Infrazione al diritto dell’Unione Europea
Definizione, caratteristiche e basi normative
L’infrazione al diritto dell’Unione europea si realizza quando uno Stato membro viola uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei Trattati istitutivi, dei protocolli a questi allegati e dei trattati di adesione; dei trattati di modifica e di revisione dei suddetti Trattati istitutivi (v. Revisione dei Trattati); dei principi generali del Diritto comunitario, inclusi i diritti fondamentali; degli atti vincolanti (v. Regolamento, Direttiva, Decisione); degli atti atipici cui sia riconosciuta efficacia giuridica; degli accordi internazionali stipulati dall’Unione (in passato, dalla Comunità); e delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Per “Stato membro” deve intendersi lo Stato-organizzazione, comprensivo di tutte le articolazioni in cui si esprime l’esercizio del potere pubblico (v. Adam, Tizzano, 2010, p. 267 e ss.; Tesauro, 2010, p. 299 e ss.). Lo Stato membro è il solo responsabile di fronte all’Unione e può pertanto essere chiamato a rispondere sia della condotta di organi facenti capo al governo nazionale; sia della condotta imputabile a poteri indipendenti dall’Esecutivo o a enti territoriali dotati di autonomia e di competenze esclusive; sia ancora della violazione commessa da soggetti privati (che agiscono quindi in assenza di legami con gli organi statali) allorquando lo Stato non abbia posto in essere tutte le misure idonee a prevenire o a reprimere l’illecito (Corte di giustizia, sentenza 9 dicembre 1997, causa C-265/95, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1997, p. I-6959 e ss.).
L’inadempimento può essere omissivo o commissivo e consistere, ad esempio, nel non aver trasposto una direttiva nell’ordinamento statale, o integrato il contenuto di un regolamento, entro i termini stabiliti; nel non aver comunicato alla Commissione europea le misure attuative di una direttiva; nel non aver ottemperato a pronunce della Corte di giustizia; in una prassi amministrativa o giudiziaria contraria ai precetti del diritto dell’Unione (anche qualora vi fosse una formale conformità delle regole interne alle prescrizioni da quest’ultimo dettate); nel non aver espunto dall’ordinamento dello Stato norme contrastanti con il diritto dell’Unione, sebbene inapplicate o desuete (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 51 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 268 e ss.; Tesauro, 2010, p. 291).
La violazione va presa in considerazione nel suo oggettivo manifestarsi, non essendo necessario dimostrare la presenza di colpa o dolo da parte dello Stato o dei suoi organi e non essendo possibile, per lo Stato stesso, addurre giustificazioni motivate da eventi o situazioni quali lo scioglimento anticipato del Parlamento, una crisi di governo, la necessità di rispettare determinati adempimenti costituzionali o la ripartizione di competenze esistente con le Regioni (v. Tesauro, 2010, p. 300; Corte di giustizia, sentenza 21 giugno 1973, causa 79/72, Commissione c. Italia, in Raccolta, 1973, p. 667 e ss.; sentenza 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione c. Italia, ivi, 2003, p. I-721 e ss.). Uno Stato membro non può neppure trarre scusanti dall’atteggiamento, anch’esso contrario al diritto dell’Unione europea, tenuto da altri Stati membri: non può dunque invocare il principio inadimplenti non est adimplendum codificato dall’art. 60 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati ed eccepire così la violazione perpetrata da altri per legittimare la propria, rappresentando i Trattati istitutivi una lex specialis che prevale sul diritto generale (v. Tesauro, 2010, p. 301 e ss.; Corte di giustizia, sentenza 25 settembre 1979, causa 232/78, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1979, p. 2729 e ss.).
Per accertare, sancire e, se del caso, sanzionare gli inadempimenti di cui sopra, l’ordinamento dell’Unione europea dispone di un meccanismo di controllo diretto sui comportamenti degli Stati membri denominato “procedura di infrazione”, già delineato dagli artt. 226-228 del Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE) e dagli artt. 141-143 del Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (Trattato CEEA) ed oggi disciplinato, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, dagli artt. 258-260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Trattato FUE, per il testo del quale v. GUUE n. C 83 del 30 marzo 2010, p. 47 e ss.). Tale procedura è strutturata in una fase precontenziosa e in una fase (eventuale) contenziosa (v. sotto, § 2 e 3), può essere avviata dalla Commissione europea e dagli Stati membri (v. sotto, § 2) e svolge un ruolo complementare al rinvio pregiudiziale (art. 267 del Trattato FUE) poiché ha lo scopo di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione (nonché del diritto comunitario prodotto fino al 30 novembre 2009) ed è anche l’occasione per indicare agli Stati l’esatta portata di una norma del diritto dell’Unione (e di una norma comunitaria) laddove vi siano divergenze interpretative. Essa subisce peraltro una serie di contemperamenti e di deroghe nelle fattispecie riferite nel § 5; non la si usa, inoltre, per i disavanzi eccessivi di cui all’art. 126 del Trattato FUE e nell’ipotesi di violazione, ad opera degli Stati membri, dei Diritti dell’uomo tutelati in quanto princìpi generali del diritto, salvo che la violazione stessa si sia verificata in attuazione di una norma dei Trattati o di un atto derivato che autorizzi gli Stati medesimi all’emanazione di provvedimenti specifici (v. sotto, § 6).
Lo svolgimento della procedura di infrazione: la fase precontenziosa
Come accennato, la procedura di infrazione può essere intrapresa dalla Commissione e dagli Stati membri: l’art. 258 del Trattato FUE disciplina l’ipotesi, assai frequente, che sia la Commissione ad aprire il procedimento; il successivo art. 259 contempla invece la possibilità, molto più rara, che l’iniziativa venga assunta da uno Stato membro. Non è consentita l’azione di altri soggetti, segnatamente dei singoli; costoro possono tutt’al più denunciare la violazione alla Commissione o al proprio Stato per sollecitarli ad intervenire. Come ugualmente detto, la procedura in esame si suddivide in due fasi: una precontenziosa, di carattere preliminare e amministrativo, gestita dalla Commissione; l’altra contenziosa, di natura giudiziale, introdotta con ricorso dinanzi alla Corte di giustizia.
Con la fase precontenziosa ci si prefigge di comporre amichevolmente la controversia e, al tempo stesso, di precisare, delimitare e qualificare dal punto di vista giuridico l’oggetto della vertenza. La Commissione gode al riguardo di un ampio potere discrezionale, spettando soltanto ad essa (promotrice dell’interesse generale dell’Unione e custode della legalità secondo l’art. 17, par. 1 del Trattato di Maastricht – Trattato UE), la scelta di dare inizio alla procedura, di imprimere ad essa maggiore o minore celerità e anche di porvi fine con un’archiviazione preclusiva della fase contenziosa. Non è perciò possibile proporre contro la Commissione un ricorso in carenza ai sensi dell’art. 265 del Trattato FUE per l’omessa o la ritardata apertura o conclusione del procedimento (Corte di giustizia, sentenza 14 febbraio 1989, causa 247/87, Star Fruit Company SA c. Commissione, in Raccolta, 1989, p. 291 e ss.; sentenza 22 febbraio 2005, causa C-141/02 P, Commissione c. max.mobil Telekommunikation Service GmbH, ivi, 2005, p. I-1283 e ss.). Anche lo Stato che voglia avvalersi della procedura di infrazione deve preventivamente rivolgersi alla Commissione affinché questa (sempre con piena discrezionalità) attivi l’iter conciliativo (art. 259, 2° e 3° comma); se la Commissione decide di seguire il caso, il procedimento prosegue quindi nelle forme previste dall’art. 258 (v. Condinanzi-Mastroianni, 2009, p. 56 e ss., 66 e ss.; v. Adam, Tizzano, 2010, pp. 271 e ss., 284; Tesauro, 2010, p. 291).
La fase precontenziosa consta di tre momenti:
a) l’invio allo Stato membro presunto inadempiente di una lettera di messa in mora con la quale la Commissione, contestando determinati comportamenti, fissa un termine entro il quale lo Stato medesimo può presentare delle osservazioni;
b) la presentazione delle osservazioni da parte dello Stato membro;
c) l’emissione da parte della Commissione di un parere motivato (artt. 258, 1° comma e 259, 3° comma) mediante il quale si espongono definitivamente gli addebiti mossi allo Stato e si invita quest’ultimo a conformarsi entro un termine assegnato.
Per quanto concerne la lettera di messa in mora sub a), preme sottolineare come essa, firmata dal Commissario competente per materia, debba individuare il comportamento che si ritiene abbia dato luogo alla violazione; è ammessa una segnalazione sintetica dei motivi di doglianza qualora la Commissione preferisca poi circostanziarli nel parere motivato. Il termine concesso deve essere ragionevole ed è prorogabile. Le osservazioni richieste sub b) possono anche mancare e la Commissione passa, se lo ritiene opportuno, direttamente al parere motivato. Il parere motivato sub c) è un atto non obbligatorio (come tale non impugnabile per annullamento ex art. 263 del Trattato FUE), tramite il quale si puntualizzano ulteriormente (e più approfonditamente) gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della contestazione rivolta allo Stato membro. La sua funzione è preparatoria, in quanto normalmente, tranne in casi particolari (di cui si dirà tra breve e sotto, § 5), è il presupposto imprescindibile per l’esperibilità della fase contenziosa; è altresì privo di effetti vincolanti sia nei confronti dello Stato sia nei confronti dei terzi. Il termine per uniformarsi al parere deve essere ugualmente ragionevole e consentire comunque di apprestare utilmente una difesa; dopo la sua scadenza, la Commissione può instaurare il giudizio contenzioso (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 57 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 273 e ss.; Tesauro, 2010, p. 292 e ss.).
La fase precontenziosa fin qui sommariamente descritta è necessaria al fine di poter adire la Corte di giustizia. Talvolta la si può tuttavia evitare e giungere direttamente al contraddittorio dinanzi alla Corte. Ciò accade nelle ipotesi semplificate elencate al § 5, lett. a)-c) e qualora la Commissione, alla quale lo Stato membro che volesse contestare l’inadempimento di un altro Stato membro deve obbligatoriamente rivolgersi per far mettere in moto la fase precontenziosa, non abbia formulato il parere motivato entro tre mesi dalla domanda (art. 259, 4° comma del Trattato FUE).
La fase contenziosa
Decorso invano il periodo temporale del parere motivato senza che lo Stato membro si sia a questo conformato, la Commissione, come afferma l’art. 258, 1° comma del Trattato FUE, ha facoltà di adire la Corte di giustizia; lo stesso può fare lo Stato membro desideroso di convenire in giudizio un altro Stato membro, se vi è assenza di parere motivato per inerzia della Commissione. La Corte, che detiene di per sé una giurisdizione automatica, perché immediatamente e incondizionatamente accettata dagli Stati membri nel momento in cui aderiscono ai Trattati istitutivi, assolve qui ad una funzione obbligatoria a testimonianza della natura completa e chiusa del sistema proprio dell’ordinamento dell’Unione. L’art. 344 del Trattato FUE precisa infatti che “Gli Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso”, impedendo con ciò tutti gli altri mezzi tradizionali che mirano ad assicurare l’esatto adempimento degli obblighi che gli Stati assumono quando stipulano un accordo internazionale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 48; v. anche Adam, Tizzano, 2010, p. 282 e Tesauro, 2010, p. 303).
La fase contenziosa, il cui avvio non è obbligatorio né per la Commissione (stante la discrezionalità di cui si è detto sopra, § 2 e il tenore letterale dell’art. 258, 1° comma) né per uno Stato membro (data la forma verbale di tipo opzionale del pari utilizzata dall’art. 259, 1° comma del Trattato FUE), viene introdotta con ricorso. A pena di irricevibilità del ricorso stesso, i motivi in esso spiegati devono essere perfettamente coincidenti con quelli della lettera di messa in mora e del parere motivato, potendosi notificare allo Stato convenuto in giudizio ulteriori addebiti (purché aventi la medesima natura di quelli già individuati ed espressivi di un comportamento reiterato) solo se verificatisi o conosciuti dalla Commissione nelle more tra l’emanazione del parere e la presentazione del ricorso. Un mutamento legislativo intervenuto in pendenza della fase precontenziosa può essere oggetto di contestazione laddove le nuove norme non modifichino sostanzialmente quelle precedenti in relazione alle quali era scattato il controllo (Corte di giustizia, sentenza 22 marzo 1983, causa 42/82, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1983, p. 1013 e ss.; sentenza 4 febbraio 1988, causa 113/86, Commissione c. Italia, ivi, 1988, p. 607 e ss.; sentenza 9 novembre 1999, causa C-365/97, Commissione c. Italia, ivi, 1999, p. I-7773 e ss.; sentenza 18 novembre 2004, causa C-317/02, Commissione c. Irlanda, inedita).
L’adempimento tardivo dello Stato, sopraggiunto quando sia spirato il termine stabilito nel parere motivato o dopo la presentazione del ricorso, non vanifica l’interesse processuale della Commissione e non comporta conseguenze sull’attivazione, sulla prosecuzione o sull’esito del giudizio, a meno che la Commissione stessa non vi rinunci (Corte di giustizia, sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione c. Germania, in Raccolta, 1991, p. I-2607 e ss.; sentenza 2 giugno 2005, causa C-394/02, Commissione c. Grecia, ivi, 2005, p. I-4713 e ss.).
L’onere della prova ricade sulla Commissione. Nel corso del dibattimento, la Corte può inoltre emettere, su istanza della Commissione medesima, ordinanze cautelari (art. 279 del Trattato FUE) rivolte ad evitare che durante lo svolgimento del processo vengano pregiudicate le condizioni occorrenti per il fruttuoso esercizio dell’azione, a salvaguardia degli interessi delle parti in causa e della piena efficacia della sentenza finale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 67 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 275 e ss.; Tesauro, 2010, p. 293 e ss.).
Natura ed effetti della sentenza di inadempimento e della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 260 del Trattato FUE
Secondo l’art. 260, par. 1 del Trattato FUE, «Quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta». La fase contenziosa si chiude pertanto, in primo e unico grado, con una sentenza di mero accertamento (e quindi non costitutiva bensì soltanto dichiarativa), dotata in genere di efficacia retroattiva (salvo casi eccezionali) e opponibile erga omnes. Sullo Stato membro grava un obbligo di risultato: esso deve perciò cessare immediatamente di applicare le norme nazionali in cui si è concretizzata la violazione nonché adoperarsi a fare quanto necessario per eliminare completamente la situazione censurata e a porre rimedio agli effetti illeciti cui si è dato luogo. In proposito, sebbene la Corte si astenga abitualmente dal fornire ragguagli, la sentenza stessa può recare anche dei suggerimenti su quanto occorre mettere in pratica (Corte di giustizia, sentenza 16 dicembre 1960, causa 6/60, Humblet c. Stato belga, in Raccolta, 1960, p. 1125 e ss.; sentenza 6 maggio 1980, causa 102/79, Commissione c. Belgio, ivi, 1980, p. 1473 e ss.; sentenza 14 aprile 2005, causa C-104/02, Commissione c. Germania, ivi, 2005, p. I-2689 e ss.). È invece radicalmente escluso che la Corte abroghi o annulli le misure interne incompatibili con il diritto dell’Unione (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 75 e ss.; Adam-Tizzano, 2010, p. 278 e ss.; Tesauro, 2010, p. 304). I giudici nazionali devono vigilare affinché gli Stati membri rispettino la sentenza, potendo essi disapplicare le norme contrastanti con il diritto dell’Unione ed altresì acclarare la responsabilità dello Stato nei confronti dei singoli dovuta all’inadempimento con conseguente condanna al risarcimento del danno.
Dalla mancata, ritardata, imprecisa o comunque insoddisfacente adozione dei provvedimenti volti ad eseguire la sentenza della Corte, deriva, potenzialmente, un procedimento di infrazione aggiuntivo, introdotto nel 1992 dal Trattato di Maastricht e attivabile soltanto dalla Commissione. Per l’art. 260, par. 2, 1° comma del Trattato FUE, infatti, in tali frangenti «[…] la Commissione, dopo aver posto [lo] Stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa precisa l’importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze»; in maniera analoga dispone il par. 3, 1° comma dello stesso art. 260 (aggiunto dal Trattato di Lisbona) quando la Commissione proponga ricorso ex art. 258 reputando che lo Stato interessato non abbia adempiuto all’obbligo di notificare la misure di attuazione di una direttiva (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 77 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 280 e ss.; Tesauro, 2010, p. 305 e ss.). Il computo della sanzione (comunicazione SEC /2005 1658 del 12 dicembre 2005, v. GUUE n. C 126 del 7 giugno 2007, p. 15) viene determinato sulla base di tre criteri fondamentali: la gravità dell’infrazione; la sua durata; la necessità di garantire l’efficacia dissuasiva della sanzione stessa, onde evitare recidive. La penalità di mora consiste nel pagamento di una somma di denaro direttamente proporzionale al periodo di ritardo nell’inadempimento (600 Euro al giorno, aumentabili o diminuibili a seconda della gravità e della durata appena citate, e della capacità finanziaria dello Stato); la somma forfettaria implica il versamento di una quantità di denaro una tantum (con una cifra minima variabile Stato per Stato, da 180.000 euro per Malta a 12.700.000 euro per la Germania).
Contrariamente a quanto stabiliva l’art. 228, par. 2, 1° comma del Trattato CE (cfr. Mori, 2004, p. 1067 e ss.), l’attuale art. 260, par. 2, 1° comma, come modificato dal Trattato di Lisbona, rende più celere la procedura poiché non chiede più alla Commissione di formulare un nuovo parere motivato che precisi i punti sui quali lo Stato membro abbia disatteso la sentenza della Corte di giustizia né di attendere la scadenza di un nuovo termine concesso allo Stato per uniformarsi. Ancora una volta, i poteri della Commissione sono largamente discrezionali: se nell’istanza introduttiva alla Corte la Commissione sembra essere obbligata a prendere posizione sulla sanzione e sul relativo ammontare, essa non è tuttavia costretta a domandare che una sanzione sia in ogni caso imposta ma solo a motivare la decisione di rinunciare a tale richiesta (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 78 e ss.). Questa scelta non vincola peraltro mai la Corte di giustizia: statuisce il par. 2, 2° comma dell’art. 260 che «La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro […] non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità», avendo oltretutto essa la libertà di discostarsi dai conteggi della Commissione. Vedi anche in argomento il par. 3, 2° comma del medesimo articolo 260, il quale però esige che la Corte deliberi la somma forfettaria o la penalità mantenendosi entro i limiti dell’entità indicata dalla Commissione (v. Adam, Tizzano, 2010, p. 280 e ss.).
Queste pronunce della Corte costituiscono titolo esecutivo all’interno degli ordinamenti nazionali, in base agli artt. 280 e 299 del Trattato FUE, con apposizione della relativa formula dopo la verifica di autenticità dell’autorità competente (v. Tesauro, 2010, p. 307; v. però in senso contrario Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 81). Finora, la Corte di giustizia ha decretato penalità di mora unicamente nei riguardi di Francia, Grecia, Portogallo e Spagna (sentenza 4 luglio 2000, causa C-387/97, Commissione c. Grecia, in Raccolta, 2000, p. I-5047 e ss.; sentenza 25 novembre 2003, causa C-278/01, Commissione c. Spagna, ivi, 2003, p. I-14141 e ss.; sentenza 14 marzo 2006, causa C-177/04, Commissione c. Francia, ivi, 2006, p. I-2461 e ss.; sentenza 10 gennaio 2008, causa C-70/06, Commissione c. Portogallo, ivi, 2008, p. I-1 e ss.). In altri casi (coinvolgenti Francia e Grecia) la sanzione pecuniaria e la penalità di mora sono state cumulate; vi sono poi esempi nei quali, pur riconoscendo la doppia infrazione dello Stato, la Corte ha deciso di non comminare alcunché (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 80 e ss.).
Procedure abbreviate e speciali
In deroga agli artt. 258-260 del Trattato FUE, l’ordinamento dell’Unione permette talvolta che il controllo del comportamento degli Stati membri in riferimento ad obblighi prescritti dai Trattati istitutivi avvenga tramite uno schema più rapido di quello standard illustrato nei paragrafi precedenti, nel quale la fase stragiudiziale si omette a vantaggio della cognizione immediata della Corte di giustizia. Oltre al caso chiarito sopra, § 2, in cui vi è inerzia della Commissione nell’attivare la fase precontenziosa su richiesta di uno Stato membro, ciò succede:
a) nell’ipotesi di controllo sugli aiuti di Stato alle imprese, se lo Stato in causa non si conforma alla decisione con la quale viene constatata l’incompatibilità di un aiuto con il mercato interno o la sua attuazione abusiva (art. 108, par. 2, 2° comma del Trattato FUE);
b) nell’ipotesi prevista dall’art. 114, par. 9 del Trattato FUE in tema di ravvicinamento delle legislazioni nazionali;
c) ai sensi dell’art. 348, 2° comma del Trattato FUE, allorché uno Stato membro contravvenga agli artt. 346 e 347 del medesimo Trattato concernenti le misure adottate a tutela degli interessi essenziali della sicurezza nazionale, nell’eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l’ordine pubblico, di guerra o di grave tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra ovvero per far fronte agli impegni assunti ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 82 e ss.; Tesauro, 2010, p. 302 e ss.).
Esistono poi delle occasioni nelle quali il controllo assume connotati di specialità quanto alla sostanza del procedimento nonché alla titolarità della legittimazione attiva e passiva. Sotto il primo profilo, rilevano l’art. 106, par. 3 del Trattato FUE e il regolamento (CE) n. 2679/98 del Consiglio del 7 dicembre 1998 sul funzionamento del mercato interno in relazione alla Libera circolazione delle merci tra gli Stati membri (in GUCE n. L 337 del 12 dicembre 1998, p. 8 e ss.). Secondo l’art. 106, par. 3, la Commissione sorveglia l’applicazione delle disposizioni dei parr. 1 e 2 della stessa norma, recanti il divieto per gli Stati membri di emanare o mantenere misure contrarie ai Trattati nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui sono riconosciuti diritti speciali o esclusivi, e il dovere di sottoporre alle regole dei Trattati le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale. La vigilanza si esplica rivolgendo, quando occorra, agli Stati membri stessi le direttive o le decisioni ritenute opportune. Rimane peraltro ferma la possibilità che la Commissione agisca attraverso un ricorso per infrazione contro lo Stato membro colpevole di non aver dato seguito a quanto richiesto con le suddette direttive o decisioni (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 84 e ss.). Il regolamento n. 2679/98, dal canto suo, appronta una reazione in presenza di gravi perturbazioni, attribuibili ad una azione o ad una inazione di uno Stato membro, che siano di ostacolo alla libera circolazione delle merci (perché ne impediscono, ritardano o deviano l’importazione, l’esportazione o il transito) e che causino pregiudizio ai privati lesi. Sono previsti a questo scopo un obbligo di informazione reciproca tra gli Stati membri e la Commissione (art. 3); la conferma, per lo Stato membro sul cui territorio si sia prodotto l’ostacolo, dell’obbligo (imposto dal Trattato FUE) di adottare tutte le misure necessarie e proporzionate per rimuoverlo, dandone notizia alla Commissione (art. 4); e una procedura accelerata di richiesta di osservazione a tale Stato membro notificata formalmente dalla Commissione (art. 5). La notifica è equiparabile alla lettera di messa in mora della procedura di infrazione classica, e perciò la Commissione, se dovesse successivamente ritenere che il comportamento dello Stato dia luogo ad una violazione del diritto dell’Unione, può senz’altro trasmettere direttamente il parere motivato di cui all’art. 258, 1° comma del Trattato FUE (v. Mori, 2004, p. 1062; Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 87).
In merito al secondo aspetto, si segnalano gli artt. 271 del Trattato FUE e l’art. 145 del Trattato CEEA. Ai sensi dell’art. 271, lett. a) e d), nelle controversie concernenti, rispettivamente, l’esecuzione degli obblighi degli Stati membri derivanti dallo Statuto della Banca europea per gli investimenti (Protocollo n. 5 allegato al Trattato UE e al Trattato FUE) e l’esecuzione, da parte delle Banche centrali nazionali, degli obblighi derivanti dai Trattati e dallo Statuto del Sistema europeo di Banche centrali e della Banca centrale europea (BCE) (Protocollo n. 4, anch’esso allegato al Trattato UE e al Trattato FUE), il Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti (BEI) (nei confronti degli Stati) e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (nei confronti delle Banche centrali nazionali) dispongono dei poteri riconosciuti alla Commissione dall’art. 258 (apertura della fase precontenziosa e ricorso alla Corte di giustizia: v. sopra, § 2 e 3 nonché Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 87; Tesauro, 2010, p. 303). L’art. 145 del Trattato CEEA autorizza infine la Commissione, quando questa reputi che una persona o un’impresa abbia commesso una violazione non sanzionabile attraverso i rimedi desumibili dall’art. 83 del medesimo Trattato (richiamo; revoca di vantaggi particolari; sottoposizione dell’impresa ad amministrazione esterna; ritiro totale o parziale delle materie grezze o fissili speciali), a invitare lo Stato membro cui appartengono la persona o l’impresa a prendere provvedimenti e, in difetto, ad adire la Corte di giustizia per far appurare la violazione contestata.
Il controllo del comportamento degli Stati membri dell’Unione in tema di disavanzi pubblici eccessivi e di violazione dei diritti fondamentali
L’esercizio del diritto ad esperire le azioni di cui agli artt. 258 e 259 del Trattato FUE, ampiamente esaminati, è escluso ogniqualvolta si debba valutare la condotta degli Stati membri a proposito dei disavanzi pubblici eccessivi e della garanzia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I Trattati, in sostituzione, prevedono controlli e sanzioni di natura politica affidati al Consiglio dei ministri (e al Consiglio europeo) senza che alla Corte di giustizia sia riservato alcun ruolo. In relazione ai disavanzi pubblici eccessivi, che gli Stati membri devono evitare, l’art. 126 del Trattato FUE attribuisce al Consiglio (par. 9) il potere di intimare allo Stato inadempiente di prendere, entro un termine preciso, le misure volte alla riduzione del disavanzo ritenuta necessaria. Fintantoché lo Stato interessato non ottemperi, il Consiglio (par. 11) può chiedere che esso pubblichi informazioni supplementari prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la propria politica di prestiti verso lo Stato in questione; richiedere che lo Stato costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione fino a quando il disavanzo eccessivo non risulti corretto; e infliggere ammende.
Nel caso invece in cui il Consiglio europeo constati (con Voto all’unanimità, su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo) la violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori comuni indicati nell’art. 2 del Trattato UE sui quali si fonda l’Unione (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e diritti umani), il Consiglio, ai sensi dell’art. 7 dello stesso Trattato UE (frutto della revisione effettuata con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 ed oggi emendato dal Trattato di Lisbona), deliberando a Maggioranza qualificata può decidere (par. 3) di sospendere nei confronti dello Stato membro in parola alcuni dei diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati, incluso il diritto di voto del rappresentante del Governo di tale Stato in seno al Consiglio medesimo (v. Nascimbene, 2004, p. 58 e ss.; Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 88).
Pierluigi Simone (2012)