criteri confederali. Senza polemizzare esplicitamente, H. metteva però in guardia sul fatto che la discussione sulla necessità di una cooperazione politica “organizzata” (v. anche Cooperazione politica europea) (nei termini confederali di marca gollista) non poteva sovrapporsi all’integrazione esistente, ovvero alle istituzioni comunitarie, o andare a loro discapito, ma doveva semplicemente risultare un approfondimento federale dell’unificazione comunitaria. L’integrazione europea non poteva pertanto esser oggetto di automatismi burocratici, di cui delegare il controllo ad agenti privi di coscienza politica, ma avrebbe dovuto esser l’opera congiunta di diversi organi politico-istituzionali legittimati dai trattati a discutere e a decidere con coraggio sui problemi della graduale unificazione, tenendo conto delle sfide provenienti all’Europa dal mondo più vasto della competizione tra l’oriente comunista e totalitario e l’occidente della libertà, tra Nord sviluppato e Sud arretrato.

A fronte di tale ampia consapevolezza dei compiti posti alla Commissione non c’è da stupirsi se la CEE, anche grazie all’energia e alla competenza del presidente della Commissione, riuscì a conseguire fin dai primi anni risultati sorprendenti sul terreno dell’unione doganale (da H. rivendicati orgogliosamente) e della messa in opera delle politiche agricole, finanziarie e di movimentazione libera delle merci e dei lavoratori. Successi irreversibili che mandarono a monte le manovre britanniche tese a creare organizzazioni alternative (Associazione europea di libero scambio, European free trade agreement), e che convinsero una serie di paesi europei prima riluttanti, tra i primi il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca, a chiedere l’ammissione al Mercato comune. H., dalla stampa identificato negli anni Sessanta come “Mister Europa” proprio per la coscienza dimostrata di rappresentare l’esecutivo europeo in formazione, pretese ed ebbe nel corso dei suoi viaggi istituzionali riconoscimenti protocollari normalmente riservati ai capi di governo, suscitando anche per questo non poche irritazioni a Parigi.

Su tali basi ideali e programmatiche H. fece elaborare e presentare il 15 marzo 1965 dalla Commissione (col parere contrario dei commissari francesi) le proposte concernenti il finanziamento della Politica agricola comune (PAC), le risorse proprie alla CEE e il rafforzamento dei poteri dell’Assemblea parlamentare che avrebbero portato alla “crisi della sedia vuota”. Queste furono precedute il 30 settembre 1964 da “Iniziativa 1964”, documento col quale la Commissione proponeva uno scadenzario per accelerare il compimento dell’unione doganale entro il 1967 e di un “mercato dell’economia” nella terza tappa, mirando al consolidamento del carattere sovranazionale anche attraverso l’adozione di una politica monetaria comune (v. anche Unione economica e monetaria). A metà dicembre, il Consiglio CEE aggiunse altri tasselli importanti alla formazione dei mercati agricoli, dando mandato alla Commissione di predisporre una proposta complessiva in previsione del completamento della seconda tappa del periodo transitorio e dell’avvio della terza fase che doveva culminare con lo stabilimento di un mercato comune europeo agricolo-industriale, compresa la regolamentazione riguardante la cosiddetta Tariffa esterna comune. “Iniziativa ’64” s’apriva sottolineando il carattere sovranazionale e politico delle Comunità, in quanto rappresentante «il nucleo vitale dello sforzo per arrivare all’unità politica dell’Europa». Era venuto il tempo di assumere le decisioni previste dal Trattato CEE sull’unione doganale, la PAC, la tariffa esterna e la moneta, e di porre in prospettiva l’allargamento dall’economico al “politico”, l’avviamento del processo unificatore per «migliorare la costituzione dell’organizzazione europea», in primo luogo attraverso la fusione degli esecutivi comunitari. In tale sequenza dovevano intendersi le proposte che la Commissione avrebbe fatto in vista dell’apertura della terza tappa del periodo transitorio (1966-1970).

Anche se l’ampiezza di “Iniziativa ’64” non fu apprezzata da esponenti gollisti, tuttavia non provocò al suo apparire e nei mesi successivi dichiarazioni ufficiali di critica o di rifiuto da parte francese. Il “pacchetto H.” doveva applicare il regolamento n. 25 emanato a seguito dell’approvazione nel gennaio 1962 del piano di finanziamento agricolo europeo, prevedente in particolare all’art. 2 che per la «fase finale del mercato comune» le entrate provenienti dai prelievi sui prodotti dai paesi terzi sarebbero andati direttamente alla Comunità e impiegate per finalità comuni (le cosiddette “risorse proprie”). Lo stesso art. 2 ricordava che, ai sensi degli artt. 200 e 201 del TCEE, ciò avrebbe comportato, previe specifiche direttive del Consiglio, una modifica della struttura del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e un ampliamento delle Competenze di merito dell’Assemblea. Il Consiglio di conseguenza affidava alla Commissione il compito di proporre «in quali condizioni l’art. 2 del regolamento n. 25 avrebbe dovuto essere applicato dopo l’entrata in vigore dei prezzi comuni dei diversi prodotti agricoli», cosa a cui l’organo ministeriale ottemperava lo stesso 15 dicembre per i mercati fondamentali dei cereali, del pollame e della carne suina rimandando a successive sedute le deliberazioni per i restanti prodotti agricoli.

Non possono esistere pertanto dubbi sulla legittimità e sul carattere necessario dell’iniziativa della Commissione dopo il 15 dicembre, né sulla liceità dell’orientamento estensivo, più volte manifestato sollevando diffidenze e critiche, ma senza opposizioni ufficiali. In verità, l’intenzione della Commissione era quella di elaborare – facendo leva sul rifinanziamento della PAC – una via di applicazione del TCEE nei punti esplicitamente previsti e riferiti al finanziamento diretto alla Comunità e al conseguente ampliamento e consolidamento delle competenze della Commissione, come gestore dell’attività corrente comunitaria, e dell’Assemblea nella funzione di controllo del bilancio. Ultimo, ma non meno importante, il passaggio al metodo del voto a Maggioranza qualificata, anch’esso espressamente previsto per la terza fase del periodo transitorio. In ciò la Commissione anticipava i tempi di realizzazioni previste, cosa permessa dall’impetuoso sviluppo del mercato comune e delle esigenze in tal senso espresse dalla maggioranza dei partner e dall’Assemblea. Questa scelta può a posteriori esser considerata un errore tattico di H., destinato a pesare ancor più per il fatto che il primo semestre del 1965, nel quale si sarebbe discusso delle proposte, era quello della presidenza di turno francese (v. anche Presidenza dell’Unione europea) e quindi il Consiglio sarebbe stato presieduto dal gollista Maurice Couve de Murville. Ma H. riteneva forse troppo ottimisticamente che, in forza delle sue proposte, se accettate dal Consiglio, si sarebbe completato il mercato comune, l’unione economica, e messo in opera un meccanismo di competenze e di procedure fortemente marcato dal carattere della “sovranazionalità”, con la conseguenza di avviare sulle solide basi di un’integrazione comunitaria più efficiente e più democratica il processo dell’unione politica tendente a un modello federale.

Le proposte di H. furono subito accusate dai gollisti di superare i limiti previsti dal TCEE per la Commissione e di costituire un atto di autoritarismo e di usurpazione burocratica sovranazionale. Si avviò così un periodo burrascoso suddivisibile in due fasi: la prima, da aprile a fine giugno, contraddistinta dal confronto altalenante tra le diplomazie dei Sei in vista delle decisive sedute del Consiglio, mentre H. cercava di capire quale indirizzo avrebbe avuto il sopravvento; la seconda, dal 1° luglio al 30 gennaio 1966, dopo la rottura delle trattative, il semestre della “crisi della sedia vuota”, svoltosi sotto la presidenza italiana, che si sarebbe concluso con il Compromesso di Lussemburgo del 29 gennaio. Il 15 giugno 1965 il governo francese presentò alla CEE controproposte che si incentravano appunto sull’irrinunciabile applicazione tecnica per il 1965-1970 del finanziamento PAC ed estromettevano il problema della creazione di risorse dirette alla CEE, rendendo quindi inutile ogni discorso sul potenziamento dei poteri dell’Assemblea.

Di fronte all’evolvere contraddittorio della situazione H., reso sempre più consapevole dell’atteggiamento incerto della Germania e della probabile dislocazione non favorevole delle forze in campo – ma nemmeno disperata, perché pensava che in fondo sulla proposta della Commissione si sarebbe forse potuto trovare un accomodamento –, decise in un primo momento di rilanciare al livello più alto la sfida, senza timore dello scontro ormai prevedibile, chiamando a raccolta i sostenitori del suo progetto. È questo il senso del discorso, tenuto il 17 giugno davanti all’Assemblea, nel quale, dopo aver puntigliosamente rivendicato i risultati di sette anni di lavoro, documentanti il notevole cammino percorso verso la realizzazione anticipata dell’unione doganale, della PAC, dell’avvio della politica commerciale e quindi di un vero mercato comune, il presidente della Commissione ricorse ai toni alti della perorazione politica e filosofica dell’ideale dell’unificazione europea, citando l’ispirazione kantiana alla pace, la tradizione giuridico-politica e l’innovazione economica che confermavano che il nuovo ordine europeo non nasceva dalla forza, ma dall’integrazione e dal diritto. Gli europei avrebbero dovuto compiere una svolta decisiva nella direzione prevista dal TCEE per costituire un soggetto capace di parlare politicamente con una sola voce, pur nel rispetto della pluralità delle culture e degli interessi. Occorreva dare maggior organicità alla Comunità, rafforzando la costituzione di alcuni organi che ne rappresentavano e custodivano l’essenza sovranazionale. Ciò significava fare alcuni passi qualificanti verso l’applicazione di principi presi in prestito dall’esperienza degli Stati federali, nella fattispecie dando forma più congrua a un embrione di esecutivo europeo – al di fuori di logiche tecnocratiche, ma in stretto rapporto con gli Stati membri –, e di conseguenza consolidando le competenze dell’organo parlamentare che, in prospettiva, era il rappresentante politico più genuino degli interessi comuni europei. Questo cammino avrebbe portato la Comunità alla tappa finale dell’unificazione in una “federazione europea”. H. rammentò che, se le defatiganti “maratone”, segno di vitalità e non di malattia, erano necessarie per il persistere legittimo delle contrapposizioni di interessi nella definizione della PAC o di altre politiche comunitarie, occorreva però non perder di vista nell’incombere della prova che l’unificazione dell’Europa era «un processo politico».

A confermare il sostegno di tale impostazione arrivarono alla vigilia della seduta del Consiglio dei ministri del 28-30 giugno le solenni dichiarazioni dei Parlamenti della Repubblica Federale Tedesca e dei Paesi Bassi. Lo svolgimento del Consiglio del 28-30 giugno fece registrare per due giorni il confronto delle opposte intransigenze di olandesi (soprattutto), italiani e tedeschi da una parte e francesi dall’altra (mentre Belgio e Lussemburgo, pur vicini nel merito ai primi tre, mantennero un profilo meno polemico verso la Francia). I Cinque volevano che il pacchetto delle proposte della Commissione fosse vagliato e deciso in blocco, pur accettando che si stabilisse un calendario di discussioni da tenersi nelle settimane o mesi successivi; i francesi miravano soprattutto al finanziamento della PAC entro il 30 giugno, ed erano disposti a concessioni limitate rispetto alla politica commerciale e all’inserimento della tariffa industriale, ma non intendevano nemmeno discutere le trasformazioni istituzionali collegate alle entrate dirette, che a loro avviso dovevano esser oggetto di nuove trattative dopo il 1970. Poco dopo la mezzanotte del 30 giugno Couve de Murville, presidente di turno, su indicazione dell’Eliseo, non volle aderire all’eventualità di fermare le lancette dell’orologio per una nuova “maratona” da tenersi nei giorni successivi (prospettiva sostenuta dai Cinque e da H.), e dichiarò lo scioglimento del vertice per l’impossibilità di trovare l’accordo sul finanziamento della PAC entro la data prevista. Questa decisione impedì di affrontare le proposte sulle risorse proprie della CEE, sul voto a maggioranza, sul rafforzamento delle competenze parlamentari e sulla modifica dei trattati (v. anche Revisione dei Trattati), e rese pubblico l’insuccesso del Vertice (v. Vertici), anche se formalmente nessuno parlò di una rottura del patto comunitario, ma solo di una sospensione dei lavori del Consiglio. Il 1° luglio però il ministro francese dell’Informazione, Alain Peyrefitte, dichiarò che il governo prendeva atto del venir meno delle promesse dei partner, che avrebbe tratto tutte le conseguenze dal fallimento, e che non ci sarebbero stati altri incontri del Consiglio CEE a luglio. Il giorno dopo, in risposta all’accusa francese, il portavoce della Commissione dichiarò – sulla base di rimandi precisi al regolamento n. 25 e al TCEE – che nella preparazione delle proposte questa si era attenuta strettamente al mandato ricevuto il 15 dicembre 1964. Il 5 luglio Parigi ordinò ai propri ministri e tecnici in organismi comunitari di astenersi dal partecipare ai lavori e il 6 richiamò il proprio rappresentante permanente alla CEE Jean-Marc Boegner. Ebbe così inizio la politica della chaise vide, che si caratterizzò come scontro di metodi e di prospettive.

H., da parte sua, preparò a quel punto proposte alternative, che presentò in forma di memorandum della Commissione al Consiglio il 22 luglio. Qui ricordava le buone e fondate ragioni, e la logica dell’integrazione tendenzialmente federale, che avevano condotto alle proposte del marzo. Ma il punto fondamentale era che accoglieva le scadenze dell’unione doganale e il finanziamento della PAC per la fase finale del periodo transitorio secondo i termini favorevoli alla Francia stabiliti nel 1962. Di fatto, le questioni delle risorse proprie e dei poteri dell’Assemblea venivano diplomaticamente rinviate. Il memorandum di H. lanciava dunque un ponte verso le aspettative del governo francese, che però fu respinto dal primo ministro Georges Pompidou. La crisi rimaneva dunque più aperta che mai, nonostante vari tentativi di mediazione tra le diplomazie francese e tedesca, con interventi di Paul-Henri Spaak e degli italiani che presiedevano il semestre. Trascorso agosto, il 9 settembre de Gaulle concesse un’attesa intervista che confermò nella forma e nella sostanza quanto già notificato a luglio, senza concedere nulla, per il momento, agli sforzi di mediazione della Commissione e dei Cinque. Ancora una volta, anzi, fu sferrato l’attacco ai tecnocrati “senza patria” di Bruxelles. La situazione si rimise in movimento dopo che le elezioni in Germania del 19 settembre confermarono, con il successo democristiano (47,61% alla CDU-CSU), la coalizione filo-atlantica al potere e la fermezza della diplomazia federale nel proposito di contrattare da posizioni di pari dignità. Viceversa, le elezioni presidenziali in Francia nel dicembre, pur riconfermando al secondo turno il generale de Gaulle, segnarono un relativo arretramento della sua popolarità proprio a causa della sua intransigente politica europea.

Già dal 9 dicembre Couve de Murville e il ministro del Tesoro italiano, Emilio Colombo (che sostituiva Amintore Fanfani bloccato a New York), e poi Colombo col ministro federale tedesco Gerhard Schröder, s’accordavano per trattare il rientro della Francia in un Consiglio straordinario da tenersi a gennaio senza la presenza di H. e della Commissione. De Gaulle confermò tale disponibilità il 14 dicembre. La decisione fu ratificata dai Cinque a Bruxelles il 20 dicembre e, su ulteriore richiesta della Francia, si optò per la sede del Lussemburgo e per la data del 17-18 gennaio 1966. La prima seduta fece emergere ancora una serie di divergenze. Si arrivò infine all’incontro del 28-29 gennaio che licenziò il testo del cosiddetto Compromesso di Lussemburgo diviso in due parti: un elenco di quattro punti definente la posizione comune sul problema del voto a maggioranza; sette paragrafi determinanti i modi della cooperazione tra Consiglio e Commissione. Per quanto riguardava il voto a maggioranza, il presupposto accettato da tutti fu che si potevano dare «interessi molto importanti» degli Stati membri anche quando il TCEE prevedesse decisioni a maggioranza in materie di competenza comunitaria. In tal caso, il Consiglio doveva sforzarsi di arrivare in tempi ragionevoli a una soluzione condivisibile da tutti, nel rispetto dei reciproci interessi e di quelli comunitari, secondo le finalità generali dell’art. 2 del trattato. A maggior specificazione, la delegazione francese ottenne che si aggiungesse, nel secondo punto, l’impegno esplicito che, in caso di «interessi molto importanti», si conseguisse un accordo «unanime». Nell’eventualità contraria le sei delegazioni constatarono che se una divergenza continuava a sussistere, ciò non avrebbe costituito un intralcio «alla ripresa normale dei lavori della Comunità». Era però conseguenza implicita in tale formula, inutilmente osteggiata da H. nelle conversazioni avute coi responsabili tedeschi, che si creasse una sorta di spada di Damocle sull’attività consiliare e più in generale comunitaria: occorreva evitare, per amore di “normalità” nelle relazioni intergovernative (v. Cooperazione intergovernativa), conflitti che portassero a decisioni a maggioranza col rischio di spaccature. Circa la cooperazione Consiglio-Commissione, la Francia, neutralizzata la questione del voto a maggioranza, vinse nella sostanza la battaglia contro la Commissione, non più da intendersi – alla maniera di H. e dei funzionalisti federalisti – come potere esecutivo e rappresentante di una Comunità in prospettiva “quasi statuale”.

L’alto profilo della presidenza H. aveva suscitato malumori e diffidenze non solo tra i francesi. Anche nel governo federale tedesco si faceva carico a H. d’essersi spinto fuori dall’orbita di sua pertinenza. Era questo il prodromo della marginalizzazione del primo presidente della Commissione CEE, vissuto ormai come un residuo del decennio glorioso, nelle vittorie e nelle sconfitte, della fondazione delle Comunità, uno tipo anomalo di federatore europeo non più in sintonia coi tempi. Si era entrati in una fase prolungata di stasi della vita comunitaria ridotta alla normale amministrazione, che si sarebbe parzialmente sbloccata con il Vertice dell’Aia nel 1969, e con maggior nettezza solo negli anni Ottanta con l’Atto unico europeo (AUE). H., in conclusione, non impersonò la figura del politico nazionale prestato alla CEE, ma quella di statista europeo. Il prender atto della battuta d’arresto e della sua imminente marginalizzazione non gli impedì di contribuire con grande efficacia alle maratone dei mesi successivi e al completamento del periodo transitorio. Formalmente, il cancelliere della “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici successo a Erhard, Kurt Georg Kiesinger, ripropose la candidatura di H. nell’aprile 1967 a presidente della Commissione unica nel momento in cui entrava in vigore il trattato di fusione, ma solo per un periodo di un semestre, molto più breve di quello normalmente previsto dal trattato. H. rifiutò, avendo compreso la ragione diplomatica e non politica del gesto, e le forti obiezioni della Francia. L’epitaffio migliore sulla vicenda europea di H. è scritto in una lettera che gli indirizzò il suo più importante sostenitore nella Commissione, il vicepresidente Sicco Mansholt, il 4 ottobre 1967: «Posso capire cosa significhi vedere altri proseguire dopo che si è guidato per dieci anni il più grande sviluppo dell’Europa. Ma Lei resterà sempre una forza trascinante con la Sua esperienza e in particolare col suo ideale politico».

Corrado Malandrino (2010)

Bibliografia

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