L’Esprit
L’Esprit, fin dalla sua fondazione nel 1932, rappresenta una tendenza politica e intellettuale particolare che la Resistenza e, in seguito, la ricostruzione istituzionale della Francia nel 1946-1947 non hanno fatto che accentuare. La rivista si distingue per la sua forte adesione al personalismo cristiano, una tendenza che ne spiega quindi l’anticomunismo e le prese di posizione a favore di un’Europa attenta sia alle sofferenze subite dai suoi popoli che a quelle sociali del presente. Via via che si definisce la costruzione europea in un senso che non coincide necessariamente con quello immaginato da l’Esprit, la rivista esprime delle posizioni che la portano anche a criticare vivacemente l’integrazione europea nei termini in cui va costruendosi (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
Nei quattro primi decenni della costruzione europea lo spazio riservato a quest’argomento nella rivista è limitato: il numero di articoli pubblicati dal 1945 al 2004 ammonta a circa 10.000; su quest’insieme, solo 150 fra riferimenti, articoli, editoriali, interviste riguardano l’Europa e il suo avvenire. Per tre quarti vengono pubblicati a partire dal 1984, data che segna una svolta nell’interesse della rivista per l’integrazione europea e le sue poste in gioco politiche e sociali. In precedenza gli articoli non erano dedicati all’integrazione europea in quanto tale – del resto quest’espressione è usata solo molto raramente nei titoli e all’interno degli articoli – ma all’Europa in generale. Quest’attitudine è già rivelatrice della visione dell’Europa espressa dalla rivista: è considerata innanzitutto “una comunità di destino e di interessi” (Alain Berger, Les vrais dangers du Marché Commun, Esprit, n. 3, marzo 1957, p. 563) che non dovrebbe essere circoscritta ad una integrazione economica. L’interesse a prima vista limitato che la rivista mostra per l’integrazione europea e le critiche che le rivolge non significano comunque un disinteresse per l’Europa, le sue nazioni, le sue minoranze, le sue culture, ma al contrario grandi ambizioni e grandi aspettative.
L’Europa e le prime manifestazioni della costruzione europea, come il Piano Schuman e il progetto di Comunità europea di difesa (CED), in un primo tempo vengono inquadrate nel modo classico attraverso il prisma della Guerra fredda. Nel novembre 1947 l’Esprit pubblica il Manifeste pour la paix et pour l’Europe socialiste, sottoscritto da numerosi intellettuali e giornalisti francesi. La posizione della rivista nei confronti della CED in principio è all’impronta dell’ottimismo: nel 1950 uno dei redattori, Alain Berger, incaricato delle questioni europee, ritiene che la realizzazione di una federazione europea di cui la CED rappresenti la prima tappa darebbe all’Europa la possibilità di condurre una politica indipendente (v. anche Federalismo). Una volta deluso quest’ideale di un’Europa non allineata, il comitato di redazione nel suo complesso si pronuncia contro la CED, ritenendo che determini una politica di dissuasione senza fine, non rinunciando tuttavia all’edificazione di una comunità europea. Ancora nel 1968 un articolo di Heinz Kuby intitolato Intégration européenne et réunification allemande perora la costituzione di un sistema autonomo di sicurezza europea per evitare che l’Europa diventi teatro di conflitti esogeni (marzo 1968, 3, p. 466).
Se i futuri contorni di una comunità sono ancora vaghi negli anni Cinquanta, la sostanza delle critiche che riemergono con forza a partire dal 1984 è già presente nella rivista al momento della firma dei Trattati di Roma. In quest’occasione Berger pone il problema della gestione europea preconizzando che il trattato creerà un vuoto politico, perché priva gli Stati dei loro strumenti di intervento senza affidare a nessuno il compito di condurre un’autentica politica economica. Se in questo periodo il Mercato comune non funziona a discapito del dirigismo statalista messo in atto in Francia a partire dalla Liberazione, i dubbi sollevati da l’Esprit riemergono con forza al principio degli anni Ottanta al momento della deregolamentazione, quando si manifesta l’assenza di una responsabilità europea. Inoltre, in nome di una concezione dell’Europa intesa come “una comunità di destini e di interessi”, l’articolo di Berger reclama quel che oggi i socialisti francesi chiamano “l’Europa sociale”, vale a dire una società in cui i valori collettivi classificati sotto il termine “Europa” siano fondati su qualcosa di diverso dall’ultraliberalismo. Del resto, in linea con le preoccupazioni della rivista, che fin dalla Liberazione si è impegnata a preservare l’Europa dalle ondate nazionaliste che l’hanno messa a mal partito nella prima parte del Novecento, Berger critica un’integrazione europea imposta ai cittadini dai loro capi che rischia di provocare reazioni nazionaliste esacerbate. Quindi scredita il metodo di Jean Monnet, secondo cui l’unificazione politica sarebbe la logica conseguenza dell’unificazione economica, capace di sostenere gli sforzi per una trasformazione durevole delle società europee (v. anche Funzionalismo). Le critiche contro un’Europa costruita “dall’alto” inducono l’articolista ad affidare alla sinistra europea il compito di accompagnare il trattato di Roma con la realizzazione di istituzioni politiche democratiche e di una carta comune.
Questi temi si ritrovano nei giudizi negativi rivolti all’integrazione europea da fronti diversi a partire dagli anni Ottanta. Nella continuità con le sue convinzioni degli anni Cinquanta l’Esprit, dal 1984, formula queste critiche in maniera più precisa. Durante questo decennio quel che Paul Thibaud, all’epoca direttore della rivista, chiama “la condizione europea” è ancora determinata dalla Guerra fredda, che impedisce la realizzazione di ciò che lo stesso autore definisce una “comunità di destino evidente”. La divisione dell’Europa resta la ragion d’essere dell’impegno filoeuropeo di Esprit e l’assenza di volontarismo politico e di valori comuni al di fuori di quelli economici e finanziari è all’origine di gran parte delle critiche della rivista. Il suo silenzio al momento del rilancio promosso da Jacques Delors e dell’Atto unico europeo nel 1986 testimonia il rifiuto di un’Europa che attraverso l’Unione economica e monetaria (UEM) intenderebbe creare nient’altro che una zona di libero scambio.
Qual è allora la posizione di Esprit sull’integrazione europea a partire dal 1989-1990, cioè gli anni che vedono la disgregazione del blocco comunista e i dibattiti che sfoceranno nel Trattato di Maastricht? Il numero speciale del novembre 1991 intitolato Europa: una comunità politica? si apre con un editoriale dedicato all’ammissione di impotenza dei dirigenti e intellettuali francesi di fronte alle premesse del dramma dell’ex Iugoslavia. La tragedia dei Balcani dall’inizio degli anni Novanta rappresenta un punto di riferimento per capire l’atteggiamento di Esprit nei confronti dell’integrazione europea: essa alimenta le critiche della rivista nella misura in cui dimostra che un’Europa ridotta a semplice processo istituzionale è incapace di concretizzare le speranze di pace e di democratizzazione lanciate nel 1989. La caduta del comunismo ha rivelato, secondo Esprit, le insufficienze dell’integrazione europea più che aver permesso di concretizzare i suoi principi per il futuro e dei progetti chiari. Dalle pagine della rivista Paul Thibaud ribadisce senza sosta che l’Unione europea (UE) deve diventare “il faro del mondo democratico”, un’esortazione che si protende fino ai giorni nostri. Questi anni coincidono con il pessimismo sulle possibilità di nascita e di sopravvivenza dell’UEM – del resto, occorre sottolineare che nessun articolo degno di questo nome viene dedicato al Trattato di Maastricht prima del 1995.
Le critiche all’integrazione europea non significano che Esprit non sostenga nessun progetto europeo. Al di là degli aspetti economici e sociali fin qui illustrati, oltre al ruolo regionale e mondiale assegnato all’Unione europea, una questione è sottesa alla maggior parte delle critiche formulate dalla rivista e alle soluzioni proposte, cioè quella del rapporto fra Stati nazioni e istituzioni europee e, di conseguenza, quella della nuova formula politica da inventare per costruire l’Europa. Esprit non si accontenta dei progetti federalisti e sovranazionali, che già secondo le previsioni di Berger del 1957 non avrebbe fatto altro che alimentare le vocazioni nazionaliste e antieuropee. Nello stesso numero speciale del 1991, di cui si è parlato, si registrano tensioni all’interno della redazione a proposito del progetto europeo di Jacques Delors: mentre Thibaud rimane estremamente critico, Olivier Mongin, che gli è subentrato come direttore, intravede nelle intenzioni di Delors sul principio di sussidiarietà e il rispetto delle identità collettive nazionali e regionali la volontà di fondere un’organizzazione originale, senza riprodurre a livello sovranazionale i poteri dello Stato nazionale. Etienne Tassin lo asseconda spiegando in un articolo intitolato L’Europe: une communauté politique? che il fallimento della costruzione europea dipende dal fatto che si è tentato di unire l’Europa sulla base degli Stati nazioni. La volontà di fondare un’organizzazione politica originale si inquadra nelle riflessioni più generali della rivista sul deficit di cittadinanza presente nelle società europee: è netto il rifiuto di fare della costruzione europea un surrogato di questo deficit (v. anche Deficit democratico). Al contrario, la prospettiva è quella di una complementarità fra le nazioni e l’Europa, della suddivisione dei diversi campi d’azione e riferimenti politici.
Tuttavia il tono generale resta critico. La crisi politica europea latente dal crollo del blocco comunista e dal Trattato di Maastricht condiziona la posizione di Esprit nei confronti dell’Allargamento alle ex democrazie popolari e alla Turchia, una posizione che non è comunque esente da contraddizioni. Infatti, da un lato, la rivista condanna l’allargamento senza Approfondimento e la geografia estensiva dell’Europa senza un progetto politico chiaramente definito; dall’altro, il ruolo di pacificazione e di democratizzazione a cui la rivista ambisce per l’Europa nel mondo porta a dire “sì” all’allargamento.
Quindi nel complesso Esprit si caratterizza per il suo europessimismo e la diagnosi ribadita di una duplice crisi dell’Europa, da una parte politica ed istituzionale, dall’altra spirituale.
Anne-Sophie Nardelli (2004)