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Libera circolazione dei capitali

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Cenni preliminari

L’articolo 56 (ex 73B) del Trattato istitutivo della Comunità Europea (v. Trattati di Roma) sancisce la libera circolazione dei capitali tra paesi membri, disponendo che «sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi». L’articolo 58 poi stabilisce che «le disposizioni dell’art. 56 non pregiudicano il diritto degli Stati membri (lett. a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale», nonché (lett. b) di «prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale». E infine, ai sensi dell’art. 58 (paragrafo 3), «le misure e le procedure di cui ai paragrafi 1 e 2 non possono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti».

Nella sua formulazione odierna, conseguente alle modifiche intervenute nel 1993 (Trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea), la norma cristallizza il principio già alla base della direttiva comunitaria 88/361/CEE, la quale stabiliva la completa libertà di movimento dei capitali e dei pagamenti all’interno della (allora) Comunità economica europea.

Prima dell’anzidetta modifica, il principio di libera circolazione del capitale non trovava espressa accoglienza all’interno del Trattato, e il vecchio articolo 67 disponeva semplicemente che «gli Stati membri sopprimono gradatamente tra loro, durante il periodo transitorio e nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune, le restrizioni ai movimenti dei capitali appartenenti a persone residenti negli Stati membri e parimenti le discriminazioni di trattamento fondate sulla nazionalità o la residenza delle parti o sul luogo di collocamento del capitale».

Orbene, è evidente come tale disposizione, nella sua formulazione testé accennata, poco si prestasse all’attuazione degli obiettivi dichiarati nel Trattato di Maastricht – ossia la creazione di un’Unione economica e monetaria, caratterizzata da una politica monetaria comune e centralizzata – proprio perché mancava quel coordinamento essenziale per l’attuazione di una strategia univoca in materia di libera circolazione del capitale (v. Tesauro, 2003, p. 550).

A tal merito, deve essere individuato un ulteriore evento di estrema importanza nel processo di liberalizzazione dei flussi di capitale, ossia l’entrata in vigore dell’Euro. La moneta unica, uniformando l’unità di conto per la determinazione del valore di beni, servizi, capitali, e più in generale di ogni attività economica a livello comunitario, introduce un elemento di trasparenza nel sistema, grazie al quale sono limitati gli arbitraggi e le alterazioni del (e nel) mercato basati sul valore della moneta e sulle dinamiche valutarie. Laddove i valori economici sono espressi da una stessa moneta, c’è maggiore probabilità che gli investimenti si dirigano verso la fonte economicamente più efficiente.

Nel quadro descritto, è proprio la presenza di aliquote d’imposta differenziate a provocare verosimilmente le maggiori distorsioni nel mercato, se non altro per l’intuibile propensione degli investitori a impiegare il capitale negli Stati che “offrono” livelli di tassazione più contenuti (v. Sacchetto, 2000). Si rende pertanto necessario un coordinamento delle legislazioni tributarie nazionali volto ad assicurare il livello più elevato di competitività del (e nel) sistema.

Il processo europeo di liberalizzazione dei flussi di capitale ha visibilmente inciso sugli aspetti legati alla tassazione diretta, ciò sia con riferimento alle modifiche dell’ordinamento fiscale nazionale (d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con la l. 4 agosto 1990, n. 227, normativa sul monitoraggio fiscale), sia con riferimento alla disciplina fiscale in materia di flussi intracomunitari di dividendi e interessi.

Ma le principali innovazioni, nella prospettiva fiscale di implementazione della libertà in esame, si rinvengono al di fuori del contesto normativo in senso tecnico. Ci si riferisce, in particolare, alla Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, la quale, applicando le disposizioni del Trattato nell’ambito di talune fattispecie impositive nazionali, ne ha dichiarato l’incompatibilità rispetto ai principi fondamentali sanciti dal Trattato (principio di non discriminazione, libera circolazione dei capitali, Libera circolazione delle merci, Libera circolazione dei servizi, Libera circolazione delle persone, Libertà di stabilimento), generando il processo noto con il nome di “integrazione negativa” (v. Boria, 2004) (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

La presente analisi sarà svolta considerando separatamente l’attività della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) in tema di libera circolazione del capitale e il suo influsso sulle legislazioni fiscali dei paesi membri; di seguito, si vedrà la normativa italiana sul monitoraggio fiscale e la c.d. direttiva sul risparmio.

La libera circolazione del capitale negli interventi della Corte di giustizia

Come noto, la Corte di giustizia dell’Unione europea è chiamata – tra l’altro – a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione del Trattato. In virtù di tale prerogativa, la Corte, considerata la prolungata inattività delle altre Istituzioni comunitarie nel campo della fiscalità diretta, ha assolto una importante funzione nomofilattica, soprattutto negli ultimi anni e con spiccata vocazione nella materia qui in esame (v. Gamme, 2003; García Prats, 2003; Hinnekens, 2002; Pistone, 1995; Sacchetto, 2000).

Il diritto tributario europeo è stato “trainato” dalle interpretazioni della Corte, che, applicando i principi del Trattato, ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni fiscali degli Stati membri direttamente o indirettamente incompatibili con siffatti principi. È qui appena il caso di ribadire che, come puntualizzato inter alia da Roccataglia (v., 2005), una fiscalità europea non esiste, in virtù della semplice constatazione che i Trattati su cui si fonda l’Unione europea (il cui cardine è come noto rappresentato dal Trattato istitutivo della Comunità europea, così come rivisto e corretto dall’Atto unico europeo del 1986, dal trattato di Maastricht sull’Unione europea del 1992, dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dal Trattato di Nizza del 2000) non attribuiscono alle istituzioni comunitarie competenze fiscali tali da permettere loro la creazione di una propria imposta, di definire la base imponibile e la determinazione, nonché di assicurarne la riscossione. Pertanto, a parere di Roccataglia, può affermarsi che al concetto di fiscalità comunitaria corrisponde, piuttosto che un ordinamento fiscale vero e proprio, un sistema di regole europee di portata fiscale che hanno un’incidenza sulla struttura e sull’evoluzione delle fiscalità nazionali degli Stati membri per il completamento degli obiettivi della costruzione europea (in tal senso v. Dibout, 1995; per una posizione incline ad accettare l’idea di una futura sovranità impositiva dell’Unione europea, non necessariamente a scapito della sovranità degli Stati membri, v. Gallo, 2003).

Anche in tema di libera circolazione dei capitali si viene sempre più nitidamente delineando la matrice unitaria sottesa alle decisioni della Corte; in proposito, non deve sorprendere il relativo ritardo nella attuazione di detto principio rispetto alle altre libertà fondamentali contemplate dal Trattato, evidentemente dovuto alla tardiva entrata in funzione degli artt. 56 e ss. nella loro veste attuale (di cui si è già detto sopra).

La libertà in parola si riferisce a tutti i tipi di investimenti fruttiferi, siano essi relativi a immobili detenuti in Stati diversi da quello di residenza o cittadinanza (cfr. al riguardo il recente caso D, Corte di giustizia, 5 luglio 2005, C-376/03, sul quale v. Weber, 2005, e Van Thiel, 2007; v. anche Corte di giustizia, Conclusioni dell’avvocato generale J. Mazàk, 26 aprile 2007, C-451/05, Européenne et Luxembourgeoise d’investissements SA – Elisa – vs Directeur général des impôts e Ministère public), siano essi rappresentati da attività più propriamente finanziarie (come ad esempio i rendimenti derivanti da investimenti nei mercati finanziari), siano, infine, correlati allo svolgimento di un’attività economica effettiva in uno Stato membro diverso da quello di residenza dell’investitore. Sul punto, la Corte di giustizia ha specificato che, nell’interpretazione del sintagma “libero movimento dei capitali”, debba farsi riferimento all’allegato I della direttiva n. 88/361/CEE, contenente l’elenco dei “movimenti di capitale” ai quali si applica la libertà in parola (Corte di giustizia, 16 marzo 1999, C-222/97, Trummer & Mayer; Corte di giustizia, 14 dicembre 1995, cause riunite C‑163/94, C‑165/94 e C‑250/94, Sanz de Lera).

A tale merito, è interessante verificare l’impatto delle sentenze della Corte di giustizia in tema di libera circolazione dei capitali, relativamente ai sistemi di coordinamento tra tassazione di società e soci previsti a livello dei singoli ordinamenti tributari nazionali (v. Tesauro, 2005; con specifico riguardo al sistema italiano della participation exemption v. Fedele, 2004; Fantozzi, 2004; Russo, 2004; Lupi, 2007). Occorre a tale proposito premettere che gli Stati più evoluti adottano, alternativamente, il sistema dell’esenzione e il meccanismo del credito d’imposta per eliminare o attenuare la doppia imposizione economica degli utili societari, fenomeno che si realizza quando gli utili sono tassati una volta in capo alla società sotto forma di redditi d’impresa, e una seconda volta quando affluiscono in capo ai soci sotto forma di dividendi. I meccanismi in questione occorrono nell’ipotesi in cui il legislatore abbia optato per un sistema di “imputazione-organizzazione”, ossia nel caso in cui il reddito sia fiscalmente imputato alla società, prima di confluire in capo ai soci; qualora diversamente il legislatore prediliga un sistema di imputazione “per trasparenza”, i risultati dell’ente saranno automaticamente imputati ai soci “pro quota”; in detta ultima ipotesi, non serve provvedere all’eliminazione della doppia imposizione economica dell’utile societario, attraverso il metodo dell’esenzione o del credito d’imposta (v. Porcaro, 2001).

Rispetto allo specifico punto, la Corte ha adottato due diversi approcci, rilevando che mentre nel caso in cui l’azionista detenga una partecipazione qualificata al capitale della società le eventuali distorsioni provocate dal sistema di tassazione dei dividendi debbano essere superate attingendo al principio di libertà di stabilimento (artt. 43 e 48 del Trattato), nella diversa e speculare ipotesi in cui le partecipazioni al capitale non superino le soglie di rilevanza, le eventuali conseguenze pregiudizievoli connesse alla tassazione dei dividendi possano essere risolte alla luce del principio di libera circolazione del capitale. Tanto è lecito desumere da alcune recenti pronunce (ad esempio Corte di giustizia, 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes, su cui v. Meussen, 2007; Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, ai sensi della quale «l’art. 43 osta alla normativa tributaria di uno Stato membro la quale, nel caso in cui una partecipazione nel capitale di una società conferisca al detentore di azioni un’influenza sicura sulle decisioni della società e gli consenta di indirizzarne le attività, conceda ai cittadini degli Stati membri che risiedono sul suo territorio un’esenzione totale o parziale dall’imposta sul patrimonio a fronte del patrimonio investito in azioni nella società; ma subordini tale esenzione al presupposto che la partecipazione sia detenuta in una società stabilita nello Stato membro interessato, negandola invece ai detentori di azioni di società stabilite in altri Stati membri»). In tali pronunce i giudici comunitari osservano che «si avvale del diritto di stabilimento il cittadino di uno Stato membro il quale detenga nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro una partecipazione tale da conferirgli una sicura influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne l’attività» (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, punto 22 della motivazione. Identicamente, Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, Riksskatteverket).

In applicazione dell’articolo 56, è stata ritenuta dalla Corte incompatibile con il Trattato la normativa fiscale finlandese che concedeva un credito d’imposta ai propri residenti esclusivamente per i dividendi ricevuti da una società finlandese e non anche per i dividendi distribuiti da società residenti in altri Stati membri (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, C-319/02, Manninen, su cui v. Lupi, 2004; v. Pistone, 2004; v. Franzè, 2005; v. Ballancin, 2004). Analoga soluzione è stata adottata riguardo a una disposizione fiscale olandese che subordinava l’esenzione dei dividendi in capo a una persona fisica residente alla condizione che la società distributrice dei dividendi fosse anch’essa residente nel territorio dello Stato (Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijen, su cui v. Giorni, 2000; v. Lupo, 2000). Infine, la Corte ha dichiarato incompatibile con l’art. 56 la normativa svedese che escludeva che il cedente potesse beneficiare del differimento del pagamento dell’imposta sulle plusvalenze realizzate sulle azioni cedute, qualora la cessione fosse effettuata a favore di una società non residente direttamente o indirettamente controllata dallo stesso cedente (Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, Riksskatteverket). Si preferisce non introdurre qui il complesso tema, in fieri, del rapporto tra diritto tributario comunitario e convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (su questo tema v. Pisano, 1995, e più recentemente, v. Denys, 2007, anche alla luce della nuova giurisprudenza della Corte di giustizia – inter alia, Corte di giustizia, 14 dicembre 2006, C-170/05, Denkavit Internationaal, nonché Corte di giustizia, 5 luglio 2005, C-376/03, D case). Tuttavia, alcune circostanze, enucleate nell’art. 58 del Trattato, consentono un superamento – ragionevole e proporzionato all’obiettivo che lo Stato intende raggiungere – del principio di libera circolazione del capitale.

Tra le ragioni più frequentemente addotte dagli Stati per il superamento di detto principio, oltre alla necessità di prevenire e reprimere strumentalizzazioni elusive/evasive della disciplina fiscale nazionale (v. Pistone, 2005), rientra il tema della “coerenza del sistema fiscale nazionale” (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars).

L’argomento della coerenza, in rapporto alla tutela del principio de quo, è stato sviluppato dalla Corte adottando diverse opzioni interpretative: a seguito del caso Danner, che implicitamente negava la possibilità per gli Stati di eccepire la coerenza del sistema fiscale nazionale vis à vis con l’attuazione delle libertà fondamentali (Corte di giustizia, 3 ottobre 2002, C-136/00, relativa all’applicazione del principio di libera prestazione dei servizi, la causa riguardava la possibilità di dedurre dal reddito imponibile i contributi assicurativi volontari, concessa nel caso in cui i contributi fossero versati a soggetti erogatori di prestazioni pensionistiche residenti nel medesimo Stato di residenza dell’assicurato, e negata invece nell’ipotesi in cui detti contributi fossero versati a soggetti non residenti), nelle successive sentenze Bachmann (Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90) e Commissione vs. Belgio (Corte di giustizia, 26 settembre 2000, C-478/98), la Corte ha considerato che l’esigenza di garantire la coerenza di un regime fiscale può giustificare una normativa tale da restringere le libertà fondamentali.

Tale coerenza, ha specificato la Corte nel caso Verkooijen (Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98), deve essere misurata verificando la presenza di un nesso diretto tra la concessione di un vantaggio fiscale e la compensazione di tale vantaggio attraverso un prelievo fiscale, effettuati nell’ambito di una stessa imposta e nei confronti di un medesimo contribuente – osservazione conducibile alla necessità di neutralizzare il fenomeno di doppia imposizione giuridica. La Corte ha di seguito (caso Manninen) parzialmente modificato tale suo avviso (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, C-319/02, su cui v. Lupi, 2004; Pistone, 2004; Franzè, 2005; Ballancin, 2004) prescindendo dall’identità oggettiva e soggettiva in precedenza richiesta e ammettendo la rilevanza della correlazione tra due livelli impositivi sulla base dello scopo perseguito dalla normativa interna (v. Pistone, 2004, p. 1546; Franzè, cit., p. 429).

Occorre in ultimo rilevare che la libertà di circolazione dei capitali assume una portata più ampia rispetto al principio di non discriminazione, con il quale pur talvolta viene in contatto. Difatti, mentre il principio di non discriminazione impedisce misure (esplicitamente o implicitamente) difformi per contribuenti che versano nella medesima situazione, la libera circolazione del capitale si applica a prescindere da un confronto tra residenti e non residenti, e dunque tale libertà, nei limiti previsti dalle norme del Trattato – tra cui, lo si ricorda, l’art. 58, in virtù del quale «le disposizioni dell’art. 56 non pregiudicano il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale» – deve essere indistintamente concessa a tutti i cittadini europei.

Liberalizzazione valutaria e monitoraggio fiscale

La direttiva 88/361/CEE ha liberalizzato le movimentazioni di denaro, titoli e valute all’interno dell’Unione europea, disponendo che «gli Stati membri sopprimono le restrizioni ai movimenti di capitali effettuati tra le persone residenti negli Stati membri» (art. 1); tale direttiva è stata implementata nell’ordinamento italiano con il decreto interministeriale del 27 aprile 1990. A tale proposito occorre rilevare che una prima liberalizzazione si era compiuta già nel 1988, quando, con d.p.r. 31 marzo 1988, n. 148, la normativa valutaria italiana è stata informata al principio di libertà delle relazioni economiche con l’estero. In tale occasione, in particolare, si era abrogata una disciplina caratterizzata dal divieto, salvo autorizzazione, di compiere atti idonei a produrre obbligazioni tra residenti e non residenti per introdurre una disciplina caratterizzata dall’opposto principio in base al quale è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato. Tra le limitazioni a carico dei soggetti residenti, il citato d.p.r. n. 148 stabiliva: l’obbligo di cedere o versare valute estere nei termini previsti dal ministero del Commercio con l’estero e depositare titoli e valori mobiliari esteri presso intermediari con tempi e modalità predeterminate; il divieto di costituire depositi, esportare o detenere all’estero disponibilità in valuta o in lire, aprire linee di credito in valuta o in lire in favore dell’estero, effettuare con contropartite estere operazioni di cambio a termine o con opzione.

Prima della liberalizzazione, i frutti del capitale investito al di fuori dei confini nazionali (ma pur sempre all’interno dell’Unione europea) erano fatti transitare attraverso intermediari abilitati (segnatamente, banche) residenti nel territorio dello Stato, che operavano le ritenute alla fonte (c.d. ritenute d’ingresso) sui redditi corrisposti a soggetti residenti, evitando così il rischio che tali somme fossero totalmente esenti da imposizione.

Dal 1990, non è più previsto alcun obbligo di canalizzazione di detti flussi tramite intermediari abilitati, e pertanto le operazioni valutarie possono essere eseguite anche «attraverso compensazioni di partite di debito e credito tra residenti e non residenti», «movimentazioni di conti all’estero» e, infine, «consegna materiale di mezzi di pagamento in Italia e all’estero».

Per ovviare agli inconvenienti di carattere fiscale, inevitabilmente correlati alla perdita del potere di controllo sui trasferimenti valutari, il legislatore italiano – in esecuzione della facoltà espressamente prevista dall’art. 4, comma 1, della direttiva 88/361 (secondo cui «le disposizioni della presente direttiva non pregiudicano il diritto degli Stati membri di adottare le misure indispensabili per impedire le infrazioni alle leggi e ai regolamenti interni, specialmente in materia fiscale») – ha introdotto il d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con la l. 4 agosto 1990, n. 227, concernente “la rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”, nonché il d. legisl. 30 aprile 1997, n. 125.

La normativa reca una disciplina specifica sul monitoraggio fiscale; essa introduce l’obbligo per il contribuente di comunicare alcuni dati e circostanze rilevanti all’amministrazione italiana in caso di esportazione/importazione di flussi di danaro, titoli e valori di altro genere. La disciplina si applica ogni qual volta un contribuente invii o porti al seguito all’estero, ovvero riceva o porti al seguito dall’estero, danaro, titoli di credito, valori mobiliari, mezzi di pagamento. L’articolo 3, comma 1, del d.l. 167/1990, così come sostituito dall’art. 1 del d. legisl. n. 125/1997, dispone che «i trasferimenti al seguito ovvero mediante plico postale o equivalente da e verso l’estero, da parte di residenti e non residenti, di denaro, titoli e valori mobiliari in lire o valute estere, di importo superiore a venti milioni di lire o al relativo controvalore, devono essere dichiarati all’Ufficio italiano dei cambi».

La soglia rilevante ai fini delle comunicazioni in oggetto è stata elevata a 12.500 Euro a seguito dell’introduzione della moneta unica, e recentemente al valore di 10.000 euro per effetto del decreto ministeriale 15 giugno 2007, n. 145; il trasferente pertanto è obbligato a dichiarare all’Ufficio italiano cambi (UIC), al momento del transito o della spedizione della somma di danaro (o di titoli, o di altri strumenti di credito o pagamento, indicati in via esemplificativa dalle circolari UIC, 23 maggio 1997, n. 6020 e ABI – Associazione italiana banche – 30 giugno 1997, n. 92), il controvalore in moneta della somma importata/esportata, qualora complessivamente ammonti a più di 10.000 euro.

La dichiarazione, contenente i dati essenziali dell’operazione e del soggetto trasferente deve essere presentata a una banca (se l’operazione ha ad oggetto titoli o valori emessi dalla stessa banca), all’ufficio della dogana, all’ufficio postale, o presso un comando della Guardia di finanza. L’organo ricevente si occupa della trasmissione dei dati appresi all’Ufficio italiano cambi. Vi si affianca un sistema di comunicazioni che sono veicolate dalle banche e dagli intermediari finanziari (c.d. soggetti monitoranti).

Occorre inoltre puntualizzare che, in sede di dichiarazione annuale dei rediti, il contribuente deve inserire in dichiarazione i dati relativi a operazioni di trasferimento valutario effettuate per il tramite di soggetti non residenti, nonché menzionare in apposito quadro della dichiarazione dei redditi (il quadro RW) gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti all’estero.

La direttiva sul risparmio

In un contesto europeo unificato, caratterizzato dalla presenza di una moneta unica e che ambisce alla creazione di un’economia competitiva e trasparente, la libera circolazione dei capitali assurge a paradigma di funzionamento stesso del mercato, in assenza del quale ogni altra libertà “comunitaria” scolora – sol che si pensi, a tacere d’altro, alla necessità per gli imprenditori che intendano stabilirsi in un diverso Stato della Comunità di investire in quello Stato il “capitale” necessario all’acquisto degli impianti e dei macchinari, delle materie prime, e via dicendo. Ad avviso di attenta dottrina (per tutti, v. Tesauro, 2003) e della giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 23 novembre 1978, C-7/78), la libertà di stabilimento sarebbe vanificata se non vi si accompagnasse la libertà di trasferire le risorse necessarie all’esercizio dell’attività economica.

In siffatto contesto è inevitabile che i diversi ordinamenti cerchino di farsi concorrenza l’un l’altro “offrendo” aliquote d’imposta particolarmente vantaggiose per gli investimenti esteri. E in questo modo, potrebbero venire a crearsi situazioni in cui la leva fiscale, piuttosto che il tasso di efficienza degli investimenti (che potrebbe verosimilmente essere misurato con riguardo al loro rendimento “lordo”), veicola la distribuzione dei capitali all’interno del mercato comune (v. Comunità economica europea).

In questo quadro si innesta il recente intervento del legislatore europeo in tema di tassazione dei redditi da risparmio (direttiva n. 2003/48/CEE; v. Dassesse, 2004; Greco, Jaeggi, 2006); la disciplina, proprio al fine di neutralizzare gli effetti finanziari dannosi derivanti dalla presenza di aliquote fiscali differenziate sui redditi di capitale, stabilisce che gli interessi da risparmio debbano essere tassati unicamente nel paese di residenza del loro beneficiario effettivo. In tal modo, dato che l’aliquota d’imposta applicabile permane quella del paese di residenza del beneficiario effettivo, a prescindere dal luogo presso cui il capitale è stato impiegato, l’investimento si dirigerà verso la fonte “economicamente” più efficiente, quella ovvero che garantisce il miglior rendimento finanziario a prescindere dall’aliquota d’imposta colà applicata.

La disciplina contenuta nella direttiva si applica unicamente nei casi in cui il beneficiario effettivo sia una persona fisica, e non invece nei casi in cui si tratti di un soggetto diverso da una persona fisica, ipotesi viceversa riconducibile – sotto determinate condizioni – nell’ambito della tassazione dei flussi intracomunitari di interessi e royalties. E in effetti, a tale riguardo, mette conto rilevare come le misure introdotte nel 2003 facessero parte di un unico corpus normativo avente a oggetto la fiscalità diretta nell’Unione europea (cosiddetto pacchetto Monti). Invero, la direttiva su interessi e royalties (n. 2003/49) si applica ai flussi di interessi e canoni tra imprese consociate residenti in paesi diversi dell’Unione europea.

Come visto anche con riferimento alla disciplina sul monitoraggio fiscale, le istanze più intimamente correlate al principio di libera circolazione del capitale – e segnatamente quelle riconducibili all’esigenza di non ostacolare o impedire il transito dei flussi di capitale e di pagamenti da un paese all’altro della Comunità – si integrano con la necessità di evitare possibili abusi dei contribuenti in frode alle autorità fiscali dei diversi paesi. E pertanto la direttiva prevede, oltre all’eliminazione della ritenuta sui redditi di capitale corrisposti a soggetti non residenti nel paese della fonte, anche l’attuazione di un efficace scambio di informazioni tra le autorità fiscali nazionali. Tale previsione è finalizzata alla corretta individuazione del beneficiario effettivo del pagamento, onde evitare abusi della disciplina ad opera di soggetti sostanzialmente “non titolati” ai benefici ivi previsti (e, in particolare, al beneficio dell’esenzione alla fonte).

In tale guisa, gli agenti pagatori residenti nel territorio di uno Stato membro sono tenuti a comunicare all’autorità fiscale di quello Stato i dati utili per l’identificazione del beneficiario effettivo del pagamento; i dati così acquisiti dall’amministrazione finanziaria sono comunicati, mediante una procedura automatica di scambio di informazioni, all’autorità fiscale del paese di residenza del beneficiario effettivo.

Giuseppe Marino (2007)

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