Introduzione
La cooperazione tra gli Stati nella comunità internazionale contemporanea è caratterizzata dalla scelta di dare vita a forme istituzionali denominate “organizzazioni internazionali” (v. Draetta, 1997; Panebianco e Martino, 1997; Zanghì, 2001). Queste rappresentano una soluzione al problema – che gli Stati avvertono in misura crescente, e parallela alla constatazione della loro interdipendenza – di perseguire efficacemente scopi che appaiono di difficile realizzazione quando gli Stati stessi agiscano uti singuli. L’organizzazione internazionale è, quindi, lo strumento istituzionale che consente agli Stati di raggiungere insieme, in forma associativa e istituzionalizzata, risultati che essi avvertono ardui da conseguire individualmente e che, invece, possono essere il soddisfacente risultato di una cooperazione sistematica e disciplinata da un più o meno raffinato apparato di norme giuridiche e da una più o meno sofisticata configurazione organica.
La riconosciuta necessità di cooperazione istituzionalizzata, dunque, conduce gli Stati a dare vita, mediante un accordo multilaterale, a organizzazioni internazionali. Negli ultimi decenni sono numerose quelle istituite dagli Stati, sia a vocazione universale (tendenti, cioè, a ricomprendere nella loro sfera soggettiva tutti gli Stati del mondo) sia di portata regionale (composte da Stati appartenenti a determinate aree del mondo). La cooperazione è di regola affidata a meccanismi decisionali di tipo intergovernativo. Gli Stati membri dell’organizzazione sono posti su un piano di parità, e le decisioni sono adottate da un organo plenario essenzialmente all’unanimità. Non è, cioè, possibile per l’organizzazione vincolare lo Stato dissenziente. In tale modello di organizzazione, la sovranità dei singoli Stati trova una salvaguardia adeguata. Le rinunce all’esercizio di poteri sovrani (jurisdiction) sono ovviamente possibili (e anche necessarie, in vista del raggiungimento degli obiettivi comuni), ma sono oggetto di negoziato multilaterale, con il ricorso agli strumenti tipici della diplomazia statuale. Lo schema, dunque, riflette il tradizionale modello riconducibile ai trattati di Westfalia del 1648, che hanno consacrato l’assetto della comunità internazionale moderna fondato sul reciproco riconoscimento della sovranità degli Stati (v. Cassese, 2003).
Il modello “comunitario” europeo e il dilemma dell’integrazione politica
All’indomani della Seconda guerra mondiale, un gruppo di Stati del continente europeo si è dato convenzionalmente un obiettivo molto più ambizioso di quello di una organizzazione internazionale: la realizzazione di una «unione sempre più stretta tra i popoli europei» (come recitano i preamboli dei Trattati istitutivi). I progetti politici volti a realizzare questo ambizioso obiettivo hanno trovato feconda ispirazione nella lunga tradizione culturale dell’idea di Europa, che per i secoli precedenti aveva prodotto importanti riflessioni (v. Chabod. 1961; Rapone, 200o; Romano, 2004; Cavalli, 2004; Padoa-Schioppa, 2001). Questi Stati hanno, quindi, intrapreso un “processo di integrazione” finalizzato a dare vita a una unione istituzionale dotata di carattere soprannazionale (v. Sperduti, 1960; Monaco, 1953; Capotorti, 2003). Le più impegnative implicazioni connesse con questa “integrazione sovranazionale” hanno indotto gli Stati promotori a scegliere una denominazione che fosse meglio rappresentativa della portata della loro scelta di quanto lo fosse il tradizionale termine “organizzazione”. Hanno, quindi, istituito tre “Comunità”, scegliendo un sostantivo che appariva più idoneo a riflettere la volontà di stringere legami forti di “integrazione”. In altri termini, se “organizzazione” appariva rappresentativo di una volontà di cooperazione, “comunità” rifletteva più efficacemente l’intenzione di avviare un processo di “integrazione” tra gli Stati firmatari dei trattati istitutivi (v. Trattato di Parigi; Trattati di Roma).
Diverse sono le accezioni e le modalità di realizzazione dell’integrazione (v. Integrazione, teorie della). In un significato generale, si tratta di superare le divisioni e le fratture, e di collegare in forma organica i membri di un’organizzazione (v. Pasquino, cit., p. 471). Nel caso di un’integrazione soprannazionale, l’obiettivo è quello di superare le divisioni tra gli Stati. Le diverse componenti (economica, giuridica e politica) sono – a scelta degli Stati – dotate di una differente scelta in termini di priorità. Il Funzionalismo, come si dirà, assegna un primato temporale e logico all’integrazione economica, accompagnata da una robusta componente giuridica. Il Federalismo, invece, ritiene prioritaria la dimensione politica, in quanto tocca al potere politico decidere l’integrazione, darle impulso e assumere la direzione della sua concreta realizzazione, assicurandone al contempo il carattere democratico.
Il processo di integrazione europea è stato concretamente avviato dalla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 (v. Piano Schuman). In essa, il ministro degli esteri francese Robert Schuman, largamente ispirato da Jean Monnet, ha enunciato il proposito degli Stati di realizzare tra loro una federazione (v. Federazione di Stati nazionali). Questo obiettivo, tuttavia, appare sfumato in una prospettiva gradualistica, ispirata al metodo “funzionalista”, sulla base della constatazione che la federazione «non si farà di colpo, né con una costruzione d’insieme», ma si attuerà «attraverso realizzazioni concrete, creando prima una solidarietà di fatto» (v. Ducci, Olivi, 1970, p. 158).
La federazione resta, quindi, l’obiettivo da perseguire. Essa, tuttavia, appare come il punto di arrivo di un processo – di “integrazione”, appunto – nell’ambito del quale gli Stati trasferiscono gradatamente sfere di poteri sovrani da se stessi alla Comunità.
Nell’integrazione europea, il graduale trasferimento di competenze e di funzioni avviene nell’alveo di un Processo decisionale complesso, gestito da istituzioni sofisticate, dotate di significativi poteri (v. anche Istituzioni comunitarie). Mentre nelle forme di Cooperazione intergovernativa le decisioni sono normalmente adottate con Voto all’unanimità, nell’integrazione europea di tipo soprannazionale la regola è rappresentata dalla maggioranza (v. Maggioranza qualificata), mentre l’unanimità è l’eccezione.
La costituzione delle Comunità europee, l’integrazione economica
Secondo il metodo funzionalista, gli Stati provvedono a trasferire all’ente soprannazionale competenze e funzioni in ambiti via via più estesi. Il “funzionalismo” prevede che dall’integrazione graduale di settori diversi si approdi a un’integrazione globale. La scelta operata a partire dalla citata Dichiarazione Schuman è stata di iniziare dall’integrazione del carbone e dell’acciaio, nella prospettiva della creazione di un mercato “comune” di questi. Il risultato di questa prima tappa è stato l’istituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), con il Trattato di Parigi del 18 aprile 1951. L’approccio “settoriale” è stato successivamente confermato dalla stipulazione del Trattato Euratom (Roma, 25 marzo 1957), istitutivo di una Comunità europea dell’energia atomica. L’approccio funzionalista è stato rilanciato con l’adozione, lo stesso 25 marzo 1957, del trattato istitutivo della terza Comunità, la Comunità economica europea (CEE). Questo, tuttavia, ha abbandonato la tecnica “settoriale” (carbone e acciaio, energia atomica), per affrontare in un contesto unitario l’intero ambito dell’integrazione economica.
All’interno della sfera economica, globalmente intesa nelle sue componenti essenziali del mercato e della moneta, l’integrazione è stata ancora affidata all’approccio funzionalista (v. Unione economica e monetaria). L’obiettivo della creazione di un “mercato comune” (v. Comunità economica europea) (dall’Atto unico europeo del 1986, “mercato interno”), fondato sulla Libera circolazione delle merci, sulla Libera circolazione delle persone, sulla Libera circolazione dei servizi e sulla Libera circolazione dei capitali, è stato accompagnato dalla esplicitazione dell’avverbio “gradatamente” per qualificare la scansione in “tappe” delle azioni ritenute necessarie per raggiungere l’obiettivo dell’integrazione dei fattori economici del mercato (v. Fantini, 1962).
I Trattati di Roma, infatti, han posto l’Unione doganale come fondamento della Comunità. La liberalizzazione della circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali è stata prospettata nel trattato istitutivo della CEE come il risultato di un’azione normativa, basata sull’adozione di atti normativi di secondo grado – regolamenti, direttive (v. Direttiva), decisioni (v. Decisione) – incentrati sull’inserimento di clausole di stand-still (divieto di introdurre nuove restrizioni) e di roll-back (graduale eliminazione delle restrizioni esistenti).
Dunque, grazie a questo metodo, è stata realizzata l’integrazione economica. Alle origini, all’epoca del grande congresso dell’Europa del maggio 1948 (v. Congresso dell’Aia), le prospettive non apparivano chiare. Tra i grandi statisti che presero parte a questa iniziativa politica di ampio respiro (Winston Churchill, che aveva invocato la creazione degli Stati Uniti d’Europa, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Léon Blum, Denis de Rougemont, Jean Monnet, Hendrik Brugmans e numerosi altri) vi era chi auspicava un rapido esito federalista e chi propendeva, invece, (come gli inglesi) per una mera forma di cooperazione interstatuale, rispettosa dei tradizionali connotati della sovranità. Questi ultimi diedero un forte impulso all’istituzione del Consiglio d’Europa, che ha rappresentato un importante alveo per la Cooperazione politica europea, per la promozione dei Diritti dell’uomo e per l’estensione della democrazia (v. Greppi, 1997, p. 87 e ss.)
Nel medesimo 1948 gli Stati europei avevano avviato l’esperienza dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) che, tuttavia, si collocava nella tradizionale scia della cooperazione intergovernativa, non intaccando i fondamenti delle prerogative statuali nella sfera economica, e limitandosi a realizzare i presupposti per un liberoscambismo regolato a maglie larghe (v. Comba, 1997, p. 35).
La prospettiva che si apre con la Dichiarazione Schuman è, invece, profondamente diversa. Dal mero liberoscambismo si propone il passaggio alla prospettiva di realizzazione di un sistema economico integrato, la cui attuazione concreta deve essere affidata a istituzioni comuni, dotate di vasti poteri e ampie competenze e disancorate dalla tradizionale dipendenza dagli Stati sovrani.
Si affermava così un nuovo modello politico, giuridico e istituzionale, che non riproduceva quello statuale, ma ne acquisiva elementi importanti, quali la disciplina interna degli scambi, la libertà di circolazione dei fattori economici (comprese le persone), l’uniformazione e il Ravvicinamento delle legislazioni, il controllo della concorrenza tra imprese (v. Politica europea di concorrenza), l’attuazione di politiche comuni (la Politica agricola comune, la Politica commerciale comune, la Politica di coesione, la Politica sociale) rese possibili dalla previsione di un bilancio comune (v. Bilancio dell’Unione europea).
Finalità e originalità dell’integrazione europea
La proposta di Monnet e di Schuman prende le mosse da esigenze squisitamente politiche, quali l’anelito alla pace dopo la tragedia della guerra mondiale, la imprescindibilità di fondare le nuove istituzioni sulla riconciliazione degli ex nemici, la soluzione al problema del futuro politico, economico e militare della Germania, per approdare a un modello che incardina la dimensione politica in una forma robusta di integrazione economica intesa come realizzazione graduale e progressiva. È un funzionalismo a vocazione federale che cerca di coniugare una prospettiva politica alta (ma probabilmente lontana) con l’esigenza di un approccio pragmatico, chiamato a fare i conti con la difficoltà di smantellare in tempi brevi il cospicuo castello della sovranità degli Stati.
L’impronta culturale industriale e tecnocratica di Monnet reca la convinzione che l’integrazione in un settore particolare (quale quello carbosiderurgico) sia suscettibile di dilagare a macchia d’olio, impregnando l’intero ambito delle economie degli Stati (v. Telò, 2003, p. 113). La volontà di raggiungere l’unità politica europea, secondo i funzionalisti, deve realisticamente passare attraverso un programma di azione nella sfera economica, capace di sfruttare la naturale spinta di questa, che è insita nello sviluppo tecnologico. L’integrazione economica porterà con sé anche quella politica, dal momento che anche le decisioni apparentemente solo economiche implicano un significato politico nelle menti di coloro che le assumono (quest’idea è chiaramente espressa da Habelshauser, 1994, p. 4, che considera «i processi di sviluppo tecnologico come forza propulsiva e la logica del mercato il motore dell’integrazione»). Un sistema economico connotato in chiave soprannazionale porterà anche alla realizzazione di una soprannazionalità nella sfera politica, con un effetto di spill-over.
L’idea funzionalista è stata sviluppata da David Mitrany, autore di interessanti saggi sulla teoria funzionale dell’integrazione internazionale, e collegata ad obiettivi federalistici in sede teorica da Ernst Haas, che ha applicato la teoria funzionalista agli obiettivi dell’integrazione regionale, e in chiave politica e concretamente propositiva da Monnet (v. Mitrany, 1933 e 1943; Haas, 1958; Monnet, 1976 e 1988. Su questi temi, v. anche Telò, cit.; Mammarella, Cacace, 1998; Olivi, 1993; Di Nolfo, 1996). Monnet, infatti, arricchisce la prospettiva teorica del funzionalismo con un elemento istituzionale originale. Ritiene, infatti, che la stipulazione di trattati contenenti diritti e obblighi reciproci non sia sufficiente a garantire il progredire dell’integrazione, non assicuri che gli Stati rispettino scrupolosamente gli impegni assunti e non fornisca il supporto al necessario dinamismo insito nell’idea stessa dell’integrazione graduale e progressiva. Di qui scaturisce la proposta originale della creazione di un’istituzione nuova, dotata di ampi poteri normativi e operativi, chiamata a occupare una posizione centrale nel sistema istituzionale della erigenda “Comunità”.
L’Alta autorità della CECA rappresenta così il cuore dell’apparato del nuovo ente. Per essa viene – per la prima e finora unica volta in un trattato istitutivo di un’organizzazione internazionale – introdotto esplicitamente un riferimento alla “soprannazionalità” delle sue funzioni, in una formulazione innovativa e per certi versi genuinamente rivoluzionaria nel diritto internazionale. L’Europa westfaliana degli Stati sovrani, superiorem non recognoscentes, introduce un’istituzione dotata di caratteri soprannazionali, significativamente denominata “Alta autorità” e dotata del potere di assumere iniziative autonome, capaci di tradursi in atti normativi a efficacia obbligatoria per gli Stati stessi e per i soggetti dei loro ordinamenti interni. Questo nuovo organo viene previsto con una composizione singolare di membri nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri ma con un profilo personale di marcata indipendenza dagli Stati stessi. I membri dell’istituzione, statuisce esplicitamente l’art. 9 del Trattato di Parigi, istitutivo della CECA, non devono tenere comportamenti incompatibili con il “carattere sopranazionale” delle loro funzioni. Questa previsione istituzionale resta una pietra miliare della costruzione di Monnet, ed è il fulcro di una concezione che vede collocare al centro del sistema un organo dotato di forti poteri e di larga indipendenza dagli Stati. Per connotarne i caratteri si è osato codificare il riferimento alla soprannazionalità e la denominazione “Alta autorità”, discostandosi notevolmente dalla configurazione del tradizionale schema ternario delle organizzazioni internazionali (v. Monaco, 1965). L’Alta autorità, cioè, non è un mero organo esecutivo delle decisioni adottate da un altro organo collegiale, ma è a un tempo dotata di poteri normativi e di governo nell’esclusivo interesse della Comunità. È anche organo tecnico, ma senza i classici limiti dei segretariati generali delle organizzazioni intergovernative. Insomma, Monnet e Schuman hanno costruito la CECA intorno all’Alta autorità. Anzi, è l’idea stessa di questo potere comune forte a rappresentare l’originalità della proposta del 9 maggio 1950. In essa, infatti, Schuman dichiara esplicitamente la volontà di porre le risorse carbosiderurgiche sotto «una comune alta autorità», sottraendole al controllo delle autorità statuali.
Il linguaggio ardito della dichiarazione Schuman e del Trattato di Parigi, con la menzione esplicita della soprannazionalità, sarà successivamente – con i Trattati di Roma, istitutivi della CEE e dell’Euratom – ridimensionato, senza tuttavia abbandonare la sostanza dell’idea di una collocazione dell’istituzione comune al di sopra degli Stati. In altre parole, al di là del formale abbandono del riferimento alla soprannazionalità, si può constatare il permanere della centralità dell’organo che sostanzialmente la incarna. Per non urtare la suscettibilità degli Stati, la denominazione passa dal più impegnativo “Alta autorità” al più burocratico “Commissione” (v. Commissione europea). Ma nella sostanza, l’impostazione rimane inalterata. La Commissione viene, cioè, concepita come il motore dell’integrazione europea, e le vengono affidate funzioni esclusive di proposta normativa, di iniziativa nel processo di formazione degli atti comunitari, cui si accompagna il fondamentale potere di vigilanza sul rispetto dei trattati e sul puntuale adempimento degli obblighi stabiliti negli atti di diritto derivato. Il cammino dell’integrazione dopo l’istituzione della CECA, tuttavia, non è stato privo di ricorrenti insidie. Per quanto si sia cercato di salvare la sostanza del metodo, collocando al centro del sistema istituzionale la Commissione, per certi versi, comunque, le due nuove Comunità hanno rappresentato un arretramento. L’abbandono del riferimento esplicito a concetti come quelli di soprannazionalità e di alta autorità indicano la presenza di rigurgiti di sovranità, di rivendicazioni di conservazione di domestic jurisdiction che non sono in sintonia con una genuina impostazione di impronta federalistica. Non a caso, all’abbassamento del profilo della Commissione fa riscontro un innalzamento di quello del Consiglio dei ministri, che incarna gli interessi e le preoccupazioni della salvaguardia della sovranità degli Stati membri. Questa tendenza ha trovato la sua massima espressione nell’istituzione del Consiglio europeo, organo dei capi di Stato o di governo, riedizione del “Concerto europeo” dei sovrani dell’Ottocento (v. Comba, 1980). Nei successivi passaggi, gli Stati (cioè i loro governi) sono sempre i protagonisti, a indicare quale sia ancora il peso dell’idea di sovranità.
Aspetti giuridici del metodo dell’integrazione comunitaria
Sotto il profilo giuridico, il metodo dell’integrazione si caratterizza per la collocazione della dimensione normativa al centro della progressione graduale. L’integrazione – obiettivo politico – si attua cioè all’insegna della rule of law. Il processo di integrazione viene fondato su Trattati (atti normativi di diritto internazionale) che sono ispirati a logiche di evidente matrice politica, ma con obiettivi che vengono perseguiti con strumenti normativi e istituzionali raffinati, in una complessa costruzione giuridica. Sono, infatti, previsti organi politici (un parlamento e una commissione, organi di individui, ed un consiglio, organo di Stati) chiamati a sviluppare un apparato di norme vincolanti (v. Diritto comunitario), ma anche un organo giurisdizionale, una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), che “assicura il rispetto del diritto” nell’interpretazione uniforme e nell’applicazione delle norme dei trattati. Negli anni di più desolante stallo del processo di integrazione, a fronte dell’incapacità delle istituzioni politiche di fare avanzare la soprannazionalità decisionale, è stata la Corte di giustizia ad assicurare la soprannazionalità normativa, con l’affermazione decisa e autorevole di principi come quelli dell’autonomia dell’ordinamento comunitario, del suo primato sui diritti statuali e della diretta applicabilità (v. Weiler, 1984) (v. Diritto comunitario, applicazione del).
Nel sistema comunitario, i trattati rappresentano un diritto “primario”, espressione della volontà degli Stati sovrani di «creare un’unione sempre più stretta fra i popoli europei». I trattati sono essi stessi espressione del “processo di integrazione”. I tre trattati detti “istitutivi” (quelli di Parigi e di Roma) sono, infatti, stati oggetto di periodiche integrazioni e modificazioni, finalizzate a fare avanzare l’integrazione verso gli obiettivi prefigurati dagli stati. Il dinamismo del metodo dell’integrazione si manifesta, quindi, in primis, nei trattati e nel loro continuo adattamento, frutto di “tappe” progressive: l’Atto unico europeo del 1986, il Trattato di Maastricht del 1992, Trattato di Amsterdam del 1997, il Trattato di Nizza del 2001, fino al Trattato “che istituisce una costituzione per l’Europa” (v. Costituzione europea). Non solo, ma il dinamismo è tradotto nella pratica anche e soprattutto dalla previsione che siano le istituzioni comunitarie a fare avanzare il livello dell’integrazione, attraverso il quotidiano esercizio della funzione normativa loro attribuita dai trattati. Questo diritto “secondario”, in quanto esercitato secondo le previsioni dei trattati, diritto “primario”, ha prodotto un formidabile corpus di norme che costituisce il cosiddetto acquis communautaire (v. Acquis comunitario), vero tessuto connettivo giuridico dell’integrazione economica.
Il problema dell’integrazione politica dell’Europa e la dicotomia Comunità/Unione
Nei decenni, l’integrazione si è periodicamente trovata a doversi confrontare con il dilemma delle origini. La prefigurazione e il graduale raggiungimento degli obiettivi economici non ha mai consentito agli Stati di eludere il problema di fondo: l’integrazione progressiva dell’Europa non può prescindere dalla dimensione squisitamente politica. Era l’alternativa delle origini, ed è rimasto il dilemma sotteso a tutto il progredire per tappe dell’integrazione.
All’epoca del fallimento del Trattato CED (v. Comunità europea di difesa), nell’estate del 1954, si era avvertito nettamente il permanere dell’influsso della concezione westfaliana che ancora condizionava il comportamento degli Stati nella loro vita di relazione. Le tematiche della sovranità e, quindi, la difesa e la sicurezza, mostravano di avere ancora un peso determinante nelle scelte del paese che si era posto alla guida del processo di integrazione, la Francia, portatrice del più radicato e, forse, del più comprensibile tra i nazionalismi europei (v. Ducci, cit., p. 215). Il trattato CED aveva rappresentato una fuga in avanti notevolissima. Si collocava, cioè, in una prospettiva funzionalista, in una logica di progressione graduale, step by step, ma lo faceva in un settore che non era assimilabile agli altri. In altre parole, mentre era possibile pensare al carbone e all’acciaio come “settori” dell’economia (e così pure, nell’immediato futuro, all’energia atomica), non era altrettanto possibile intendere la difesa e la sicurezza come mero “settore”, dal momento che portano con sé evidenti implicazioni politiche e istituzionali. Difesa e sicurezza, cioè, sono elementi inscindibili dal nucleo essenziale dei poteri sovrani dello Stato. Una rinuncia di sovranità in questo campo porta inevitabilmente con sé un avanzamento sensibile sulla strada del federalismo politico.
Di queste implicazioni era particolarmente consapevole una delle più lucide menti del pensiero federalista, Luigi Einaudi, quando avvertiva che «l’idea di federazione funzionale è frutto di confusione mentale» e dichiarava che «soltanto i soliti pasticcioni possono immaginare che in un dato territorio possano coesistere parecchi Stati dotati tutti di poteri sovrani» e concludeva che «per necessità logica e pratica, chi accetta l’idea di un esercito comune, deve andare sino in fondo e accettare l’idea della federazione politica». È, infatti, «un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico». Einaudi era convinto che fosse vero il contrario: «bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico» (v. Einaudi, 1956, p. 67 e ss. Su Einaudi federalista, v. Morelli, 1990; v. anche Einaudi, 1918). Delle stesse implicazioni erano coscienti Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi, che avevano voluto l’inserimento nel trattato CED di un art. 38 che prefigurava un’unione politica (v. anche Comunità politica europea).
Ancora prima che fosse compiutamente realizzata l’integrazione economica, le tematiche dell’integrazione politica sono periodicamente state oggetto di negoziato tra gli Stati membri. Con l’Atto unico europeo del 1986 è stata inserita nel principale trattato comunitario un lungo articolo dedicato alla cooperazione politica; con il Trattato di Maastricht del 1992 è stata introdotta una struttura a tre “pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea), nella quale due di questi sono stati intitolati “Politica estera e di sicurezza comune” e “Giustizia e affari interni”; con quello di Amsterdam del 1997 il settore della giustizia e degli affari interni è stato potenziato e ridenominato “Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale” (denominazione mantenuta nel Trattato di Nizza). Alla conformazione “comunitaria” dell’integrazione sovranazionale è stata affiancata e poi rafforzata quella dell’Unione, che affida, però, le politiche più connesse con la dimensione politica a meccanismi tradizionali di cooperazione intergovernativa, che non comportano rilevanti rinunce alla sovranità.
Dopo la conclusione del Trattato di Nizza, gli Stati hanno affrontato la sfida dell’integrazione politica in una duplice, impegnativa prospettiva. Da una parte hanno avviato il più grande Allargamento della sfera soggettiva della Comunità/Unione con l’ingresso di dieci nuovi Stati membri. Dall’altra, hanno intrapreso una complessa operazione diplomatica volta a dare sostanza a quella “Unione europea” che, da Maastricht in poi, era stata sostanzialmente confinata in una sorta di limbo nominalistico. In larga misura, infatti, i Trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza avevano gradualmente – in chiave strettamente funzionalistica – dato vita a una Unione che tale era soprattutto nell’intitolazione, chiamata a mascherare un’unità spesso solo nominale, priva di solidi riscontri sostanziali. È paradossale, infatti, che si sia attribuito a tutto quanto nei trattati veniva a investire importanti aspetti politici il termine “Unione” in un’accezione alquanto riduttiva, intesa come espressione di una mera cooperazione intergovernativa, lasciando che tutto quanto atteneva alla più genuina e profonda integrazione tra gli Stati membri rimanesse collegato alla dimensione della “Comunità”, unica effettiva portatrice di elementi di soprannazionalità. In altre parole, l’“Unione” veniva e riflettere un’idea di Europa assai meno impegnativa della “Comunità”, la prima essendo espressione di mera cooperazione intergovernativa, la seconda riflettendo invece un’assai più corposa attribuzione di poteri, funzioni e competenze in chiave soprannazionale.
Agli albori del XXI secolo, quindi, la Comunità/Unione si è trovata a fronteggiare il cuore dei problemi che si erano chiaramente posti alle origini dell’integrazione. Il futuro della costruzione europea è stato oggetto di un animato dibattito politico, con autorevoli interventi pubblici da parte di personaggi quali Joschka Fischer, Jacques Chirac, Helmut Josef Michael Kohl, Johannes Rau, Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Romano Prodi e altri.
La Convenzione europea e la logica intergovernativa
In esito a una decisione del Consiglio europeo di Laeken è stata istituita una Convenzione sul futuro dell’Europa (v. Convenzione europea), dotata di elevata rappresentatività, composta da 105 membri designati dai parlamenti nazionali e da quello europeo, dalla Commissione europea, dai governi nazionali, presieduta dall’ex Presidente della Repubblica francese Valery Giscard d’Estaing, con vicepresidenti gli ex primi ministri Giuliano Amato e Jean Luc Dehaene. La Convenzione – organo non previsto nel sistema istituzionale introdotto dai trattati (la formula era stata introdotta con la Convenzione che aveva elaborata la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, adottata il 7 dicembre 2000 a Nizza (v. anche Convenzioni). Al riguardo v. Bifulco et al., 2001; Ferrari, 2001) – ha adottato un progetto di nuovo trattato, che il Consiglio europeo di Salonicco ha fatto proprio, avviando una nuova Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative). Una certa retorica dominante ha voluto fare riferimento a una “Costituzione” e al relativo processo costituente. Occorre, invece, avere chiara la nozione della vera natura della Convenzione e dei suoi risultati. La Convenzione non è stata un’assemblea costituente e quanto ha prodotto non è una Costituzione. L’integrazione europea è stata sempre improntata a una logica intergovernativa, anche (e soprattutto) quando ha prodotto importanti risultati in chiave soprannazionale. Il processo politico avviato con la Dichiarazione Schuman è stato ispirato da una concezione e tradotto in un metodo che ha fatto dell’integrazione il risultato di una graduale e successiva traslazione di poteri, funzioni e competenze dai soggetti che ne sono i detentori (gli Stati, titolari di una plenitudo potestatis, e superiorem non recognoscentes) a un nuovo ente da essi creato (la Comunità e poi l’Unione). L’integrazione, cioè, è la risultante di una spinta politica resa manifesta in negoziati diplomatici tra Stati sovrani, finalizzati alla loro rinuncia a sempre più estese sfere di poteri e prerogative della sovranità a favore di un ente chiamato a esercitare – in via esclusiva o concorrente – competenze che gli Stati hanno inteso attribuirgli. Nell’ordinamento internazionale, le rinunce alla sovranità non sono implicite. Esse sono il risultato di un’esplicita manifestazione di volontà, che tradizionalmente è espressa nell’accordo. Così è sempre stato, fin dagli originari trattati istitutivi e, successivamente, in quelli modificativi e integrativi. Così è stato anche per i trattati che hanno previsto rilevanti rinunce a prerogative tradizionalmente ritenute connotato della sovranità, come nel caso del Trattato di Maastricht, che ha configurato la progressione verso l’Unione economica e monetaria (tradizionalmente, i sovrani hanno ritenuto loro prerogativa lo ius cudendae monetae e, per rendere “visibile” questo loro potere, usavano imprimere la loro effigie su un verso del conio. In Regno Unito, una moneta aveva anche assunto, significativamente, la denominazione di sovereign, e in numerosi Stati era – ed è ancora – denominata “corona”).
Il risultato dei lavori della Convenzione non sfugge a questa logica, che presiede a tutto il processo di integrazione europea. Il testo predisposto dai “convenzionali” è stato trasmesso al Consiglio europeo (organo dei capi di Stato o di governo). Una nuova conferenza intergovernativa, convocata secondo le previsioni del trattato sull’Unione europea e operante sul modello di quelle che hanno condotto alla conclusione dei trattati precedenti, dopo un lungo e defatigante negoziato ha prodotto un testo di “Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa” (v. Rossi, 2004) (v. Costituzione europea). Un’eccessiva enfasi sulla dimensione “costituzionale” non può offuscare la vera natura del testo. Esso è essenzialmente un trattato, risultato di un negoziato tra governi. Firmato solennemente dai governi, è soggetto ai tradizionali procedimenti di ratifica (con atto di ciascun capo dello Stato previa, se previsto dalla costituzione, autorizzazione parlamentare).
Anche questa ulteriore tappa (che non può essere, logicamente, l’ultima) si inserisce, dunque, nella scia delle precedenti, ed è ispirata al metodo dell’integrazione. Questa constatazione nulla toglie al significato profondo di un anelito a perseguire tenacemente l’idea dell’unione «sempre più stretta fra i popoli europei» che animava i padri fondatori.
L’integrazione – anche quando era finalizzata al raggiungimento di risultati economici – era e resta un grande progetto politico. Alla grandiosità storica del progetto di realizzare un’unione di tipo federale ha fatto e fa tuttora riscontro la persistente difficoltà di conciliare visioni e concezioni diverse da parte dei singoli Stati membri. Ora come mezzo secolo fa, gli Stati si trovano periodicamente a confrontarsi con i diversi modelli. Tra una scelta di mera cooperazione intergovernativa, fondata sulla centralità del ruolo degli Stati, gelosi custodi delle loro prerogative sovrane, e una di unione di tipo federale, con conseguenti rinunce di sovranità da parte degli Stati stessi, si è per decenni percorsa la terza via indicata dai fautori del metodo dell’integrazione in chiave funzionalista.
Il metodo originariamente scelto delude le più pure aspirazioni federaliste, ma ha pragmaticamente prodotto risultati rilevanti, con la compiuta integrazione economica e con l’istituzione, l’allargamento e l’Approfondimento di un’Unione che rappresenta, nel panorama complessivo delle organizzazioni internazionali, la più avanzata e raffinata realizzazione istituzionale.
Edoardo Greppi (2007)
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