Irlanda
Diventata repubblica nel 1949, benché non le fosse ancora possibile entrare all’ONU (incominciò ad avere relazioni internazionali stabili a partire dal 1955), l’Irlanda prese parte alla Commissione economica per l’Europa (ECE), che ebbe sede a Ginevra, come membro senza diritto di voto. Questo fu il primo passo per il paese verso l’unità europea, un concetto nuovo per l’Irlanda.
Il movimento verso l’unità europea cominciò già col Congresso dell’Aia del 1948, che vide la presenza anche di delegati irlandesi, e che diede luce a due istituzioni europee quali il Consiglio d’Europa e la Corte europea dei diritti dell’uomo.
I partiti politici irlandesi iniziarono a dare una loro impronta alla nuova politica estera. Cominciando con il governo del Fianna Fáil del 1947, passando per la coalizione di governo multipartitica che governò dal 1948 al 1951, il paese partecipò con entusiasmo allo European recovery program (ERP), più comunemente conosciuto come Piano Marshall, promosso dal governo statunitense. I partecipanti europei all’ERP s’incontrarono per la prima volta a Parigi il 12 luglio 1947, e crearono il Comitato di cooperazione economica europea. L’allora ministro irlandese per l’Industria e il commercio, rimarcò come l’Irlanda era ben contenta di partecipare ai lavori della conferenza, che venne vista come “essenziale” per le economie d’Europa.
I fondi ricevuti furono amministrati dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) di cui l’Irlanda fu un membro fondatore. L’Irlanda, in particolare con il suo ministro degli esteri, Seán MacBride, colse l’opportunità offerta dall’esser membro dell’OECE e del Consiglio d’Europa per stabilire legami fuori dal contesto del mondo anglofono. Più volte MacBride diede l’appoggio irlandese all’Europa occidentale, in nome della democrazia e dei “principi della cristianità”. L’Irlanda non poteva più rimanere isolata dal resto del mondo. MacBride divenne infine nel febbraio del 1950 vicepresidente dell’OECE; nonostante ciò non ci fu molto entusiasmo tra i politici irlandesi sui lavori del Consiglio, specialmente perché il tema della separazione irlandese non riceveva all’assemblea l’attenzione che secondo loro meritava. Molti interventi dei delegati irlandesi, come quelli di Eamon de Valera, del deputato del Fianca Fáil Seán MacEntee, o del leader del partito laburista William Norton, degenerarono in astiose denunce della separazione dell’isola a prescindere dagli ordini del giorno. L’innato entusiasmo irlandese per gli aspetti economici, sociali e politici dell’ERP non coinvolse allo stesso modo il tema militare. L’appoggio all’integrazione europea, mosso dalla necessità della ricostruzione economica postbellica e per evitare futuri conflitti, non appariva sufficiente per far cambiare questa posizione irlandese. L’Irlanda infatti non firmò il Trattato di Bruxelles del 17 marzo 1948, in cui cinque potenze europee (Belgio, Francia, Regno Unito, Lussemburgo e Paesi Bassi) decisero di formare un sistema difensivo comune e di consultarsi su problemi economici e culturali, avviando l’Unione dell’Europa occidentale (UEO). Inoltre, quattro membri irlandesi dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa votarono contro il Piano Schuman dell’agosto 1950.
L’Irlanda non partecipò nemmeno al trattato del 4 aprile 1949 che istituì il Patto atlantico (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). L’Irlanda quindi non entrò nella Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la quale non suscitò molto interesse nel paese, anche perché né il carbone né l’acciaio rappresentavano una voce significativa nelle importazioni irlandesi. Si preferì restare alla finestra e studiare le conseguenze economiche e sociali di lungo termine. Nonostante quindi nel dopoguerra avesse compiuto passi in avanti per emergere dall’isolazionismo, l’Irlanda non partecipò ai più importanti processi d’integrazione. L’isola venne comunque coinvolta, seppur senza molto entusiasmo, nei colloqui iniziali dell’OECE con l’obiettivo di creare un mercato di libero scambio paneuropeo per la metà degli anni Cinquanta.
La proposta dell’OECE di formare una zona di libero scambio fu fortemente appoggiata dal governo britannico, che assunse un ruolo chiave nella sua nascita. Di fronte all’opposizione francese alla creazione di un’area di libero scambio che comprendesse tutti i paesi OECE e all’entrata in vigore nel 1958 della Comunità economica europea (CEE) a sei, i principali paesi OECE non membri CEE (Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito) decisero di creare l’Associazione europea di libero scambio (EFTA), escludendo dai negoziati alcuni paesi, tra cui l’Irlanda. Fu così che nel 1959 l’Europa occidentale, che aveva tentato di avviare un’unica integrazione economica in ambito OECE, si separò in tre sfere economiche: quella dei sei fondatori della CEE, quella dei sette fondatori dell’EFTA, e i paesi “marginali”, che cioè non facevano parte di nessuna delle due nuove realtà. L’improvviso annuncio del maggio 1959 della decisione dei Sette di formare un’area di libero scambio causò un terremoto nell’economia e nella politica irlandese. Come si è detto, insieme agli altri paesi periferici dell’OECE, l’Irlanda non fu intenzionalmente invitata ai negoziati. La ragione principale di questo atteggiamento era abbastanza chiara. I Sette non volevano impantanarsi con i problemi dei paesi periferici, bensì volevano creare un’area di libero scambio rivale rispetto alla CEE. Si prospettò nuovamente un periodo d’isolamento economico, questa volta come risultato dell’esclusione irlandese dal processo di integrazione.
Un altro fatto da sottolineare è come questo annuncio inaspettato avesse spinto una volta per tutte il governo irlandese a confrontarsi seriamente con il tema dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). L’Irlanda entrò in un periodo di grandi cambiamenti, sia in politica interna che in politica estera. Per quanto riguarda la politica interna, l’estate 1959 viene vista come il periodo della svolta nello sviluppo politico del paese. La decisione di de Valera di dimettersi dalla vita politica attiva in giugno, e l’ascesa di Seán Lemass alla guida del governo costituirono una liberazione dall’impasse governativa che aveva bloccato la vita politica irlandese e soffocato quella economica e sociale. Il 26 luglio 1961 Harold Macmillan, primo ministro britannico, comunicò informalmente al primo ministro Lemass che il suo governo aveva deciso di entrare nella CEE. Questa mossa, inaspettata, consegnava al passato quello che era stato un periodo di incertezza circa il futuro ruolo irlandese nel processo d’integrazione europea. La prima richiesta dell’Irlanda di entrare nella CEE ebbe esito negativo, dopo un breve periodo dei negoziati che terminarono nel gennaio 1963, senza che il governo di Dublino venisse realmente coinvolto nei negoziati. Questa bocciatura avvenne a seguito dell’intransigenza del presidente francese nei confronti della richiesta di adesione della Gran Bretagna. La pratica irlandese era strettamente legata a quella britannica, a testimonianza del poco peso di Dublino. Una volta che la Francia si oppose alla candidatura del Regno Unito, anche quelle degli altri paesi (Danimarca, Irlanda e Norvegia) furono bloccate. Le considerazioni aggiornate della Commissione europea, presentate il 5 agosto 1969, misero fine alle voci che volevano una Comunità ristretta a sette paesi, con l’inclusione quindi solo del Regno Unito, e venne dato parere positivo all’apertura simultanea dei negoziati con tutti e quattro i paesi candidati; parere che venne confermato al vertice dell’Aia. I negoziati tra la CEE e l’Irlanda furono avviati nel settembre 1970 e durarono fino al gennaio 1972.
Per la prima volta, l’Irlanda poté avviare serie e costruttive discussioni con le Istituzioni comunitarie e con gli Stati membri sulla sua domanda di adesione.
Tra la fine del 1969 e l’estate 1970 Dublino adottò una strategia su tre fronti per cercare di ottenere l’ingresso, basata rispettivamente sulle relazioni anglo-irlandesi, l’opinione pubblica interna e una pressione sui Sei.
Per quanto riguarda i rapporti con Londra, l’Irlanda fu aiutata dall’esistenza dell’Area di libero scambio anglo-irlandese (Anglo-Irish free trade agreement, AIFTA) del 1965, che permise l’apertura di incontri bilaterali per esaminare le implicazioni dell’adesione sulle loro già esistenti relazioni economiche.
In secondo luogo, il governo irlandese pubblicò nell’aprile 1970 un Libro bianco intitolato Far parte delle Comunità Europee – implicazioni per l’Irlanda, che rappresentava un cambiamento rispetto a pubblicazioni passate di questo tipo, limitate a constatare la creazione delle Comunità e il loro sviluppo, in quanto analizzava l’impatto economico dell’ingresso, senza trascurare gli effetti costituzionali e politici.
Per quanto concerne la terza strategia, il nuovo ministro degli esteri irlandese Patrick Hillery si recò in visita nelle capitali degli Stati membri, per prima cosa per confermare la determinazione del suo paese a entrare nelle Comunità, ma anche per dichiarare categoricamente che l’Irlanda comprendeva e accettava senza riserve le implicazioni politiche ed economiche che ne derivavano. Fu comunque l’incontro che si svolse in Lussemburgo il 30 giugno 1970 che diede al governo irlandese la prima vera possibilità di esporre la propria posizione in maniera ufficiale nell’ambito dell’apertura dei negoziati per l’Allargamento. Benché questo primo incontro fosse sotto molti aspetti più che altro cerimoniale, offrì l’opportunità all’Irlanda di manifestare il suo punto di vista. Naturalmente Dublino era interessata a sottolineare alcuni aspetti presso il tavolo dei negoziatori, specialmente l’integrazione delle economie dei paesi candidati con il sistema comunitario e il necessario periodo di transizione per il suo raggiungimento. Non sorprese il fatto che, nel caso irlandese, l’aspetto più importante riguardasse i settori agricolo e industriale. In campo agricolo, il ministro degli esteri disse che il suo governo accettava gli obiettivi della Politica agricola comune (PAC) ispirati ai Trattati di Roma, sosteneva l’azione intrapresa dalla Comunità per implementarla e che l’Irlanda avrebbe giocato un ruolo costruttivo ed operativo nei suoi sviluppi successivi. Essendo un settore molto importante nell’economia del suo paese, asserì che condizioni razionali e ben regolate di commercio internazionale dei prodotti agricoli erano necessarie per il bene dell’economia dell’Irlanda e che la partecipazione del suo paese avrebbe offerto basi sicure per uno sviluppo equilibrato dell’agricoltura irlandese.
Pur non prevedendo particolari difficoltà in caso d’ingresso nella PAC, Dublino volle comunque discutere alcuni aspetti specifici dell’accordo agricolo comunitario.
Lo sviluppo di una politica comune sulla pesca era un tema sul quale il governo irlandese avrebbe prestato volentieri molto interesse durante i negoziati, ma per il momento non apparve necessario porre molta attenzione.
Per quanto riguarda il settore industriale, Hillery ne sottolineò la crescita durante gli anni Sessanta. La produzione industriale in quel periodo era cresciuta del 7% annuo; nel 1969, per la prima volta le esportazioni dei prodotti industriali superarono la metà della quantità totale dei beni esportati dal paese.
Sui problemi che l’Irlanda doveva affrontare, il ministro affermò che l’ingresso nella CEE avrebbe richiesto qualche aggiustamento e adattamento nei settori industriali e commerciali, ma che si aspettava che la maggior parte di questi passi avrebbero potuto godere delle condizioni transitorie previste dai Trattati di Roma. Aggiunse anche che erano presenti poche industrie per le quali queste condizioni speciali potevano non essere sufficienti e che di questo il governo ne avrebbe voluto discutere durante i negoziati.
Tornando alla crescita industriale del suo paese, Hillery affermò che alla base di questo successo vi era una politica per lo sviluppo industriale predisposta dal governo al fine di incoraggiare la rapida espansione del settore attraverso incentivi finanziari e fiscali. Dipendendo la continuazione della crescita economica dal mantenimento di tali incentivi, il governo sentiva la necessità di discutere anche di questo durante le trattative per l’adesione. A difesa degli incentivi, il ministro irlandese dichiarò che la piccola dimensione del mercato interno e delle unità industriali lasciava l’economia del suo paese particolarmente vulnerabile al dumping e che era necessario trovare una soluzione soddisfacente al problema. Il discorso di Hillery toccò anche le procedure negoziali. L’Irlanda era convinta che queste procedure dovessero essere stabilite prima che i negoziati entrassero nel vivo e che tutti e quattro i paesi avrebbero dovuto prender parte alle discussioni iniziali. Il primo incontro ministeriale segnò l’inizio sostanziale dei negoziati.
La delegazione irlandese a questo meeting che si tenne a Bruxelles il 21 settembre 1970 era ancora una volta guidata da Hillery, il quale presentò ventuno punti che andavano approfonditi – dalla necessità di un periodo di transizione per gli accordi commerciali dell’Irlanda con il Regno Unito, alla libera circolazione dei lavoratori, ai finanziamenti delle Comunità. I negoziati a livello ministeriale continuarono per tutto il 1971 e anche il 1972, ma vennero fatti rapidi progressi nella maggior parte dei ventuno punti della lista di Hillery. Furono soprattutto due i temi più controversi: quello relativo alla pesca e quello sulla libera circolazione degli operai. La conclusione dei negoziati avvenne il 18 gennaio 1972 con l’accordo in extremis sulla pesca, e vide il parere favorevole espresso dalla Commissione. Dopo pochi giorni, il presidente del Consiglio europeo in carica (v. anche Presidenza dell’Unione europea), Gaston Thorn, scrisse una lettera di congratulazioni al governo di Dublino.
Gli irlandesi, rappresentati da John Mary Lynch e Hillery, aggiunsero le loro firme al Trattato di adesione a Bruxelles il 22 gennaio 1972.
Dopo la firma a Bruxelles, le preparazioni del paese per il suo ingresso procedettero in maniera tranquilla. La procedura finale richiedeva l’approvazione non solo del governo, ma anche un referendum popolare. Una chiara indicazione della serietà con cui il governo affrontò il referendum è dimostrata dalla decisione di costituire un comitato interministeriale per fornire un appoggio decisivo nella campagna referendaria. Ciascun ministero contribuì alla stesura di documenti sul tema di propria competenza. Nella campagna referendaria, guidata dal primo ministro e dal ministro degli Esteri, l’attenzione venne focalizzata sui benefici dell’adesione e sugli svantaggi derivanti nel caso di un risultato negativo.
Per quanto riguarda i partiti tanto il Fianna Fáil che il Fine Gael appoggiarono l’adesione alla CEE; identica posizione presero le associazioni degli impiegati e degli agricoltori, mentre si dichiararono contrari il Labour party e i sindacati.
Alla fine, il referendum del 10 maggio 1972 ottenne una larga maggioranza favorevole; votò il 71% dell’elettorato e si espresse a favore dell’adesione dell’Irlanda alle Comunità l’83,1% dei votanti.
Grazie a questo risultato, i preparativi per l’ingresso del paese potevano procedere. L’altra sfida che attendeva il governo era il passaggio parlamentare, che avrebbe dovuto inserire un appropriato articolo nella costituzione. L’8 giugno 1972, venne approvata una modifica costituzionale a seguito della quale venne inserito il comma 3 nel paragrafo 4 dell’articolo 29 della costituzione irlandese, permettendo all’Irlanda di diventare membro delle Comunità Europee.
Il 1° gennaio 1973, quasi una dozzina di anni dopo il primo tentativo di adesione del 1961, l’Irlanda entrò nelle Comunità europee. Insieme alla Danimarca e al Regno Unito, si formò così un’Europa a Nove.
Intanto, il dibattito sul mantenimento o meno del cambio fisso con la sterlina inglese entrò nel vivo. La discussione venne alimentata dalla decisione britannica di non partecipare nel 1972 al “Serpente monetario” e di lasciar fluttuare la propria moneta liberamente sul mercato dei cambi.
La Banca centrale, a metà degli anni Settanta, affermò che il legame tra la sterlina irlandese e quella britannica diventava sempre meno vantaggioso. La moneta britannica si svalutava e il commercio con Londra era in forte diminuzione.
Parallelamente al dibattito in Irlanda sul legame tra le due valute, in Europa si discuteva della possibilità di un accordo per arrivare a tassi di cambi meno instabili. Nell’aprile 1978, il Consiglio europeo a Copenaghen pose le basi per la creazione di una “zona di stabilità monetaria” in Europa e le istituzioni comunitarie vennero invitate a individuare i meccanismi necessari per arrivare a questa soluzione. Al Consiglio di Brema del luglio 1978 furono discusse le principali caratteristiche del Sistema monetario europeo (SME). Tra queste, era prevista l’introduzione dell’ECU (European currency unit) e un meccanismo finanziario a supporto. Al Consiglio europeo di Bruxelles del dicembre 1978 venne firmato l’accordo per la creazione dello SME, un sistema di tassi “fissi ma modificabili”.
È in questo contesto di cooperazione monetaria in Europa e di disaffezione rispetto al legame con la sterlina britannica che l’Irlanda dovette decidere se fare parte o meno dello SME. Alla fine, contrariamente a Londra, l’Irlanda decise di partecipare. Durante i negoziati per lo SME, fu riconosciuto il fatto che l’adesione a un regime di cambi fissi con monete forti avrebbe potuto causare problemi per i paesi con alta inflazione, come l’Irlanda e l’Italia. A compensazione di ciò, furono approvati gli aiuti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI). L’Irlanda scelse il margine di fluttuazione del 2,25% all’interno dello SME, temendo che margini più ampi potessero favorire la speculazione sulla valuta.
Sebbene venisse riconosciuto il fatto che la partecipazione allo SME avrebbe portato a una rottura del legame con la sterlina britannica, si cercò di mantenere la parità il più a lungo possibile. In realtà la rottura avvenne molto presto. Lo SME entrò in vigore il 13 marzo 1979. Verso la fine di marzo, la moneta britannica si apprezzò su tutti i paesi facenti parte dello SME in seguito agli aumenti del prezzo del petrolio. Il 30 marzo, la sterlina inglese toccò il limite più alto della fluttuazione consentita con il franco belga. Poiché l’Irlanda faceva parte dello SME, la sterlina irlandese non poté seguire la divisa britannica. Dopo cinquant’anni dalla sua formale attuazione, il legame di parità tra le due sterline venne interrotto. La valuta britannica fece il suo ingresso nello SME soltanto nel 1990 e, dopo due anni, il 16 settembre 1992, fu costretta a uscirvi a seguito di una nuova svalutazione. La creazione dello SME fu un primo passo concreto verso l’unione monetaria, ma fu solo in seguito all’Atto unico che il progetto trovò spinta nuovo impulso, in quanto la progressiva realizzazione dell’unione monetaria rappresentava la conseguenza logica del conseguimento di un mercato libero da barriere doganali.
Nel summit europeo di Hannover del giugno 1988, sotto la direzione della Commissione Delors, fu, infatti, deciso di procedere concretamente alla realizzazione dell’unione monetaria. Il Rapporto Delors sull’Unione economica e monetaria (UEM) venne firmato nel giugno 1989. Il documento si prefiggeva, quale obiettivo finale, il raggiungimento dell’unione monetaria attraverso tre fasi distinte, le quali avrebbero trovato una propria sistemazione giuridico-istituzionale nel successivo Trattato di Maastricht (1992). La prima fase consisteva nel completamento del Mercato unico, attraverso la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Questa fase ebbe inizio il 1° luglio 1990. La seconda fase prevedeva la convergenza fiscale e monetaria. A tal fine venne creato l’Istituto monetario europeo, con il compito di coordinare le Banche centrali nazionali nel corso di questo passaggio delicato. Con l’inizio di questa fase, avvenuto il 1° gennaio 1994, si stabilì quali paesi avrebbero potuto far parte della UEM, fin dall’inizio della sua entrata in vigore. La terza e ultima fase, cominciata il 1° gennaio 1999, prevedeva l’entrata in funzione della Banca centrale europea (BCE) cui venne affidata la gestione della politica monetaria, dopo aver fissato i tassi irrevocabili di conversione delle divise europee nei confronti dell’Euro, divenuto la moneta ufficiale dei paesi membri dell’UEM.
Nel periodo che vide i paesi comunitari interrogarsi sulla necessità di procedere all’unione monetaria, l’Irlanda cominciava a percepire i primi benefici derivanti dallo SME, di cui faceva parte. L’inflazione, infatti, era già scesa negli anni Ottanta al di sotto del 5%, così anche i tassi d’interesse a breve termine, che nel 1987, per la prima volta nella storia, erano divenuti inferiori a quelli britannici. In conseguenza di ciò, L’Irlanda, alla fine del decennio, aveva registrato una sostenuta crescita economica. È in questo clima che il governo irlandese firmò il Trattato di Maastricht, subito ratificato dal referendum popolare con quasi il 70% dei voti favorevoli. In questo modo l’Irlanda prendeva parte al processo costitutivo dell’UEM non senza un certo ottimismo. Il 2 giugno 1992, però, il voto contrario del referendum danese generò le prime preoccupazioni sulla possibilità di raggiungere l’unione monetaria nei tempi previsti dal Trattato. Nel settembre dello stesso anno, la sterlina inglese e la lira italiana furono costrette a uscire dallo SME, mettendo in crisi la stabilità valutaria degli altri paesi della Comunità, compresa l’Irlanda. Sebbene molti ritenessero che si fosse giunti a un’impasse che avrebbe rinviato nel tempo il completamento dello UEM, nel dicembre 1995 il Consiglio europeo di Madrid riaprì le speranze, confermando per la data del 1° gennaio 1999 l’inizio della terza fase, necessaria al conseguimento dell’unione economica e monetaria. In seguito al Consiglio di Madrid, il governo irlandese istituì particolari uffici con il compito di seguire e facilitare l’adeguamento della legislazione nazionale alle nuove normative comunitarie, in vista della realizzazione della terza fase dell’UEM. Nel 1996, la federazione dei banchieri irlandesi, insieme alla Banca centrale d’Irlanda, prese parte al comitato per la gestione del passaggio dell’Irlanda dal sistema monetario nazionale a quello comunitario della moneta unica. Nello stesso anno, si attivò anche il Dipartimento dell’industria, commercio e sviluppo affinché si facesse un’adeguata campagna di informazione sulla nuova moneta e si fornisse assistenza alle categorie economiche nel corso del passaggio dalla sterlina irlandese all’euro.
Nel maggio 1998, raggiunti da parte dell’Irlanda i requisiti necessari per accedere alla terza fase, venne costituito l’Euro changeover board of Ireland (ECBI). Questo istituto aveva due obiettivi: monitorare il changeover con l’euro e informare la popolazione. Il comitato era formato dai rappresentanti delle diverse categorie economiche, del settore sia pubblico che privato. Come era avvenuto per lo SME, anche in questo caso la posizione assunta dalla Gran Bretagna rispetto all’adozione della moneta unica influenzò la scelta del governo irlandese. Benché il commercio con il Regno Unito fosse diminuito in maniera significativa negli ultimi decenni, l’adozione dell’euro da parte di Londra avrebbe portato all’Irlanda importanti vantaggi economici. Secondo alcuni economisti, però, tali vantaggi non avrebbero compensato la perdita dovuta ai tassi di cambio. In ogni caso, l’eventualità o meno della confluenza della sterlina inglese nell’euro mise il governo irlandese in seria difficoltà, aprendo due possibili e differenti scenari. Così, su commissione del ministero delle Finanze, nel gennaio 1996, l’Economic and social research institute (ESRI) approntò uno studio tenendo conto di entrambe le eventualità. Nel documento frutto della ricerca si affrontava il problema dell’adozione dell’euro da parte dell’Irlanda con particolare attenzione alle scelte britanniche in campo monetario; inoltre lo studio si interrogava sulla capacità dell’economia irlandese di rispondere a questo cambiamento epocale. Sulla base di queste ricerche si faceva una previsione sulle conseguenze economiche dell’UEM riguardo al livello dei tassi d’interesse, agli effetti sulla competitività e sui costi delle transazioni commerciali con l’estero. L’obiettivo finale dello studio era di quantificare gli effetti che l’adozione della moneta unica avrebbe avuto su questi tre aspetti dell’economia irlandese.
Sul medio termine, si prevedeva che i principali benefici sarebbero derivati da tassi d’interesse più bassi. Ovviamente, lo scenario più favorevole prevedeva l’ingresso del Regno Unito nell’UEM. Cionondimeno anche se la sterlina inglese fosse rimasta fuori dal “sistema euro”, il bilancio economico finale, in previsione dell’ingresso dell’Irlanda nell’UEM, sarebbe stato comunque considerato positivo.
Nonostante l’approssimarsi della data di inizio della terza fase, prevista per il 1999, e l’ormai certa partecipazione dell’Irlanda all’UEM, persistevano ancora alcuni problemi tecnici da superare. Innanzitutto si doveva decidere il tasso di cambio irreversibile della sterlina irlandese. L’apprezzamento della moneta durante il 1997 e il 1998 avrebbe potuto portare ad una crescita dell’inflazione nei primi anni dell’UEM. Questo problema venne affrontato nel marzo 1998, con la conseguenza di un deprezzamento della moneta irlandese rispetto al marco tedesco. Secondariamente, si dovevano adeguare agli standard dell’UEM alcuni strumenti tecnici della politica monetaria irlandese. Infine, era necessario determinare alcuni cambiamenti alla legislazione nazionale. Le modifiche principali vennero apportate dal Central bank act e dall’Economic and monetary union act del 1998. Quest’ultimo stabilì che a partire dal 1° gennaio 1999 il paese avrebbe abbandonato la sterlina irlandese in favore dell’euro.
I tassi di conversione con l’euro da applicare alle divise nazionali degli undici Stati membri dell’UEM vennero irrevocabilmente fissati dal Consiglio ECOFIN del 31 dicembre 1998. Il 1° gennaio 1999 l’euro entrò in vigore, diventando la moneta ufficiale dell’Unione europea, sebbene ancora in maniera “virtuale”; cioè senza la circolazione della corrispettiva cartamoneta. Le monete e banconote della sterlina irlandese, infatti, continuarono a circolare fino al 2002. In realtà l’euro aveva solo sostituito le monete nazionali e i relativi tassi d’interesse nei mercati finanziari extracomunitari. Il changeover avvenne nel 2002, quando l’euro sostituì materialmente la sterlina irlandese insieme alle altre monete europee della “zona euro”. Nell’aprile 2000 l’ECBI pubblicò il Cash changeover plan: un documento composto da quattro sezioni in cui si fornivano ai cittadini alcuni consigli pratici per affrontare il changeover con meno problemi e rischi possibili. Nel documento venivano accuratamente illustrati disposizioni e preparativi al changeover e venivano presentati i piani di supporto per i settori più a rischio e maggiormente coinvolti dal cambiamento.
Prese così avvio una campagna di informazione rivolta a tutti i cittadini affinché si preparassero a eseguire in euro le transazioni e le altre operazioni economiche. Nei mesi di novembre e dicembre 2001 vennero distribuiti convertitori elettronici e illustrate le banconote e le monete, spiegandone tipologia e caratteristiche di sicurezza. Dopo una settimana dall’inizio del changeover, quasi il 90% delle operazioni monetarie avveniva in euro. Il 9 febbraio 2002 la sterlina irlandese perse il suo valore legale.
L’Irlanda è sempre stata caratterizzata da un forte euroentusiasmo, avendo goduto, fin dal proprio ingresso nell’UEM, di grandi vantaggi economici, in parte dovuti al trasferimento di denaro dai Fondi strutturali europei, in parte ricevuti dai sussidi della PAC, i quali diedero una spinta significativa allo sviluppo della sua economia. Una delle maggiori preoccupazioni dell’elettorato irlandese all’inizio del nuovo millennio derivava dalla questione inerente all’allargamento. L’Irlanda, infatti, con l’ingresso di nuovi paesi nella UE sarebbe divenuta un contributore netto del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea); inoltre la forte crescita economica degli ultimi anni le aveva precluso la possibilità di rientrare nell’elenco dei paesi che avrebbero goduto degli aiuti previsti dall’“Obiettivo 1” dei Fondi strutturali 2007-2013. Queste prospettive incrinarono il tradizionale euroentusiasmo degli irlandesi, nonostante i vantaggi concreti ottenuti in passato. Nel marzo 2001 il governo decise di indire un referendum per ratificare il Trattato di Nizza. Quello del 2001 fu il quinto referendum sull’Europa votato dagli irlandesi a partire dal 1972, anno in cui il paese era entrato a far parte della Comunità economica europea. La campagna di ratifica del Trattato di Nizza fu sostenuta dai partiti di governo, il Fianna Fáil e i Democratici, e dai principali partiti dell’opposizione, il Fine Gael e il partito laburista. Anche le gerarchie della Chiesa cattolica si dichiararono favorevoli alla ratifica, così come i sindacati e le altre organizzazioni dei lavoratori. Contro la ratifica del Trattato invece si schierarono il Sinn Fein, i Verdi e i politici indipendenti, l’estrema sinistra, i pacifisti, i gruppi nazionalisti, gli agricoltori e alcuni conservatori appartenenti alla Chiesa cattolica.
La Commissione bicamerale sugli affari europei si dichiarò favorevole al Trattato, con il solo voto contrario di un membro, il quale affermò che il referendum avrebbe dovuto tenersi solo dopo un più ampio dibattito pubblico. Il presidente della Commissione, Bernard Durkan del Fine Gael, presentò il rapporto il 29 maggio contenente l’auspicio che i cittadini irlandesi avrebbero votato a favore della ratifica del Trattato.
La campagna referendaria cominciò nel maggio 2001 in un clima di generale disinteresse riguardo ai motivi e alle necessità di una ulteriore Revisione dei Trattati precedenti. I primi sondaggi suggerirono un esito favorevole del referendum, ma con l’avvicinarsi del voto i pronostici cominciarono a mutare. Alcuni settori dell’economia nazionale non furono molto coinvolti dalla campagna, preferendo tenersi in disparte e evitare pronunciamenti; al contrario il mondo agricolo, preoccupato di perdere fondi comunitari a causa dell’allargamento della Comunità a grandi paesi agricoli come la Polonia, si dichiarò pubblicamente contrario al Trattato di Nizza.
La campagna per il “sì” venne lanciata dal governo il 9 maggio 2001. Il primo ministro, Bertie Ahern, invitò il popolo irlandese a contraccambiare la generosità mostrata dall’Unione europea, assicurando che il Trattato non avrebbe creato una disparità tra i paesi europei della Comunità, che al suo interno non vi erano le premesse per la realizzazione né di un esercito europeo né di un super Stato e infine che l’Irlanda avrebbe mantenuto la propria autonomia in settori importanti e vitali come la politica fiscale. Votando contro il Trattato di Nizza si sarebbe al contrario generata «un’umiliazione nazionale», dando prova di «meschinità» da parte del paese. Il governo si appellò, dunque, alla popolazione per appoggiare il Trattato e il processo di allargamento comunitario.
Il ministro degli esteri, Brian Cowen, durante la campagna referendaria cercò di rafforzare l’idea di un’Europa unita, sottolineando l’importanza di una rinuncia da parte degli Stati della Comunità di una fetta della propria sovranità nazionale al fine di ottenere maggiori benefici collettivi.
Con l’obiettivo di informare i cittadini irlandesi sul contenuto del Trattato, il governo decise di distribuire in tutte le case un opuscolo informativo. Dal momento che i sondaggi cominciarono a mostrare un aumento dei voti contrari alla ratifica, il governo, invece di continuare con argomenti tesi a promuovere gli aspetti positivi e vantaggiosi del Trattato, decise di ripiegare su posizioni difensive, adottando una strategia diretta ad accusare di scarsa responsabilità le forze politiche sostenitrici del “no”.
Noel Dorr, il capo della delegazione ai negoziati di Nizza, contestò le principali argomentazioni dei sostenitori del “no” in un articolo sull’“Irish Time”. In proposito egli argomentò che alcuni dei compromessi istituzionali di Nizza non erano sfavorevoli all’Irlanda, ma anzi si rivelavano vantaggiosi per i piccoli Stati. Dorr cercò inoltre anche di chiarire alcuni punti “discutibili” imputati da coloro che si opponevano alla ratifica del Trattato; tra i quali vi era la questione della militarizzazione dell’Unione con la creazione di una Forza di reazione rapida comunitaria (FRR). Al contrario la campagna anti UE promossa dal comitato del “no”, fece leva, emotivamente, sui presunti aspetti negativi derivanti da un maggiore coinvolgimento europeo dell’Irlanda, sottolineando come «l’invasione di Bruxelles» avrebbe fatalmente ridotto la sovranità nazionale, provocando la perdita della neutralità militare, la diminuzione della sua influenza nel processo decisionale comunitario e relegando il paese agli ultimi posti della Comunità. Il governo fu accusato di aver portato il paese al referendum senza aver promosso prima un dibattito pubblico aperto (il referendum venne convocato solo 21 giorni prima della data stabilita per il voto) sulle innovazioni che il Trattato avrebbe apportato alla legislazione e agli equilibri interni della UE. Il governo fu inoltre accusato di aver indebolito il ruolo dell’Irlanda all’interno delle istituzioni europee accettando la ridistribuzione dei voti nel Consiglio, dei seggi nel Parlamento europeo (PE) in seguito l’allargamento a quindici, e di aver inoltre rinunciato alla presenza assicurata nella Commissione europea di almeno un esponente per paese membro.
La campagna del “no” cercò di alimentare lo scontento popolare dichiarando che il Trattato avrebbe indebolito la sovranità del paese, minacciando la stessa Costituzione nazionale. Il referendum fu anche la prima occasione per testare l’opinione pubblica irlandese sull’UE dopo lo scontro avvenuto nel gennaio 2001 tra il governo dell’isola e la Commissione europea sul budget irlandese e sul rispetto dei parametri di Maastricht in vista dell’ingresso del paese nell’UEM. L’Irlanda, infatti, fu il primo paese della zona euro a essere ripreso da Bruxelles per le politiche economiche. La Commissione dichiarò di aver ripreso l’Irlanda sulle sue scelte economiche poiché non in linea con le raccomandazioni comunitarie. Questo clima di tensione, alimentato da incomprensioni tra il governo irlandese e le istituzioni europee, condusse per la seconda volta nella storia dell’Unione europea – dopo la prima bocciatura danese del Trattato di Maastricht – la popolazione di un piccolo paese della Comunità a esprimere un voto negativo nei confronti di un trattato comunitario, mettendo a serio rischio le importanti riforme istituzionali contenute nel Trattato di Nizza.
L’affluenza alle urne fu del 35% e solo il 46,1% degli irlandesi votò a favore della ratifica del Trattato. L’esito negativo del referendum avrebbe potuto bloccare il processo di allargamento e di riforma della UE, ma i leader europei che si riunirono il 15-16 giugno a Goteborg, in Svezia, decisero che il fallimento del referendum irlandese non avrebbe bloccato la riforma delle istituzioni europee e l’eventuale allargamento della UE.
L’8 giugno 2001, il primo ministro Ahern, insieme al primo ministro svedese, Goran Persson, presidente di turno dell’Unione, e Romano Prodi, presidente della Commissione, si dichiarano pronti a trovare una soluzione alla crisi dopo un periodo di riflessione e di analisi sul referendum. La reazione degli altri Stati membri e dei paesi candidati fu di delusione ma allo stesso tempo venne ribadito che il processo di allargamento sarebbe continuato. Il governo irlandese, il 12 giugno, decise di formare un Forum nazionale sull’Europa allo scopo di informare la popolazione sui vantaggi del Trattato e scongiurare un secondo fallimento. Sul voto negativo degli irlandesi aveva influito, oltre alla propaganda nazionalista, anche la paura di una perdita della sovranità nazionale e di una militarizzazione del paese. Il Forum europeo era stato creato sulla realtà precedente dei forum, già presente nel paese. Questa esperienza prendeva spunto dal successo che avevano riscontrato il Forum per la pace e la riconciliazione e il Forum economico e sociale nazionale, i quali erano serviti da luogo di incontro e di discussione su questioni di rilevante interesse nazionale. Il Forum europeo puntava a valorizzare il futuro dell’Europa e il ruolo europeo dell’Irlanda. Nei mesi precedenti al secondo referendum, organizzato in tutto il paese, il Forum tenne incontri pubblici in modo da favorire il dibattito e la consapevolezza sull’argomento. Si adottò, poi, una seconda misura atta a migliorare il monitoraggio del Parlamento europeo. A tale scopo, il governo introdusse nuove regole e linee guida che prevedevano la presenza dei ministri davanti ai più importanti comitati parlamentari prima e dopo i Consigli dei ministri europei, per illustrare la posizione del governo e ogni decisione presa in seno alle istituzioni comunitarie.
Una terza misura venne pensata per mitigare le preoccupazioni dell’opinione pubblica sul futuro della neutralità irlandese qualora il Trattato di Nizza fosse stato ratificato. Al Consiglio europeo di Siviglia del 21 e 22 giugno 2002, gli altri governi europei accettarono una dichiarazione irlandese su un eventuale coinvolgimento dell’Irlanda nelle questioni militari e in quelle inerenti alla difesa. Il documento si incentrava sulla cosiddetta “triplice serratura” (mandato ONU, approvazione del governo, approvazione del parlamento) con la quale si limitava la partecipazione irlandese nelle attività militari in ambito comunitario. Questa posizione non era una novità e la dichiarazione non aveva alcun valore legale. Il documento avrebbe avuto nell’intenzione del governo irlandese il solo scopo di rassicurare l’opinione pubblica dell’isola in vista del secondo referendum. Il Consiglio europeo riconobbe il diritto dell’Irlanda – come degli altri paesi membri – di decidere in accordo con le disposizioni costituzionali nazionali e le proprie leggi, in che modo e misura partecipare alle attività della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD).
Grazie a questi provvedimenti anche i maggiori sindacati, oltre naturalmente al governo e ai principali partiti dell’opposizione, si schierarono a favore della ratifica in seconda istanza del Trattato di Nizza. Nella campagna che precedette il voto si ribadì l’importanza dell’allargamento, sentito come un obbligo morale per solidarizzare con i paesi dell’Europa centrale e orientale appena usciti dalla dominazione sovietica. La spesa del comitato del “sì” arrivò a superare il milione e mezzo di euro, mentre quella del comitato del “no” raggiunse circa i centosettantamila euro.
Il referendum dell’ottobre 2002 capovolse il risultato del giugno 2001. Il 62,89% dei cittadini contro il 37,11% votò questa volta a favore della ratifica del Trattato. Anche l’affluenza subì un deciso cambiamento, passando dal 34,79% del 2001 al 49,47% dell’anno successivo. L’Irlanda divenne quindi il quindicesimo e ultimo paese UE a ratificare il Trattato di Nizza. L’allargamento poteva, dunque, procedere senza altri ostacoli.
Giovanni Pignataro