Il ruolo del referendum nella politica europea della Danimarca
Tra gli emendamenti alla Costituzione danese del 1953 vi fu una nuova sezione riguardante la delega dei poteri a organizzazioni internazionali (articolo 20), insieme a una serie di nuove possibilità per indire referendum. Inoltre, nella Costituzione, la delega dei poteri a organizzazioni internazionali è oggetto di referendum (articolo 42) se una legge implicante tale delega non ottiene la maggioranza dei cinque sesti richiesta nel Folketing (Parlamento unicamerale). Nel referendum i voti devono essere raccolti a favore o contro il disegno di legge. Per respingere un disegno di legge una maggioranza di elettori non inferiore al 30% deve votare contro il medesimo.
Nel 1961-1962 e nel 1967, la Danimarca, insieme a Gran Bretagna, Norvegia e Irlanda, fece richiesta di adesione alla Comunità europea, ma de Gaulle pose ripetutamente il veto all’ingresso della Gran Bretagna, bocciando così anche la richiesta danese, poiché collegata a quella britannica. Le trattative per l’ammissione furono riprese dopo l’incontro all’Aia del dicembre 1969. Il 2 ottobre 1972 venne indetto un referendum in riferimento all’articolo 20 della Costituzione, con il risultato di 63,3% di voti favorevoli e il 36,7% contrari all’adesione. Dal 1° gennaio 1973 la Danimarca divenne quindi membro della Comunità europea insieme a Irlanda e Gran Bretagna.
Tenendo conto del referendum del 1972 sull’ingresso danese nella Comunità europea, la Danimarca ha indetto in tutto sei referendum nazionali sulla Comunità europea/Unione europea. Tuttavia, non tutti questi referendum sono stati indetti in riferimento all’articolo 20.
Nel febbraio 1986, il governo conservatore-liberale indisse un referendum volontario e consultivo allorché il disegno di legge che autorizzava l’adesione della Danimarca all’Atto unico europeo (AUE), fu bocciato dal Folketing. Il governo dichiarò che non vi sarebbe stata alcuna delega alla sovranità danese come conseguenza dell’adesione all’AUE e che perciò un referendum in riferimento all’articolo 20 sarebbe stato inutile. Invece di indire nuove elezioni, che probabilmente non avrebbero portato alla vittoria della maggioranza di governo, quest’ultimo decise di organizzare un referendum consultivo sulla questione, prendendo in contropiede l’opposizione. Tuttavia, l’opposizione accettò di rispettare il verdetto del referendum, e allorché questo espresse il 56% di voti favorevoli, il Parlamento poté finalmente approvare il disegno di legge sull’AUE.
Il referendum sul Trattato di Maastricht del 1992 era previsto dalla Costituzione, essendo la maggioranza parlamentare inferiore ai cinque sesti necessari. Nel referendum del giugno 1992 il rifiuto del Trattato da parte della popolazione con un margine minimo, condusse a un “compromesso nazionale” da realizzare tra il governo e la maggior parte dei membri dell’opposizione, incluso l’euroscettico Partito popolare socialista (v. Euroscetticismo). Il compromesso portò all’approvazione del Trattato di Maastricht, a condizione che la Danimarca ottenesse quattro cosiddetti opt-out che lasciavano la Danimarca fuori dalla politica comunitaria in materia di Difesa, dalla terza fase dell’Unione economica monetaria (UEM) e dalla moneta unica, dalla Cittadinanza europea e dai settori sovranazionali riguardanti la cooperazione nella Giustizia e affari interni (GAI). Inoltre, come parte del “compromesso nazionale”, venne concordato che tutte le future modifiche degli opt-out sarebbero state approvate tramite referendum. Gli opt-out danesi furono accettati dai governi CE con l’Accordo di Edimburgo del dicembre 1992.
Il referendum sull’Accordo di Edimburgo nel maggio 1993 non venne richiesto legalmente perché una maggioranza di cinque sesti fu raggiunta con il sostegno del Partito popolare socialista. Tuttavia il referendum si rendeva necessario a livello politico giacché faceva parte del compromesso tra i principali partiti politici. Per cui il referendum ebbe luogo sfruttando un paragrafo della Costituzione che permetteva di indire un referendum volontario e vincolante (articolo 42, paragrafo 6 con riferimento all’articolo 19).
Nel 1998 non fu possibile raggiungere in Parlamento una maggioranza di cinque sesti sul Trattato di Amsterdam e si tenne un referendum in riferimento all’articolo 20, benché durante il suo svolgimento si discusse in merito al fatto che ciò potesse implicare una delega sostanziale di poteri costituzionali.
Infine, nel 2000, la coalizione di governo socialdemocratico–social-liberale tentò di capovolgere la rinuncia danese di aderire alla moneta unica, l’Euro. Per ragioni legali e politiche fu indetto un referendum in cui gli elettori respinsero la proposta.
La seguente tabella delinea le caratteristiche essenziali dei referendum danesi sulla CEE
Tab. 1. Referendum danesi sull’Europa 1972-2000.
Anno | Materia | Condizioni dell’indizione | Risultato: Percentuale dei “sì” | Effetti giuridici |
1972 | Adesione alla CEE | Art. 20:
Obbligatoria |
63,6% | Decisivi |
1986
|
Atto unico europeo | Legge:
Volontaria |
56,2% | Consultativi |
1992 | Trattato di Maastricht | Art. 20:
Obbligatoria |
49,3% | Decisivi |
1993 | Accordo di Edimburgo | Art. 42 (6) e Art. 19: Volontaria | 56,7% | Decisivi |
1998 | Trattato di Amsterdam | Art. 20:
Obbligatoria |
55,1% | Decisivi |
2000 | Moneta Unica | Art. 20:
Obbligatoria |
46,8% | Decisivi |
Gli esponenti politici danesi avevano indetto dei referendum su questioni inerenti all’Europa in misura maggiore di quanto previsto dalla Costituzione. Il Partito socialdemocratico aveva iniziato nel 1971 questa prassi, obbligando il governo borghese in carica ad accettare l’idea che un referendum vincolante dovesse tenersi in ogni circostanza, malgrado non fosse chiaro se un’elezione parlamentare avrebbe espresso una maggioranza di cinque sesti in favore dell’adesione alla CEE. Nel 1986 un altro governo borghese venne a rafforzare questa tendenza, indicendo un referendum sull’Atto unico europeo invece di annunciare nuove elezioni in seguito alla bocciatura in parlamento di tale questione. Infine, il compromesso nazionale del 1992 stabilì un requisito politico necessario per poter indire un referendum qualora gli opt-out concessi avessero subito modifiche.
In sostanza, con o senza l’intenzione esplicita della leadership politica, in Danimarca si è sviluppata una sorta di democrazia diretta legata alla precipua questione della delega di sovranità alle organizzazioni internazionali.
Palle Svensson (2012)