Avvocato, diplomatico e uomo politico statunitense, H. (Olympus, Tennessee 1871-Bethesda, Maryland 1955), proveniente da una famiglia di origini modeste nei monti del Tennessee, frequentò le scuole superiori nel Kentucky e nell’Ohio e, completati gli studi di giurisprudenza nel Tennessee, nel 1891 cominciò la pratica legale. Appassionato di politica, tenne a sedici anni il primo comizio e a diciannove fu eletto alla convenzione statale del partito democratico, guadagnandosi la presidenza della delegazione di contea. Nel 1892 entrò nella legislatura del Tennessee, dove rimase per cinque anni. Partecipò come capitano di fanteria alla guerra contro la Spagna nel 1898, al comando di una compagnia di volontari. Nominato giudice del quinto distretto del Tennessee nel 1903, venne eletto alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti nel 1906 e, riconfermato più volte, fu deputato fino al 1921 e di nuovo dal 1923 al 1931, costruendosi una reputazione eccellente come esperto di tasse e tariffe doganali. Dal 1921 al 1924 fu presidente del Comitato nazionale del partito. Eletto al Senato per il Tennessee, vi rimase dal 1931 al 1933, quando il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt, lo chiamò il 4 marzo alla carica di segretario di Stato.
Alla testa del Dipartimento, sfruttando le competenze, l’abilità nell’impadronirsi dei particolari di ogni questione di rilievo e lo stile manageriale acquisiti negli anni trascorsi al Congresso, si impegnò con successo per la liberalizzazione del commercio mondiale – senza dubbio il tema principale della sua azione di governo e, secondo i critici, un leitmotiv ossessivo di ogni suo intervento pubblico – ma anche per la politica di “buon vicinato” promossa da Roosevelt nell’America latina, per il contenimento dell’espansionismo giapponese nel Pacifico e, durante il secondo conflitto mondiale, per ovviare al fallimento della Società delle Nazioni con la creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Al termine di un mandato di durata ineguagliata, rassegnò le dimissioni per malattia il 29 novembre 1944.
Ritenendo che ogni forma di protezionismo tariffario ostacolasse la libera competizione tra le forze economiche, già nel corso della Prima guerra mondiale H. si era convinto della necessità di liberalizzare le relazioni commerciali per spianare la via alla pace, alla prosperità e alla crescita complessiva del sistema internazionale. Nel 1916 e ancora nel 1919, facendo appello al terzo dei quattordici “punti” elencati dal presidente Woodrow Wilson nel suo messaggio alle Camere dell’8 gennaio 1918, cercò di ottenere la convocazione di una conferenza che si occupasse in modo operativo di questo tema per ricucire le lacerazioni causate dal conflitto. Quando Roosevelt gli offrì la carica di segretario di Stato, dunque, chiese e ottenne mano libera per negoziare accordi di riduzione tariffaria reciproca con i principali interlocutori internazionali. Questa strategia sarebbe stata agevolata da un ampio accordo sui tassi di cambio, che non emerse però dalla conferenza economica e monetaria mondiale di Londra del luglio 1933, cui H. partecipò alla testa della delegazione statunitense.
Roosevelt, attento a ottenere che gli ambienti isolazionisti non ostacolassero i suoi ambiziosi programmi di riforma interna e consapevole delle forti preoccupazioni dei suoi pianificatori economici, che temevano le conseguenze negative della liberalizzazione commerciale sulle capacità di ripresa del paese dalla depressione, lo informò alla vigilia della conferenza che qualsiasi disegno di legge sugli scambi commerciali avrebbe trovato forte opposizione in Campidoglio per almeno un anno. H., convinto a sua volta che le alte tariffe doganali, strumento di quel forte nazionalismo economico che aveva ispirato nel 1930 l’adozione dell’Hawley-Smoot Tariff act, difendessero in modo esagerato gli interessi del capitale monopolistico a detrimento dei produttori agricoli, e determinato a perseguire in termini wilsoniani il nesso logico tra libertà degli scambi e pace mondiale, fu costretto all’attesa ma, abile temporeggiatore, incassò il colpo e non si diede per vinto. Inflessibile sulle questioni fondamentali di principio, per tutti gli anni in cui durò in carica egli seppe infatti adottare uno stile personale volto a smussare attriti e conflitti, tanto nei negoziati internazionali, ove possibile, quanto nelle lotte di potere interne, che lo videro spesso bersagliato dalle critiche di altri membri dell’amministrazione, quali il segretario al Tesoro, Henry Morgenthau, o il segretario agli Interni, Harold L. Ickes.
Sceso il dollaro a una quotazione più competitiva, Roosevelt ritenne fosse giunto il momento opportuno per appoggiare il disegno di H. e ottenne dal Congresso l’approvazione del Reciprocal trade agreements act, che conferiva al presidente il potere di ridurre fino al 50% i dazi sulle importazioni, su base reciproca, a fronte di concessioni analoghe adottate dai partner commerciali degli Stati Uniti. La legge sottolineava inoltre l’importanza di inserire la clausola della nazione più favorita nei nuovi trattati. Ottenuto il risultato che si era augurato, H. badò a mantenere sotto stretto controllo il corso d’azione che doveva derivarne: favorì il decollo della Export-Import bank per stimolare il commercio estero statunitense e, nei quattro anni successivi, utilizzando a fondo l’opportunità offerta dalla nuova legge, negoziò una ventina di accordi, soprattutto con i paesi dell’America latina e con il Canada. Tale strategia, che riuscì ad attrarre sempre più gli interlocutori dell’emisfero occidentale nell’orbita economica di Washington, contribuendo alla posizione formidabile che gli Stati Uniti avrebbero raggiunto durante e dopo la Seconda guerra mondiale, conseguì risultati controversi rispetto ad alcune aspettative di H., con particolare riferimento all’aumento delle importazioni statunitensi e, soprattutto, all’attenuazione delle frizioni commerciali su scala globale: i rivali di Washington ebbero infatti buon gioco nell’affermare che la reciprocità si limitava a velarne la ricerca di egemonia.
Era, questa, un’accusa che non veniva invero lesinata al complesso dell’azione statunitense nei confronti dell’America latina: si denunciava nella nuova politica commerciale, pur accompagnata da un effettivo disimpegno militare, una semplice trasformazione della vecchia diplomazia del dollaro. Nel messaggio indirizzato al paese al momento di entrare in carica, Roosevelt aveva enunciato la politica del “buon vicinato”, in un primo momento interpretata in senso generale, poi articolata soprattutto nei confronti dell’emisfero occidentale. In occasione della settima conferenza panamericana, tenuta a Montevideo nel dicembre 1933, H. ottenne una notevole affermazione personale, guidando i capi delle altre delegazioni verso il riconoscimento di una serie di obiettivi comuni, e accettò di firmare, destando la sorpresa di molti, un accordo in cui si faceva esplicito riferimento all’impegno di ogni paese a non interferire negli affari interni ed esteri degli altri.
Le forti pressioni esercitate a Cuba per scongiurarne la deriva rivoluzionaria dopo la fuga del dittatore Gerardo Machado non corrispondevano nella sostanza a tale impegno ma il trattato sottoscritto con il paese nel maggio 1934 abrogò finalmente l’emendamento Platt, che aveva incorporato nella costituzione del 1901 il diritto di Washington a sovrintendere all’economia dell’isola e a intervenire a discrezione nella sua politica interna, anche con l’occupazione militare, come era poi avvenuto dal 1906 al 1909 e nel 1912. Nel marzo1936 si procedette a una revisione analoga del trattato con Panama del 1903. Nell’agosto1934 gli ultimi marines avevano lasciato Haiti, ponendo termine alla presenza pluriennale di truppe statunitensi d’occupazione nello scacchiere. Per fronteggiare le crisi esplose con vari paesi – la Bolivia confiscò le proprietà della Standard oil company nel 1937, il Messico del presidente Lázaro Cárdenas nazionalizzò parte delle compagnie petrolifere statunitensi nel 1938 e, infine, il Venezuela chiese nel 1939 un aumento delle percentuali sugli utili derivanti dallo sfruttamento dei pozzi situati nel suo territorio – H. respinse le richieste esplicite degli ambienti finanziari che si ritenevano danneggiati dalle azioni intraprese da quei governi e, pur ricorrendo a manovre diplomatiche e rappresaglie economico-finanziarie, escluse il ricorso alle armi. Tale atteggiamento interpretava anche l’obiettivo di esercitare la leadership statunitense nel consenso, senza esacerbare il conflitto con gli interlocutori, alla ricerca di un’ideale unità d’intenti panamericana che, rinnovando la dottrina Monroe, bloccasse i tentativi di influenza e penetrazione dell’Italia fascista (v. anche Italia) e della Germania nazionalsocialista (v. anche Germania). Washington non riuscì a ottenere sul punto la piena cooperazione dell’Argentina, ma la conferenza panamericana di Lima del dicembre 1938 sancì, se non altro, l’intenzione di tutte le 21 repubbliche del continente di procedere a consultazioni in caso di pericolo per la sicurezza di una di esse.
Negli anni in cui la minaccia alla pace mondiale costituita dal revisionismo giapponese, tedesco e italiano si era resa sempre più evidente, mentre le correnti isolazioniste in seno al Congresso e all’opinione pubblica, sebbene le elezioni del 1934 avessero garantito a Roosevelt una maggioranza di più di terzi nel Senato, ottenevano dapprima la mancata adesione degli Stati Uniti alla Corte permanente di giustizia internazionale, nel gennaio 1935, e quindi l’approvazione delle tre leggi di neutralità tra il 1935 e il 1937, H. condivise con il presidente una crescente preoccupazione per la degenerazione delle relazioni internazionali segnata dall’aggressione italiana all’Etiopia, dalla rimilitarizzazione tedesca della Renania, dallo scoppio della guerra civile spagnola e dalla rapida espansione giapponese nel conflitto con la Cina. Il 16 luglio 1937, d’intesa con Roosevelt, H. indirizzò a tutti i governi del mondo una dichiarazione di principio sulle regole cui uniformare la politica estera e le relazioni internazionali, sottolineando l’intenzione statunitense di agevolare la soluzione pacifica di ogni controversia. Il suo modo di affrontare in pubblico tali questioni, e in particolare quella giapponese, con richiami alla necessità di osservare le norme previste dal Trattato delle Nove potenze del febbraio 1922 per la Cina o dal patto Briand-Kellogg di rinuncia alla guerra dell’agosto 1928, finì tuttavia per attirargli la taccia di politico idealista e legalista – pur sempre rispettato e popolare, come dimostrò la sua partecipazione alla competizione per la nomination democratica alle elezioni presidenziali del 1940, finché Roosevelt non rese pubblica la sua intenzione di correre per un terzo mandato – più che di diplomatico pragmatico, capace di proporre soluzioni concrete ai problemi posti dalle azioni intraprese dagli Stati aggressori.
Sebbene H. puntasse a impedire che le potenze revisioniste realizzassero un nuovo ordine economico internazionale sfavorevole agli interessi cruciali statunitensi, molti critici non mancarono di attaccare in particolare la sua strategia a fronte della minaccia giapponese, consapevole della necessità di bloccare le ambizioni di Tokyo nell’Asia orientale e nel Pacifico ma tesa a evitare lo scontro diretto. Sottoposto a pressioni divergenti dai membri dell’amministrazione – da un lato coloro che, come Harlod L. Ickes e Henry Morgenthau, insistevano con Roosevelt e con lui per l’adozione di sanzioni economiche, dall’altro quanti propugnavano una politica di conciliazione – H. riuscì a mantenere per alcuni anni il distacco da entrambe le posizioni e il controllo personale della questione, coltivando l’ambizione di convincere per gradi il governo giapponese a rinunciare alle scelte autarchiche compiute e a spostarsi verso tesi più aperte al liberalismo commerciale propugnato dagli Stati Uniti, e rinviando nel contempo un eventuale conflitto a un momento meno favorevole per la Germania. Esaurito dalle tensioni e dal deteriorarsi delle relazioni con Tokyo, nel novembre 1941 abbandonò tuttavia la partita, lasciandola in sostanza nelle mani del presidente e dei ministeri della Guerra e della Marina.
L’impegno di H. per l’istituzionalizzazione della collaborazione di guerra in una nuova organizzazione internazionale, che superasse almeno in parte i difetti della Società delle Nazioni e, soprattutto, potesse contare senz’ombra di dubbio sull’adesione degli Stati Uniti, si tradusse nel prudente discorso pronunciato per l’inaugurazione della conferenza di Dumbarton Oaks, nell’agosto 1944. H. sostenne la necessità di conservare l’unità d’intenti tra i paesi interessati al mantenimento della pace postbellica e propose la creazione degli organi che avrebbero poi assunto la denominazione di Consiglio di sicurezza e di Consiglio economico e sociale. I contenuti esposti in quell’occasione riprendevano le principali valutazioni emerse nel dibattito interno a uno dei gruppi di lavoro che, formalmente dal 1939, ma in sostanza a partire dal 1941, erano stati organizzati da H. e dal suo assistente Leo Pasvolsky per studiare i problemi del dopoguerra. Questi aveva invitato a contribuirvi anche le principali organizzazioni che si occupavano nel paese di politica estera: tra le altre, il Council on foreign relations, la Foreign policy association, il Federal council of churches, la Woodrow Wilson foundation, la Carnegie endowment for international peace e la League of Nations association. L’operazione corrispondeva a una strategia di formulazione nonpartisan della politica estera che H. aveva tentato di lanciare già nel 1934, senza particolare successo, per cooptare l’opposizione repubblicana o isolazionista nelle scelte collegate al suo cavallo di battaglia, la politica tariffaria e commerciale degli Stati Uniti. Tornò ad adottarla, tra il 1943 e il 1944, in una serie di colloqui con alcuni membri del Congresso, per convincerli della necessità di una organizzazione internazionale che garantisse la pace in modo efficace nel dopoguerra, e nel corso della campagna presidenziale del 1944, quando prese accordi con i repubblicani tramite John Foster Dulles, futuro segretario di Stato dal 1953, perché la conduzione della guerra non divenisse materia di scontro elettorale.
Va rilevato, comunque, che nel corso del conflitto l’influenza di H. sulla strategia internazionale degli Stati Uniti era via via decresciuta, in coincidenza con l’accentuarsi della tendenza di Roosevelt, peraltro già chiara in passato, ad accentrare nelle proprie mani gli aspetti fondamentali della politica estera del paese e, dal 1942 al 1944, a escluderlo in sostanza dalle decisioni di alta politica: un dato, questo, che ha condotto una parte della storiografia a sminuire, a tratti in modo eccessivo, la portata della sua opera come segretario di Stato. Certo è che il presidente, impaziente rispetto allo stile di lavoro di H., che affrontava ogni questione di rilievo con precisione meticolosa, dedicandovi lunghe riunioni di lavoro con i collaboratori prima di stilare un suggerimento alla Casa Bianca o un messaggio di istruzioni alle sedi diplomatiche, si trovò più volte a intraprendere un importante corso d’azione senza consultarlo, in genere appoggiandosi ad altri componenti dell’amministrazione. A partire dal 1938, per esempio, quando Roosevelt prese a far riferimento sempre più frequente e sostanziale al sottosegretario di Stato Sumner Welles – tanto da inserire lui e non H., nell’agosto 1941, nella delegazione che partecipò all’incontro di Placentia Bay con Winston Churchill per la formulazione della Carta atlantica – tale tendenza creò un ovvio motivo d’attrito tra Welles e H., che fu però attento a conservare il controllo sugli aspetti di politica estera connessi alle relazioni commerciali e interamericane e ai rapporti con i giapponesi, manovrando infine per ottenere le dimissioni di Welles nel 1943, a dimostrazione della sua tipica capacità di prevalere, con un’azione lenta e costante, nelle lotte interne all’amministrazione. Il declino delle condizioni di salute e il ricovero in ospedale resero comunque improrogabile la sua uscita di scena, nel novembre 1944. Il successore di Roosevelt, Harry Spencer Truman, lo nominò delegato alla conferenza di San Francisco per la fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, tra l’aprile e il giugno 1945. In quell’anno fu insignito del premio Nobel per la pace. Negli anni del ritiro dalla vita pubblica, scrisse un’autobiografia in due volumi, pubblicata nel 1948, e continuò a interessarsi delle grandi questioni internazionali ma si astenne dal commentare l’operato dell’amministrazione.
Massimiliano Guderzo
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