Istituzioni comunitarie
Una delle caratteristiche principali della Comunità europea fin dalla sua nascita è l’esistenza di un forte sistema istituzionale. In altre parole, la preparazione e l’approvazione delle sue decisioni, nonché l’attività di gestione in alcuni settori, sono state affidate a organi specifici e non unicamente agli Stati membri riuniti, secondo la pratica tradizionale delle organizzazioni interstatali. Inoltre, tre delle quattro istituzioni principali – il Parlamento europeo, la Commissione europea e la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) – non sono composte da rappresentanti degli Stati membri. Dunque la Comunità (e poi l’Unione europea) ha un suo sistema decisionale, nel quale, certo, gli Stati, attraverso il Consiglio dei ministri, hanno un ruolo importante, ma anche altre istituzioni partecipano in modo determinante al Processo decisionale. La seconda caratteristica essenziale è l’esistenza dello “Stato di diritto”. Le istituzioni, infatti, non decidono senza limiti o solo seguendo la loro volontà politica, nemmeno se questo fa l’unanimità fra gli Stati membri: le decisioni si possono prendere solo nel rispetto del Trattati e nel quadro delle Competenze dell’Unione e delle responsabilità di ciascuna istituzione che esso fissa. Un comportamento diverso provocherebbe l’annullamento della decisione da parte della Corte di giustizia. Questo metodo è mutuato dai sistemi democratici degli Stati che compongono l’Unione europea. Il terzo elemento è l’esistenza di altri organi intorno alle istituzioni, volti, tra l’altro, ad assicurare la regolarità dell’esecuzione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), la partecipazione, sia pure consultiva, delle autorità locali e regionali e delle forze economiche e sociali della società civile. Com’è noto, un ruolo particolare è svolto dalla Banca centrale europea, nell’ambito della gestione della politica monetaria (v. anche Unione economica e monetaria).
La natura del sistema
Questo sistema istituzionale è talvolta comparato a quello di un’entità statale di tipo federale, talaltra a un’entità di tipo internazionale. Chi vuol sostenere la prima tesi mette in particolare luce il ruolo delle istituzioni non intergovernative (Parlamento, Commissione, Corte di giustizia) nelle quali non sono rappresentati gli Stati membri in quanto tali, ma piuttosto i cittadini o gli interessi comuni a tutti gli Stati. Inoltre, proprio l’esistenza dello Stato di diritto rafforza questa tesi, poiché questo metodo toglie la “piena proprietà” dell’Unione stessa ai governi degli Stati membri (v. Federalismo).
D’altra parte, fanno valere gli “internazionalisti”, in molte questioni (a dir vero sempre meno), specie in materie quali la Politica estera e di sicurezza comune, il ruolo del Consiglio e, dunque, degli Stati è preponderante, specie quando è prevista la decisione con Voto all’unanimità. In questo modo si tornerebbe alla figura classica dell’accordo fra Stati (v. anche Cooperazione intergovernativa) e dunque si ricadrebbe nell’internazionale (v. Funzionalismo).
Queste tesi non sono però capaci di rinchiudere tutte le diverse componenti e i diversi aspetti del sistema istituzionale nel loro assunto. È per questo che si parla di un sistema sui generis fin dall’inizio; oggi ci sembra sempre più legittimo accogliere quest’orientamento, poiché il sistema acquista continuamente aspetti propri e, spesso, i compromessi, anche costituzionali, non si preoccupano particolarmente d’inquadrare le soluzioni nell’uno o nell’altro schema. Certo, la tendenza è quella di rafforzare, generalmente parlando, le connotazioni federali del sistema, ma non sembra che questo permetta di concludere che il problema teorico (e pratico) sia risolto. Peraltro, l’ambiguità della costruzione del sistema e il suo permanere in situazione di “lavori in corso” legittimano l’ambiguità della teoria di un sistema sui generis.
Tuttavia, al di là delle pur importanti costruzioni teoriche, occorre constatare che il sistema istituzionale funziona regolarmente. Si badi, l’espressione “regolarmente” non deve essere neanche essa presa alla lettera. Da un lato, infatti, la continuità delle istituzioni è strettamente rispettata e le principali funzioni, legislazione, relazioni esterne, controllo del rispetto delle regole da parte degli Stati e, per quel che riguarda il settore della concorrenza (v. Politica europea di concorrenza), in particolare, dei privati, l’erogazione dei fondi e in generale l’esecuzione delle norme si svolgono con sistematica regolarità e non lasciano inadempiute le disposizioni del Trattato; qualora non fosse il caso, un ricorso giurisdizionale “in carenza” previsto dal Trattato servirebbe per richiamare all’ordine l’istituzione responsabile. D’altro canto, il sistema ha instabilità strutturali non poco importanti. La prima è l’instabilità costituzionale. Dal 1986 è in corso un ciclo di riforme che all’incirca ogni cinque anni, ormai, modificano sostanzialmente proprio l’assetto istituzionale e la relazione fra le diverse istituzioni (v. Atto unico europeo). La seconda è la reticenza degli Stati membri nella realizzazione compiuta di certe politiche indicate dal Trattato, quali la politica estera, soprattutto, e poi certi aspetti della politica di giustizia, libertà e sicurezza (v. anche Giustizia e affari interni). Rispetto a queste politiche, restano permanenti le incertezze sul comportamento dell’Unione. Si tratta di quei settori nei quali gli Stati si rendono conto dell’impossibilità o della debolezza di un’azione di ciascuno di essi singolarmente, ma non sono pronti a cedere al sistema europeo (del quale, si ricorda, gli Stati sono parte non certo irrilevante) le leve del comando. Il risultato è una bassa efficacia in questi settori, anche perché, com’è ovvio, i governi decidono all’unanimità ed il ruolo delle istituzioni che non li rappresentano direttamente è molto indebolito. Il Trattato di Lisbona sembra fare notevoli passi avanti nel rafforzamento di queste politiche.
Probabilmente questa relazione fra aspetti di grande stabilità e gli aspetti di non minore instabilità è una caratteristica di lungo periodo dell’Unione che rafforza sensibilmente la tesi ambigua del “sui generis”.
Schema istituzionale
Prima di esaminare il sistema delle istituzioni e degli organi propriamente detti, dobbiamo prendere in considerazione il Consiglio europeo. Esso si compone dei capi di Stato e di governo di tutti gli Stati membri e del Presidente della Commissione europea (è anche invalsa la pratica che il presidente del Parlamento europeo si rivolga al Consiglio europeo prima dell’inizio d’ogni riunione). Salvo casi eccezionali, il Consiglio europeo non prende vere e proprie decisioni e, certamente, non prende mai decisioni a carattere legislativo. Data la sua composizione, si tratta di un organo che raggruppa ai massimi livelli gli Stati e le istituzioni comunitarie e, dunque, ha una particolare vocazione a proporre i grandi orientamenti della costruzione europea ed a suggerire, nei momenti più difficili, delle soluzioni alle “crisi” che il sistema deve fronteggiare. Alla fine d’ogni riunione formale, il presidente presenta una serie di conclusioni, preventivamente accettate da tutti; esse comprendono gli orientamenti stabiliti sulle questioni all’ordine del giorno e, generalmente, una rassegna delle principali posizioni nelle questioni di natura internazionale. I diversi commentatori considerano alternativamente il Consiglio europeo come un limite per il funzionamento del sistema istituzionale e come un’ingerenza degli Stati oppure come uno strumento indispensabile per orientare lo sviluppo generale dell’Unione. Questa seconda ipotesi è confortata dal fatto che le conclusioni del Consiglio europeo hanno dato il via ai principali cambiamenti delle prospettive istituzionali e politiche dell’Unione.
Per il resto, lo schema istituzionale si articola come segue: il triangolo istituzionale, Parlamento, Commissione e Consiglio, all’interno del quale sono prese tutte le decisioni, eccetto quelle giurisdizionali e quelle in materia monetaria riservate alla Banca centrale europea; gli organi consultivi dell’Unione, Comitato delle regioni e Comitato economico e sociale; il sistema dei controlli, tanto giurisdizionali attraverso la Corte di giustizia, quanto contabili, attraverso la Corte dei conti; infine, le strutture bancarie, Banca europea degli investimenti e Banca centrale europea, l’istituzione più recente, ma anche una delle più rilevanti.
Le istituzioni del triangolo
Le principali decisioni (v. Decisione) dell’Unione e, in particolare, tutte le decisioni che hanno carattere giuridico vincolante – bilancio dell’Unione, direttive (v. Direttiva), regolamenti, atti d’esecuzione – sono prese nel quadro del “triangolo istituzionale” composto dal Parlamento europeo, dalla Commissione e dal Consiglio. Ne restano fuori, ovviamente, le decisioni giurisdizionali. Nel quadro delle diverse procedure decisionali, tuttavia, queste istituzioni hanno ruoli diversi, sia per la natura dell’atto (per esempio, la Commissione ha un ruolo preponderante per quel che riguarda gli atti d’esecuzione), sia per la materia trattata (per esempio, almeno prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, il Consiglio ha un ruolo predominante quando si tratta di Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, il Parlamento europeo ha un ruolo maggiore in materia d’approvazione del bilancio, mentre, per quel che riguarda la grande maggioranza delle decisioni legislative, il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno un peso identico).
In questo contesto, tuttavia, ciascuna istituzione ha anche poteri propri che non condivide necessariamente con altri. Per esempio, la Commissione ha un ruolo di “guardiana dei Trattati”, nel quale le altre due istituzioni non entrano se non in vista di un controllo dell’azione della Commissione stessa. Il Consiglio procede a decisioni, per esempio di politica estera, per le quali non ha formalmente bisogno del concorso degli altri. Il Parlamento europeo, così come il Consiglio e la stessa Commissione, svolge, in maniera autonoma un’attività d’indirizzo politico. Giova, inoltre, ricordare due particolari competenze, una a specifica prevalenza parlamentare, la nomina della Commissione ed una a specifica prevalenza della Commissione, il diritto d’iniziativa legislativa.
Parlamentarizzazione dell’Unione?
Il Parlamento europeo ha il compito di dare la propria approvazione al presidente designato dal Consiglio europeo (v. Presidenza dell’Unione europea) per formare la nuova Commissione, dopo tutte le Elezioni dirette del Parlamento europeo, e alla stessa Commissione nel suo complesso, dopo che i suoi membri sono stati designati di comune accordo fra il Consiglio e il presidente designato. Si tratta di una procedura d’approvazione e non di fiducia, come accade invece, in genere, nei sistemi nazionali. La differenza non è solo formale, tutt’altro. Nel sistema europeo, il voto parlamentare non prefigura la conferma di una maggioranza politica (eventualmente contrapposta a una minoranza), ma soltanto una sorta d’autorizzazione democratica alla Commissione (in ragione della sua composizione) perché eserciti le sue funzioni di tipo governativo; può darsi benissimo, com’è accaduto nel 2004-2005 che un gruppo politico voti a larga maggioranza l’approvazione della Commissione, per poi avere un atteggiamento del tutto diverso al momento dell’approvazione dei suoi orientamenti politici. D’altronde, la stessa mozione di censura che il Parlamento europeo può infliggere alla Commissione, a una maggioranza particolarmente qualificata, non è, in linea di principio, dovuta ad un cambio di maggioranza politica (che non c’è), ma a un fatto specifico o a un comportamento inaccettabile della Commissione: questo è stato il caso della mozione di censura presentata (ma non votata, perché la Commissione si era preventivamente dimessa) contro la Commissione presieduta da Jacques Santer nel 1999, allorché la medesima fu accusata di aver perso il controllo della propria amministrazione. Val la pena di ricordare che un altro aspetto dell’assenza di una maggioranza definita lo si trova nella Procedura di codecisione. Infatti, secondo il Trattato, vi sono differenze numeriche fra la maggioranza necessaria per adottare emendamenti ad una proposta legislativa in prima lettura e in seconda lettura e, ancora, la maggioranza cambia se sarà necessario approvare un accordo raggiunto dal Comitato di conciliazione. In questo modo, le stesse maggioranze in sede legislativa non hanno, nemmeno per la stessa proposta, una vera stabilità; quest’è vero almeno formalmente, perché poi, all’interno del Parlamento europeo, esistono comunque atteggiamenti parlamentari, specie in sede di commissione, che favoriscono un comportamento più o meno coerente. Per inciso, è proprio questa capacità di coerenza che rafforza sensibilmente il Parlamento europeo nel corso della procedura di codecisione.
Ma resta, naturalmente, del tutto intatta la riflessione sull’opportunità dell’eventuale esistenza di una maggioranza di tipo governativo. A favore di una tale soluzione militano i tradizionali processi democratici (gli elettori votano per un certo schieramento e “contro” un altro), compresi il concetto di responsabilità politica e le relative esigenze di trasparenza. Contro, invece, si possono citare aspetti più concreti e tradizionali della costruzione europea, quali, appunto, il tradizionale “duopolio” fra Partito popolare europeo (PPE) e Partito socialista europeo (PSE) nella costruzione europea (talora con una buona partecipazione liberale), che si giustifica in primo luogo con una lunga prassi e la relativa condivisione della prospettiva della costruzione europea. In pratica, almeno nell’ultima legislatura (ma si tratta solo della conferma di un dato preesistente) tutte le leggi dell’Unione sono state approvate congiuntamente da PPE e PSE, anche se, al momento del voto dei singoli emendamenti, i due gruppi si sono dati battaglia, per poi, comunque, votare insieme il testo finale.
Ma, in secondo luogo, giova ricordare che il Consiglio è sistematicamente composto, talora con eccezioni, da ministri (per il Consiglio europeo, capi di Stato o di governo) socialisti e popolari; ci sarebbe il rischio di un blocco delle attività in ragione d’una contraddizione di lunga durata fra Consiglio e Parlamento, se vi fosse una maggioranza politica stabilita dell’una o dell’altra parte politica. Non solo: la composizione del Consiglio può cambiare ogni volta che cambia un governo nazionale, il che accade non meno di 27 volte (tanti sono i paesi membri che, almeno una volta, voteranno durante la legislatura europea per i rispettivi parlamenti nazionali) in una legislatura. Inoltre, una maggioranza politica non potrebbe essere stabile per definizione o per regola per un periodo di tempo definito (i cinque anni previsti dal Trattato), salvo vincolare le forze politiche in modo del tutto innaturale; ma in questo modo si metterebbe in questione uno dei vantaggi maggiori della Commissione europea rispetto agli esecutivi nazionali, cioè quello della stabilità. La questione della maggioranza parlamentare inesistente impedisce di considerare il sistema istituzionale come dominato dalla figura del Parlamento europeo. Quest’ultimo, infatti, svolge, grazie ai Trattati adottati dopo il 1986 (Atto unico, Trattato di Maastricht, Trattato di Amsterdam e Trattato di Nizza) e anche ai Trattati di bilancio degli anni Settanta e all’Atto sulle elezioni, appunto, del Parlamento europeo del 1976, che ne hanno incrementato ruolo e competenze, un’azione politica estremamente importante e ha, in termini d’indirizzo, di legislazione e di controllo un ruolo determinante. Il Parlamento non può, però, strutturalmente, formulare e imporre una propria linea politica di governo, mancando, appunto, di un esecutivo tenuto alla sintonia politica col Parlamento stesso. In altre parole, può condizionare, ma non può determinare la linea politica del governo, quand’anche la Commissione fosse da considerare un vero e proprio governo.
Il monopolio dell’iniziativa
Un’altra questione importante che definisce le relazioni interne al sistema istituzionale riguarda il monopolio dell’iniziativa legislativa affidato dal Trattato, per la gran parte delle materie, alla Commissione europea. In sostanza, tranne qualche eccezione, non è possibile avviare il processo d’approvazione di una legge se non vi è sul tavolo la proposta della Commissione. Questa prerogativa è assicurata anche durante il dibattito che porterà all’approvazione da disposizioni relative al potere della Commissione di ritirare una proposta o di renderne più complicata la modifica, perché se essa non è d’accordo su un emendamento, il Consiglio deve votare sempre all’unanimità. Le ragioni di questo monopolio sono molteplici. La prima riguarda la necessità che, già allo stadio della proposta, una legge dell’Unione sia improntata all’interesse comune, piuttosto che all’interesse di un singolo Stato. La complessità di una buona parte delle proposte esige una grande perizia tecnica, ciò che esclude un ruolo d’iniziativa parlamentare (del resto la tendenza nei diversi Stati membri è quella di ridurre il ruolo d’iniziativa dei parlamentari, se è vero che in molti Stati membri fra il 95 e il 100% delle leggi adottate sono d’iniziativa governativa). Inoltre, proprio per l’ampiezza del sistema e la varietà degli interessi rappresentati fuori e dentro le istituzioni, serve un’istituzione che ne faccia una sintesi e provveda ad assicurarsi che tutti gli interessi siano stati, comunque, presi in considerazione.
Tuttavia, questo “monopolio” non rappresenta un potere “assoluto” della Commissione. Il Parlamento europeo e il Consiglio, per parte loro, hanno la possibilità di domandare alla Commissione un’iniziativa; quest’ultima non è obbligata a dar seguito, ma, certamente, a esaminare attentamente le richieste. Lo stesso vale per l’immenso sistema che gira intorno alle istituzioni e i cui membri, di peso diverso, chiedono o propongono spesso alla Commissione di agire. Di più, i Trattati stessi e i Trattati internazionali dell’Unione esigono la presentazione di determinate leggi. Complessivamente, l’iniziativa “libera” della Commissione finisce per rappresentare fra il 5 e il 10% dell’insieme delle proposte. Questo fatto rafforza l’idea che la Commissione, pur avendo un proprio programma politico e legislativo, sia per molti versi un mediatore politico, che avanza le sue proposte tenendo conto di tutti gli input e cercando di farne una sintesi. Resta il fatto che, secondo una sommaria analisi del passato, i settori nei quali la Commissione ha ed esercita il potere d’iniziativa sono quelli nei quali l’integrazione è più rapida, mentre negli altri (pochi), i ritardi e le difficoltà sono ben maggiori. Si badi bene, il monopolio dell’iniziativa legislativa dà un potere tipicamente governativo alla Commissione, così come vanno in questo senso i poteri di controllo del rispetto del Trattato e quelli d’esecuzione. Tuttavia, si deve evitare di considerare la Commissione, allo stato attuale delle cose, come “il” governo dell’Unione, poiché diversi fondamentali aspetti di governo le sfuggono: per esempio, la politica diplomatica e militare. Gli stessi poteri d’esecuzione le sono formalmente, salvo per quel che concerne l’esecuzione del bilancio, delegati dal Consiglio (una vera fictio iuris, tuttavia, poiché i poteri non sono, concretamente, delegati dal Consiglio, ma dalla legge, anche se la formula del Trattato per una bizzarria ideologica continua a considerare che la delega viene dal Consiglio). Infine, come si diceva, la Commissione dispone di un’approvazione parlamentare, ma non di una fiducia e dunque di un permanente sostegno della maggioranza del Parlamento europeo. Si badi, non si deve commettere l’errore di considerare la Commissione come un governo a prerogative ridotte; si farebbe l’errore sovente riscontrabile di dare una valutazione del sistema istituzionale dell’Unione alla stregua di quelli degli Stati membri. La Commissione è, invece, un’istituzione assai originale, capace di combinare legittimità democratica (il voto parlamentare), efficienza (la relativa stabilità quinquennale della quale dispone) e permanenza del rapporto associativo fra gli Stati membri.
Gli organi consultivi
Le decisioni dell’Unione debbono in genere essere prese dopo consultazioni esaurienti di tutti i soggetti interessati, secondo le disposizioni del protocollo sul Principio di sussidiarietà e sul Principio di proporzionalità allegato al Trattato di Amsterdam e che è stato confermato dal Trattato di Lisbona. Questo significa che le istituzioni, in particolare la Commissione, debbono svolgere un’azione attiva di consultazioni prima di approvare o presentare una proposta legislativa. Fin dall’inizio della costruzione comunitaria questo principio era presente, anche se in forme proprie dell’epoca. Questo diede luogo all’inclusione nei Trattati comunitari di un Comitato economico e sociale (poi definito europeo) che comprendeva rappresentanti al livello nazionale, per cominciare, delle categorie economiche e sociali; all’epoca, l’accento fu messo sostanzialmente su sindacati e organizzazioni di datori di lavoro, per i quali il Comitato era la sola occasione di scambio transnazionale. Oggi, il Comitato continua a svolgere il suo lavoro consultivo, anche se la funzione di luogo di scambio d’opinioni fra partner sociali s’è fortemente ridotta da quando, formalmente col Trattato di Maastricht, il Dialogo sociale mette permanentemente a confronto sindacati e padronato con la Commissione europea.
Proprio col Trattato di Maastricht fu creato anche il Comitato delle regioni, ove sono rappresentate le autorità locali e regionali, a riprova dell’importanza crescente (messa in evidenza anche dal progetto di costituzione e poi dal Trattato di Lisbona (2007) delle relazioni fra istituzioni europee e istituzioni locali e regionali. Questa circostanza non deve portarci a credere che il Comitato delle regioni venga a costituire una sorta di Senato o Parlamento delle regioni, sulla falsariga del Bundesrat tedesco. Per natura, il Comitato non può comprendere l’insieme dei soggetti rappresentati (oltre 250 regioni e 100.000 altre autorità locali), né può rappresentare il Consiglio delle “parti” dell’Unione, poiché esso esiste ed è il Consiglio composto dai rappresentanti dei governi. Peraltro, il Comitato non può avere lo stesso ruolo di sintesi politica che ha un Senato delle regioni – con relativamente pochi membri e organicamente rappresentativi. Piuttosto, il suo ruolo concerne la capacità di far arrivare fino all’interno del processo legislativo le istanze locali e regionali. Formalmente, in ogni caso, le funzioni del Comitato delle regioni sono analoghe a quelle dell’altro Comitato, anche se il suo peso politico sembra più importante. Recentemente, la Commissione e i Comitati hanno convenuto che è necessario che questi ultimi, finora intervenuti essenzialmente dopo la presentazione della proposta della Commissione, svolgano una funzione consultiva in fase di preparazione delle proposte e rafforzino la capacità delle istituzioni di consultare strati sempre più importanti della società civile o dei livelli istituzionali infrastatali.
I controlli
Ci preme qui sottolineare poche questioni del difficile capitolo del sistema dei controlli giurisdizionale e contabile.
Il primo tipo di controlli è esercitato dalla Corte di giustizia e dalle altre istanze giudiziarie al livello dell’Unione, ma anche dalle giurisdizioni nazionali, secondo le loro competenze ordinarie. Entrambi i livelli hanno la capacità di emettere sentenze vincolanti per le istituzioni, gli Stati e per i privati, ciò che conferma l’affermazione fatta in precedenza circa lo Stato di diritto.
Il controllo contabile è esercitato dalla Corte dei conti e sul riguarda l’esecuzione del bilancio dell’Unione. Il suo compito più evidente consiste nel fare rapporto sulle spese sostenute dalle istituzioni (e sulle entrate) affinché il Parlamento europeo possa dare alle altre istituzioni lo “scarico” per l’esercizio di bilancio in discussione. In realtà, anche grazie alla cooperazione con le analoghe istituzioni nazionali, verifica anche o contribuisce a verificare la spesa effettuata dagli Stati membri a partire dai fondi comunitari.
Regole istituzionali e governance
Il sistema europeo non può, tuttavia, funzionare unicamente a Bruxelles, nel contesto delle istituzioni comuni. Quest’è vero per due ragioni. La prima riguarda il fatto che l’Unione è fortemente inclusa nel sistema internazionale; con tutti i limiti della sua politica estera, è diventata comunque uno dei grandi protagonisti della scena internazionale e ciascuna delle sue decisioni ha conseguenze di portata mondiale (Politica agricola comune, Politiche dell’immigrazione e dell’asilo, regole di concorrenza, regole di qualità per i prodotti, Lotta contro il terrorismo, ecc.). D’altro canto, essa opera come soggetto unificante delle enormi diversità del continente europeo e, diversamente da uno Stato, non dispone dei “tentacoli” burocratici che arrivano fin nel fondo di ciascuna provincia; al contrario, salvo casi marginali, l’Unione non “fa”, ma decide cosa altri debbono fare. Gli altri sono, appunto, le amministrazioni nazionali, locali e regionali e, in certi casi, la società civile. Vi è dunque la necessità verso “l’alto” (la Comunità internazionale) e verso il “basso” (le autorità nazionali, locali e regionali e la società civile) di svolgere una politica di cooperazione, consultazione e di presa in considerazione delle diverse politiche e delle diverse decisioni. In caso contrario si creano tensioni, inefficienze e danni. Ecco perché la Commissione europea, presieduta da Romano Prodi, approntò nel 2001 una serie di documenti sotto la rubrica “governance”, che trattavano di questi problemi.
La governance è essenzialmente un metodo di gestione dell’Unione che esige il rafforzamento dell’attenzione reciproca fra differenti livelli istituzionali, partendo, ci sembra, dal presupposto che il destinatario delle cure dell’Unione o delle autorità locali o, ancora, dell’azione internazionale, è sempre il cittadino titolare di un interesse al risultato positivo piuttosto che all’equilibrio istituzionale. La consultazione, la sussidiarietà e la proporzionalità delle decisioni prese rispetto all’obiettivo sono fra gli strumenti utilizzati nel quadro della governance.
Da questa riflessione discende anche un aspetto, sottolineato dal progetto di Costituzione europea e poi dal Trattato di Lisbona: le istituzioni nazionali, regionali e locali hanno un ruolo da svolgere nel sistema decisionale europeo e non soltanto come esecutori. È così che il nuovo Trattato affida un ruolo particolare al Comitato delle regioni (e alle regioni stesse) e ai Parlamenti nazionali.
La riforma
Come si è accennato, il sistema istituzionale è stato modificato a più riprese, soprattutto dopo il progetto di Trattato sull’Unione europea adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 (“Progetto Spinelli”) (v. Spinelli, Altiero), che ha dato l’avvio alle riforme dei citati Trattati successivi. Dal punto di vista puramente istituzionale, possiamo osservare che queste riforme hanno costantemente rafforzato i poteri del Parlamento europeo, incrementato la legittimità democratica della Commissione, ridotto i casi di voto all’unanimità in seno al Consiglio dell’Unione, migliorato il sistema delle competenze, incluso attraverso l’introduzione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, nettamente migliorato le procedure decisionali, specie quelle legislative (adozione di regolamenti e direttive) attraverso l’introduzione della procedura di codecisione, rafforzato il ruolo delle istituzioni nazionali, specialmente dei Parlamenti e, infine, attraverso il riconoscimento di una Cittadinanza europea, rafforzato il ruolo dei cittadini stessi. La Costituzione avrebbe dovuto dare a queste riforme un quadro di stabilità e di coerenza che, probabilmente oggi manca, anche se il Trattato di Lisbona, in corso di ratifica, ha ripreso l’essenziale delle disposizioni del progetto costituzionale. Una tale stabilità non deve però far perdere all’Unione una caratteristica essenziale, cioè quella di avere una capacità d’evoluzione e di adattamento alle mutevoli circostanze che manca agli Stati.
Andrea Pierucci