Libera circolazione delle persone
Introduzione
Il Diritto comunitario ha avuto come obiettivo principale la creazione di un mercato interno (v. Comunità economica europea) nel quale si realizzassero le c.d. quattro libertà di circolazione (Libera circolazione delle merci, libera circolazione delle persone, Libera circolazione dei servizi e Libera circolazione dei capitali). La libera circolazione delle persone sulla base del diritto comunitario, dapprima prevista a favore dei soli lavoratori subordinati e autonomi, è stata nel tempo estesa a opera della Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee anche ai destinatari di servizi: si pensi ad esempio ai turisti e ai soggetti che usufruiscono di trattamenti medici all’estero (v. sentenza 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 377; sentenza 2 febbraio 1989, causa 186/87, Cowan, ivi, p. 195; sentenza 19 gennaio 1999, causa C-348/96, Calfa, ivi, p. I-11). A questi viene riconosciuto un diritto di ingresso e di soggiorno ricollegato al loro status di soggetti che circolano al fine di ricevere una prestazione economicamente valutabile. Il cittadino può poi decidere di circolare anche per un periodo di tempo più lungo, esercitando una vera e propria attività economica stabile: in tal caso il soggetto sarà sottoposto a regole diverse a seconda che si tratti di lavoratore subordinato o di lavoratore autonomo, sulla base dei principi sanciti dagli artt. 39 e ss. e 43 e ss. del Trattato istitutivo delle Comunità europee (TCE) (v. Trattati di Roma).
Un’estensione si è poi avuta, in tempi recenti, con l’introduzione della Cittadinanza europea dell’Unione europea, relativamente alla possibilità per il cittadino “comunitario” di circolare a prescindere dallo svolgimento di un’attività economica (in proposito v. Tizzano, 2004, p. 248).
Libera circolazione dei lavoratori subordinati
L’art. 39 del Trattato prevede la libera circolazione dei lavoratori subordinati e il conseguente divieto di discriminazione sulla base della nazionalità, principio che ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’ordinamento comunitario (v. Principio di non discriminazione), (v. Tizzano, 2004, p. 356 e ss.). Al fine di garantire l’effettività di questo principio gli Stati devono consentire il diritto di ingresso e di soggiorno sul proprio territorio, nonché provvedere affinché la normativa interna in materia di lavoro non sia discriminatoria nei confronti dei soggetti che provengono da un diverso Stato membro (v. Condinanzi et al., 2006, p. 105 e ss.). A complemento delle previsioni di cui all’art. 39 e ss. si è reso necessario adottare due strumenti. Il primo è il regolamento 1612/1968 sulla libera circolazione dei lavoratori (in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” L 257 del 1968) nel quale si estendono i diritti (di libera circolazione e parità di trattamento) alla famiglia del lavoratore (coniuge, figli minorenni a carico, gli ascendenti propri e del coniuge se a carico, indipendentemente dal possesso da parte di questi della cittadinanza comunitaria). Ulteriori estensioni del diritto potranno essere previste dai singoli ordinamenti nazionali (sulla situazione del convivente del lavoratore cfr. la sentenza 17 aprile 1986, causa 59/85, Reed, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1283). Il regolamento è stato modificato su questo punto dalla direttiva 2004/38/CE (in “Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea” L 158 del 2004) che prevede l’estensione dei diritti al partner con il quale sia stata contratta un’unione stabile registrata se il paese ospitante equipara queste unioni al matrimonio.
Il secondo strumento è il regolamento 1408/71 (in GUCE L 149 del 1971) relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, determinato dalla necessità di stabilire un coordinamento fra i diversi sistemi previdenziali nazionali finalizzato a poter valutare i periodi contributivi effettuati all’estero allo scopo di accedere alle prestazioni sociali.
Un primo punto da definire ha riguardato la nozione di “lavoratore” ex art. 39 TCE e la sua estensione. Se è vero che la ragione alla base della scelta di consentire la circolazione ai soli soggetti che esercitano un’attività economica era dovuta alla volontà di evitare la circolazione di coloro che potevano gravare sui sistemi di sicurezza sociale interni agli Stati membri, la giurisprudenza comunitaria è comunque intervenuta per interpretare estensivamente questa nozione. Potrà pertanto circolare anche un soggetto che svolga un’attività lavorativa a tempo parziale, così come beneficerà di questa libertà il soggetto che svolga un semplice tirocinio preparatorio all’attività lavorativa, purché retribuito (v. sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 2121 e sentenza 23 marzo 2004, causa C-138/02, Collins, ivi, p. I-2703).
Caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è lo svolgimento di un’attività retribuita per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra persona e sotto la direzione di quest’ultima, indipendentemente dalla natura giuridica del contratto concluso col datore e dal numero ridotto di ore di lavoro (v. Foglia, 2006, p. 989). La presenza del carattere economico dell’attività deve essere valutata sulla base di un giudizio concreto e di fatto (cfr. sentenza 5 ottobre 1988, causa 196/87, Steymann, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 6159, relativa alle attività economiche esercitate da membri di una comunità religiosa).
Questa giurisprudenza, sulla base del parallelismo interpretativo fra libera circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi (sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman, ivi, p. I-4921), potrà trovare applicazione anche al settore del lavoro autonomo.
Il diritto di soggiorno riguarda sia il soggetto che già svolge l’attività lavorativa, sia colui che ha cessato di svolgerla (per anzianità, o inabilità) sia colui che è alla ricerca di nuova occupazione (v. anche Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea). Questi potrà usufruire del diritto di ingresso e di soggiorno per un periodo di tempo ragionevolmente necessario al fine di trovare lavoro, purché dimostri di ricercare attivamente un’occupazione.
Diritto di soggiorno e parità di trattamento
Il diritto di soggiorno deriva al lavoratore dal rispetto dei requisiti previsti dal Trattato e non da un provvedimento delle autorità dello Stato ospitante. La carta di soggiorno avrà pertanto valore meramente indicativo e non costitutivo del diritto. Di conseguenza, l’obbligo di denunciare la propria presenza sul territorio non potrà essere sanzionato con la reclusione (sentenza 12 dicembre 1989, causa 265/88, Messner, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 4209) così come l’omissione delle formalità necessarie per ottenere il documento di soggiorno non potrà essere sanzionata con l’espulsione del soggetto (sentenza 8 aprile 1976, causa 48/75, Royer, ivi, p. 497)
Il soggetto che beneficia della libertà di circolazione non potrà essere oggetto di discriminazioni basate sulla nazionalità: avrà quindi diritto alla parità di accesso al lavoro e alla parità di trattamento. Ciò significa che egli (e i suoi familiari nel senso ristretto sopra indicato) avrà diritto a ottenere lo stesso trattamento riservato ai lavoratori di quello Stato membro. In particolare egli avrà diritto ai vantaggi sociali derivanti dallo status di lavoratore: si pensi alla retribuzione e a tutti gli accessori della medesima, all’accesso alla formazione, alla rappresentanza nelle organizzazioni sindacali (sentenza 4 luglio 1991, causa C-213/90, ASTI, ivi, p. I-3507). I familiari mantengono questi diritti anche a seguito di decesso del lavoratore (sentenza 30 settembre 1975, causa 32/75, Cristini, ivi, p. 1085).
Limiti alla libera circolazione
Nel garantire la libera circolazione delle persone, il diritto comunitario prevede anche le ipotesi in cui questa libertà può essere oggetto di limiti e le condizioni in base alle quali può essere deciso l’allontanamento dal territorio nazionale di un cittadino di un altro Stato membro. Sarà possibile limitare la libera circolazione sulla base di ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica. Trattandosi di limiti a una libertà prevista dal Trattato, questi sono stati interpretati restrittivamente dalla giurisprudenza comunitaria. Potranno quindi trovare applicazione solo se il limite risulta non solo giustificato, ma anche proporzionato al comportamento del soggetto. Non è stata, ad esempio, considerata possibile l’espulsione di un soggetto basata non sul suo comportamento individuale e sulla sua effettiva pericolosità, bensì sulla volontà per lo Stato ospitante di conseguire un effetto deterrente nei confronti della generalità dei lavoratori migranti (sentenza 26 febbraio 1975, causa 67/74, Bonsignore, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 297).
Il provvedimento che nega la libera circolazione deve poter essere impugnato davanti a un’autorità indipendente, diversa da quella che ha proceduto all’adozione dello stesso (sentenza 18 maggio 1982, cause 115 e 116/81, Adoui e Cornuaille, ivi, p. 1665).
La direttiva 64/221/CEE (in GUCE 56 del 1964) sull’applicazione dei limiti alla libera circolazione delle persone è stata recentemente abrogata (e sostituita) dalla direttiva 2004/38/CE dal contenuto equivalente. I limiti alla libera circolazione si applicano sia ai lavoratori (subordinati e autonomi), sia ai loro familiari che beneficiano della libera circolazione.
Un ulteriore limite è quello relativo alle attività che prevedono una diretta e specifica partecipazione ai pubblici poteri, per le quali gli Stati membri possono mantenere la possibilità di accesso a favore esclusivo dei propri cittadini. Questa previsione potrà trovare applicazione a settori specifici della pubblica amministrazione che implichino la partecipazione effettiva ai pubblici poteri. Non troverà applicazione a coloro che lavorino in enti pubblici che eroghino gas, acqua, elettricità, né in relazione all’attività di addetto alle poste (cfr. sentenza 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, in “Raccolta della giurisprudenza” p. 153; v. Foglia, 2006, p. 1006 e ss.; Daniele, 1998). La Corte di giustizia ha altresì stabilito l’impossibilità di applicare questo limite alla professione di avvocato (sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, in “Raccolta della giurisprudenza” p. 631; v. Condinanzi et al., 2006, p. 152). Quanto al possibile utilizzo della richiesta di conoscenze linguistiche, come limite alla libera circolazione, questo potrà trovare giustificazione solo se proporzionato rispetto all’obiettivo meritevole di tutela, ad esempio la salvaguardia di una lingua minoritaria come il gaelico in Irlanda (sentenza 28 novembre 1989, causa 379/87, Groener, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 3967; cfr. in senso negativo, causa C-506/04, Wilson e causa C-193/05, Commissione c. Lussemburgo, sentenze del 19 settembre 2006).
Libera circolazione dei lavoratori autonomi (libertà di stabilimento)
Alla libera circolazione dei lavoratori subordinati si affianca la libera circolazione dei lavoratori autonomi. Anche in questo caso dovrà trattarsi di soggetti che intendono esercitare un’attività economica in un altro Stato membro, senza però la presenza di un vincolo di subordinazione. Quanto alla differenza fra Libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, questa è fondata sul carattere permanente e non occasionale dell’attività esercitata (per i criteri distintivi cfr. sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4165).
La giurisprudenza comunitaria ha avuto modo di occuparsi della libertà di stabilimento principalmente con riferimento alle attività libero-professionali a partire dalla pronuncia nel caso Reyners (cit.) nel quale l’art 43 del Trattato è stato dichiarato direttamente applicabile anche prima dell’adozione delle direttive ivi previste, che avrebbero dovuto eliminare le restrizioni esistenti. D’altronde il Trattato, già nella sua prima formulazione, si occupava di regolamentare la libera prestazione dei servizi professionali, annoverando espressamente al suo articolo 60, lettera d (oggi art. 50) le “attività delle libere professioni” all’interno dell’ampia categoria dei servizi e indicando come mezzi per la soppressione delle restrizioni a tale libertà l’adozione di un “programma generale” e la predisposizione di direttive. All’inizio, pertanto, l’interesse della Comunità europea per l’esercizio delle professioni si è focalizzato sull’aspetto della libera circolazione delle persone, da conseguire attraverso una sempre maggiore Armonizzazione dei percorsi formativi, ove possibile, e basandosi altresì sul principio di mutuo riconoscimento. Ciò ha portato all’introduzione di un primo sistema di direttive settoriali (rivolto principalmente alle professioni medico-sanitarie), e alla successiva previsione di due direttive generali applicabili a tutte le professioni regolamentate per le quali non esiste una direttiva settoriale: la dir. 89/48/CEE (in GUCE L 19 del 1989) che prevede un sistema generale di riconoscimento dei diplomi d’insegnamento superiore che coronino corsi di formazione professionale di una durata minima di tre anni e la dir. 92/51/CEE (in GUCE L 209 del 1992), relativa a un sistema generale di riconoscimento per formazioni professionali di durata inferiore a tre anni.
Il sistema è stato recentemente modificato tramite la direttiva 2005/36/CE (in GUUE L 255 del 2005) che ha convogliato in un unico strumento le precedenti direttive, semplificando e coordinando il quadro giuridico in materia (v. Condinanzi et al., 2006, p. 366). Per la professione di avvocato, è stato previsto un sistema parzialmente diverso, con una prima direttiva sulla libera circolazione dei servizi (77/249/CEE in GUCE L 78 del 1977) e una seconda sulla libertà di stabilimento (98/5/CE, ibid., L 77 del 1998), che non esclude il possibile riconoscimento del titolo professionale tramite la direttiva 89/48/CEE e sue modifiche.
Elisabetta Bergamini (2007)