Libera circolazione dei servizi
Cenni preliminari
I servizi rappresentano, con le merci, le persone e i capitali, uno dei quattro fattori produttivi la cui libera circolazione contribuisce alla realizzazione del mercato interno europeo (art. 3, n. 1, lett. c del Trattato che istituisce la Comunità economica europea). La liberalizzazione dei servizi è disciplinata dagli artt. 49–55 del Trattato istitutivo della Comunità europea (trattato CE) (v. Trattati di Roma), articoli che vengono riportati senza sostanziali variazioni nel Trattato che adotta una Costituzione europea. Le norme sulla libera circolazione dei servizi si completano con quelle sul diritto di Libertà di stabilimento (artt. 43-48 del Trattato CE) e insieme costituiscono il regime giuridico per la libera circolazione dei lavoratori autonomi.
La disciplina sui servizi, come definita dal Trattato CE, è determinata da principi di carattere generale che sono stati completati negli anni dalla Giurisprudenza della Corte di giustizia dellee dall’intervento normativo delle Istituzioni comunitarie.
L’attività autonoma, oggetto della normativa, è caratterizzata dalla temporaneità: il prestatore non esercita stabilmente nello Stato in cui va a operare.
La definizione di servizio viene data dall’articolo 50, in cui si evidenzia l’elemento della retribuzione per l’identificazione delle prestazioni che beneficiano della liberalizzazione; queste attività non devono rientrare tra le previsioni delle norme relative alla Libera circolazione delle merci, alla Libera circolazione dei capitali e alla Libera circolazione delle persone. Si determina così il carattere residuale della categoria dei servizi, definita per esclusione. La sua individuazione non sempre è agevole anche se, in linea di principio, si può affermare che non sono comprese in questa categoria attività che realizzano principalmente la produzione di beni e quelle rientranti nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.
Il Trattato esemplifica le categorie interessate: attività di carattere industriale, commerciale, artigianale, libere professioni. Questo non ha impedito che negli anni la giurisprudenza della Corte ampliasse tale definizione comprendendo, tra gli altri, le attività sportive, le prestazioni mediche, i servizi turistici. L’articolo 51 esclude i servizi in materia di trasporti che vengono regolati al titolo V del Trattato CE; sono esclusi anche i servizi bancari e assicurativi in quanto legati alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, peraltro oggi ormai completata.
La prestazione deve essere “normalmente” retribuita e dunque economicamente rilevante; questo comporta che nella definizione di servizio dovranno essere comprese quelle attività che possono essere, in limitate occasioni, svolte senza retribuzione come, ad esempio, le prestazioni sportive.
Come principio generale, il prestatore deve essere stabilito in uno Stato diverso da quello in cui la prestazione è fornita. La libera circolazione dei servizi è, infatti, garantita ad attività che vedono coinvolti almeno due Stati membri. Essa presuppone lo spostamento, occasionale o temporaneo, di un prestatore che opera nello Stato del destinatario oppure uno spostamento del destinatario che usufruisce occasionalmente del servizio nello Stato del prestatore. Mentre il primo caso è espressamente previsto all’articolo 50, la possibilità che si sposti il beneficiario è stata definita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) quale necessario complemento per realizzare la liberalizzazione di ogni attività retribuita che non rientri nella libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali (sentenza 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone, cause riunite 286/82 e 26/83, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 377). La localizzazione dell’attività che rileva per l’applicazione del Diritto comunitario in materia di servizi può interessare uno Stato membro diverso da quello del prestatore e del destinatario. Rientra nella disciplina comunitaria in materia di servizi anche il caso in cui non si spostano né prestatore, né utente ma solo il servizio. È questa una fattispecie particolarmente rilevante, dato lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione; interessa attività quali i servizi finanziari e la diffusione di servizi di telecomunicazioni.
Il carattere “transfrontaliero”, richiesto dalla definizione stessa di servizio, fa sì che vengano escluse dalla normativa comunitaria tutte quelle prestazioni che, pur appartenenti alla categoria dei servizi, hanno una rilevanza unicamente interna: dovranno essere considerate tali quelle attività il cui ambito di svolgimento non supera i confini del singolo Stato. Si possono verificare in questi casi situazioni di “discriminazioni a rovescio”; il prestatore che opera stabilmente in un determinato Stato può ricevere da questo un trattamento meno favorevole di quello accordato, in base al diritto comunitario, a un prestatore proveniente da un altro Stato membro.
Soggetti, principi fondamentali e attuazione della libera circolazione dei servizi
Beneficiano della libera circolazione dei servizi i cittadini degli Stati membri, stabiliti in un paese della Comunità che non sia il destinatario della prestazione (art. 49,1). Il requisito della Cittadinanza europea è previsto per il prestatore del servizio ma non per il beneficiario, per il quale è sufficiente essere residente nella Comunità. Lo stabilimento del prestatore all’interno della Comunità consente di condizionare la liberalizzazione all’esistenza di un effettivo legame con il territorio di uno Stato membro ed evitare distorsioni alla concorrenza (v. Politica europea di concorrenza). Il requisito dello stabilimento è richiesto anche dall’art. 49,2 che prevede la possibilità di estendere il beneficio della liberalizzazione a cittadini di Stati terzi solo se stabiliti in uno Stato membro. Tale requisito non deve, però, sommarsi a quello della residenza nello Stato in cui il servizio viene prestato; in questo senso si orientavano le passate proposte della Commissione europea.
Per quanto riguarda le società, esse sono equiparate alle persone fisiche quando le prime sono costituite in base alla legislazione di uno Stato membro, hanno la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità.
Il criterio della “temporaneità” della prestazione, richiesto per la definizione di servizio, serve a differenziare tale fattispecie da situazioni che più propriamente rientrerebbero nella disciplina del diritto di stabilimento e della libera circolazione delle persone. La Corte di giustizia ha evidenziato come l’occasionalità della prestazione debba essere apprezzata in base alla durata e alla frequenza; non necessariamente si esclude l’utilizzo di infrastrutture quali un ufficio o uno studio professionale (sentenza 30 novembre 1995, Gebhard, causa C-55/94, “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4165). Sono attività regolate dalle norme comunitarie sulla libertà di stabilimento quelle attività per le quali si può determinare il criterio della continuità della prestazione e della sua stabilità; rientrano, invece, nella libera circolazione dei servizi quelle attività che prevedono occasionalmente l’attraversamento delle frontiere del prestatore o destinatario. Le prestazioni in cui è il servizio a muoversi, come ad esempio le trasmissioni televisive, pur con carattere di continuità, rientreranno nella libera circolazione dei servizi.
Due sono i principi fondamentali che regolano la libera circolazione dei servizi: il divieto di restrizioni basate sulla nazionalità (art. 49) e il diritto al trattamento nazionale (art. 50). Si garantisce, infatti, il diritto a esercitare temporaneamente un’attività autonoma in uno Stato diverso da quello in cui è stabilito il prestatore. Lo Stato in cui viene svolta la prestazione non potrà introdurre restrizioni a tali attività se non quelle imposte ai propri cittadini. In base alla giurisprudenza della Corte, il divieto di restrizioni deve intendersi come principio autonomo. Se, dunque, l’attività sporadicamente svolta in un altro Stato comunitario può essere fornita alle stesse condizioni imposte dal paese di destinazione ai propri cittadini (art. 50,3), questo non significa che debba essere sottoposta alla normativa dello Stato di destinazione come avverrebbe nel caso di stabilimento. La disciplina della libera circolazione dei servizi ha, infatti, come obiettivo quello di non ostacolare la temporanea prestazione con il suo assoggettamento a diverse normative nazionali. Lo Stato dovrà eliminare le restrizioni che nel proprio ordinamento possono impedire lo svolgimento occasionale del servizio da parte di operatori stabiliti in un altro Stato e che, quindi, costituiscono una discriminazione diretta; un esempio è rappresentato dall’imposizione dell’obbligo della residenza del prestatore.
Il divieto di discriminazione imposto dall’articolo 49 si estende anche a tutte le misure che, formalmente indirizzate a nazionali e a stranieri, nascondono, in realtà, delle discriminazioni indirette. Sono considerati tali il requisito del possesso di una determinata qualifica professionale così come l’imposizione di altre formalità che possono dissuadere il prestatore straniero. Lo Stato di destinazione deve riconoscere il controllo dell’attività come effettuato nel paese di origine del prestatore (principio del mutuo riconoscimento), superando così il principio del trattamento nazionale.
Come per le altre libertà fondamentali, anche il divieto di restrizioni alla libera circolazione dei servizi può, in determinate ipotesi, essere derogato. Il richiamo esplicito dell’articolo 55 all’applicazione degli articoli da 45 a 48 sul diritto di stabilimento anche in materia di servizi fa sì che siano, innanzitutto, escluse dalla liberalizzazione le attività a cui partecipino sia pure occasionalmente pubblici poteri (art. 45). È questa una limitazione che la Corte ha interpretato in modo restrittivo, comprendendo attività che implichino una partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri. L’articolo 46 lascia, poi, impregiudicata l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare, discriminatorio, per i cittadini stranieri e si giustifichino per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Deroghe possono essere introdotte anche da misure interne indistintamente applicabili, non discriminatorie, finalizzate a tutelare «esigenze imperative connesse all’interesse generale», via via identificate dalla giurisprudenza della Corte (in particolare, sentenza 25 luglio 1991, Gouda, causa C-288/89, “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4007). Interessi che non vengono adeguatamente salvaguardati dallo Stato del prestatore possono, dunque, rendere legittime deroghe alla libera circolazione dei servizi purché le misure adottate siano necessarie e proporzionali al fine per il quale sono adottate; non devono inoltre celare interessi economici. Nel caso in cui si sia proceduto all’Armonizzazione di un determinato servizio, saranno legittime solo le restrizioni per esigenze nazionali ammesse dalle direttive comunitarie. Tali deroghe sono da considerarsi eccezionali e spetterà allo Stato che le invoca dimostrare la loro ammissibilità.
Il processo di liberalizzazione, come ipotizzato nel Trattato originario, è un processo graduale, basato sulla progressiva eliminazione delle restrizioni ancora esistenti, con l’intervento di armonizzazione delle istituzioni comunitarie tramite l’adozione di direttive (v. Direttiva) (art. 52). Gli Stati, da parte loro, si sono impegnati fin dall’origine a non introdurre nuovi ostacoli (clausola di stand-still, art. 62 ora abrogato) e ad applicare le restrizioni ancora da sopprimere senza distinzione di nazionalità o di residenza dei prestatori di servizi (art. 54). Le direttive per l’eliminazione delle restrizioni avrebbero dovuto essere approvate entro la fine del periodo transitorio in base al Programma generale del Consiglio dei ministri (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” del 15 gennaio 1962). L’adozione di altre direttive avrebbe favorito l’armonizzazione delle disposizioni per il riconoscimento delle qualifiche professionali e per la liberalizzazione del mercato (art. 47).
Allo scadere del periodo transitorio, la liberalizzazione era tutt’altro che completata. Dalla fine di tale periodo, tuttavia, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha affermato la diretta applicabilità degli articoli 49 e 50 (sentenza 3 dicembre 1974, Van Binsbergen, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1299). Il diritto del prestatore di non essere oggetto di discriminazione a causa della sua nazionalità o della sua residenza in uno Stato diverso da quello della prestazione, deve pertanto essere considerato un diritto direttamente azionabile dal singolo davanti al giudice nazionale e impone allo Stato di conformare la propria legislazione in materia. Secondo la Corte, infatti, le direttive avrebbero facilitato la realizzazione della libera circolazione dei servizi; a partire dalla fine del periodo transitorio, la loro mancata adozione non ha condizionato sostanzialmente l’attuazione dell’obbligo di risultato posto a carico degli Stati. Efficacia diretta è sempre stata riconosciuta anche a quelle disposizioni, precise e incondizionate, contenute in direttive il cui obiettivo è rendere concreto lo svolgimento della libera prestazione dei servizi (sentenza 17 ottobre 1989, Carpaneto Piacentino, cause riunite 231/87 e 129/88, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 3233). Lo Stato dovrà, pertanto, eliminare tutte le disposizioni nazionali che possano configurarsi come una discriminazione o un ostacolo. Il divieto di applicare norme discriminatorie riguarda anche enti privati, quali le federazioni sportive, che abbiano la capacità di fissare regole in materia di prestazione di servizi.
Sotto l’impulso fondamentale della giurisprudenza della Corte, le istituzioni comunitarie hanno, in questi anni, contribuito al completamento del mercato interno dei servizi con numerose direttive di armonizzazione delle legislazioni soprattutto in materia di reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli. Come previsto dal Trattato (art. 47,2), numerose direttive sono state adottate in materia di coordinamento delle disposizioni normative per l’accesso e per l’esercizio di determinate attività non salariate. È stata, pertanto, determinata una liberalizzazione relativa a singole professioni e un sistema generale di riconoscimento dei diplomi. Per quanto riguarda il riconoscimento delle qualifiche professionali, basilare anche per quanto concerne la disciplina sulla libertà di stabilimento, si ricordi la direttiva 2005/36/CE (in “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” n. L 255 del 30 settembre 2005) che raggruppa in un unico testo dodici direttive settoriali, tra cui quelle relative alla professione di medico, e tre direttive relative al sistema generale (v. anche Spazio europeo dell’istruzione superiore).
Gli ostacoli alla piena attuazione della liberalizzazione
Nonostante l’attività normativa delle istituzioni comunitarie e l’impronta liberista sostenuta e propugnata dalla giurisprudenza della Corte, numerosi sono ancora gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della liberalizzazione di questo settore. La soppressione delle barriere giuridiche e amministrative esistenti è diventata la finalità della nuova direttiva, conosciuta anche come “direttiva Bolkestein”, (direttiva n. 2006/123/CE, GUUE, n. L 376 del 27 dicembre 2006). Adottata a fine dicembre 2006, dovrà essere trasposta nell’ordinamento degli Stati membri entro dicembre 2009. Obiettivo della direttiva è il completamento del mercato interno, favorendo la libera prestazione dei servizi e il diritto di stabilimento, promuovendo servizi qualitativamente elevati e la tutela dei destinatari, rafforzando la cooperazione tra le amministrazioni degli Stati. La semplificazione amministrativa stabilisce (v. Semplificazione legislativa), in particolare, l’istituzione di sportelli unici per l’assolvimento delle formalità burocratiche e il potenziamento delle procedure che utilizzano mezzi elettronici. Il capo IV, specifico per la libera circolazione dei servizi, prevede all’articolo 16 che gli Stati assicurino il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della medesima sul loro territorio. Eventuali requisiti devono rispettare il Principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, il principio della necessità e della Principio di proporzionalità. Devono, infatti, essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica e di tutela dell’ambiente. Al prestatore non possono essere imposte misure quali lo stabilimento; tranne in determinati casi, l’obbligo di ottenere autorizzazioni compresa l’iscrizione ad un albo professionale; il divieto di dotarsi di un’infrastruttura. Sono anche tutelati i diritti dei destinatari dei servizi per i quali non possono essere fissati requisiti che limitano l’utilizzazione di un servizio da parte di un prestatore stabilito in un altro Stato membro (art. 19) o che costituiscono una discriminazione basata sulla nazionalità o luogo di residenza (art. 20). La direttiva recepisce dunque la giurisprudenza della Corte e ha l’ambizione di costituire un quadro giuridico generale per qualsiasi servizio fornito dietro corrispettivo economico. Il suo campo di attuazione è, però, circoscritto dagli articoli 2 e 17 che escludono l’applicazione della nuova normativa per determinati tipi di servizi, primi fra tutti i servizi di interesse economico generale. Essa si propone di rafforzare il mercato dei servizi per renderlo più competitive, ma non tocca i profili esterni della disciplina; interessa, infatti, solo i prestatori stabiliti in uno Stato membro. Non riguarda i negoziati internazionali per gli scambi di servizi ed esclude esplicitamente (considerando n. 16) le questioni connesse alla partecipazione della Comunità e degli Stati membri all’Accordo generale sugli scambi di servizi (General agreement on trade in services, GATS).
Silvia Cantoni (2007)