Lotta contro il terrorismo
Inquadramento storico e concettuale
La storia del terrorismo è assai lunga, così come sfuggente è la linea che separa l’eversione terroristica in senso stretto dall’esercizio estremo dell’azione politica, al di fuori e contro le istituzioni riconosciute. Le lotte di liberazione nazionale sono state quasi sempre tacciate di terrorismo dalle istituzioni contro le quali si rivoltavano, e in qualche misura analogo può definirsi il percorso delle rivoluzioni nate da conflitti sociali all’interno degli Stati nazione. Definire una linea di demarcazione fra terrorismo illegale e lotta politica estrema in funzione dell’evolvere del consenso per gli attori extrastatuali appare eticamente complesso e politicamente ambiguo. Il problema è rimasto a tutt’oggi sostanzialmente irrisolto, nonostante numerosi tentativi di codificazione internazionale. A livello generale, e segnatamente in seno alle Nazioni Unite, il progetto di Convenzione globale contro il terrorismo non è stato ancora finalizzato, né possono considerarsi universalmente accettabili i trattati conclusi a livello regionale (ad esempio del Consiglio d’Europa o della Conferenza islamica).
L’11 settembre 2001 ha segnato uno spartiacque decisivo per quanto concerne la natura, la percezione e gli strumenti di lotta al terrorismo. L’attacco alle Torri gemelle ha operato una sorta di mutazione genetica: il terrorismo stempera la sua connotazione essenzialmente territoriale – che non esclude, e anzi in alcuni casi postula, collegamenti internazionali, ma resta comunque saldamente ancorato alla dimensione nazionale, o al massimo regionale, dei problemi – per acquisirne un’altra che, per la sua stessa natura, trascende i confini dello Stato nazione e investe una dimensione strutturalmente transazionale: il fondamentalismo religioso ne è l’immagine più evidente ancorché non l’unica (basti pensare ad alcune manifestazioni del c.d. terrorismo ecologico praticato da alcuni dei gruppi estremi della galassia ambientalista). Il nuovo terrorismo “globale” muove, in buona sostanza, da problematiche che attengono alla condizione universale dell’individuo e al ruolo della società, anziché in opposizione all’insoddisfacente funzionamento del “recinto delle regole” delle istituzioni statali; esso continua a investire gli Stati, ma in maniera per così dire residuale, in quanto strumenti di una politica che tende a negare la validità degli assunti universalistici cui i gruppi terroristi dichiarano di richiamarsi.
Il terrorismo ha sempre avuto una componente internazionale, si potrebbe obiettare, e la solidarietà fra gruppi eversivi in diversi paesi è connaturata alla natura del fenomeno terroristico fin dai suoi albori. Questo è vero, ma essa si riferisce al modus operandi del terrorismo – la costituzione di reti di sostegno incrociato, finanziamenti, coperture, ecc. – e non alle finalità dell’azione, che restano legate al territorio al quale i gruppi afferiscono. Oggi invece, la nuova dimensione meta- o extraterritoriale del terrorismo apre una fase più pericolosa, perché rende più sfuggente la percezione dell’interesse delle parti e la logica che presiede al suo contrasto. Nel caso dell’IRA e del movimento insurrezionale nordirlandese, ad esempio, la lettura delle motivazioni e delle risposte è contrapposta, ma chiaramente definibile proprio perché riferita a una dimensione identificata. Nel caso di al-Qaida per contro, il messaggio eversivo punta a una palingenesi rivoluzionaria, i cui i contorni non si identificano con una rivendicazione precisa e richiedono una adesione di massa che prescinde dalla dimensione nazionale; così come è solo attraverso una mobilitazione eguale e contraria, nei contenuti e nell’articolazione, da parte della totalità della comunità internazionale, che diviene sostenibile un suo contrasto efficace. Come dimostra il fatto che, non appena la tensione tende ad allentarsi, affiorano le smagliature nella capacità di risposta da parte della società internazionale, in una con il riemergere di valutazioni legate ad identità e interessi più specificamente connessi al territorio e allo Stato nazione. Tutto ciò ha richiesto una rivisitazione in profondità degli strumenti tradizionalmente messi in campo per contrastare il fenomeno terroristico.
Va riconosciuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il merito di avere fornito alla comunità internazionale una definizione di terrorismo che, in assenza di una convenzione universalmente accettata, avesse comunque, in virtù delle disposizioni di cui al capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, valenza generale e cogente. Alcune delle definizioni del Consiglio di sicurezza, in particolare la 1573/2001 e la 1566/2004, costituiscono quindi un riferimento imprescindibile per la comunità internazionale, rispetto alla quale vengono posti precisi obblighi. Partendo da tali definizioni, in specie quella che individua come terroristico qualsiasi comportamento, azione ecc. che si proponga di rovesciare l’ordine costituito all’interno di uno o più Stati, al di fuori delle regole fissate per il confronto politico o per la condotta di conflitti armati – la società internazionale ha cercato per decenni di stabilire parametri comuni che permettessero di sanzionare uniformemente il terrorismo, indipendentemente dal territorio e dalle motivazioni specifiche con cui si manifestasse nella propria azione. Tale tentativo – di cui l’espressione più evidente è la progettata Convenzione globale sulla repressione del terrorismo presentata all’ONU su proposta indiana – si è in pratica infranto sulla suaccennata impossibilità di stabilire un confine comunemente accettato fra contrasto politico rivoluzionario ed eversione terroristica, fra conflitto armato e guerriglia. Il criterio della legittimità della motivazione politica, e della congruità della stessa con l’obiettivo universale della tutela delle libertà individuali e delle istituzioni democratiche, si è scontrato con la difficoltà di applicarne i contenuti alla realtà geopolitica degli Stati (cui non sovvengono nella sostanza le Dichiarazioni universali adottate nell’ambito delle Nazioni Unite, necessariamente generali ed aperte a interpretazioni divergenti).
L’impossibilità di tracciare un discrimine fra lotta di liberazione ed eversione terroristica ha dimostrato, ancora una volta, la relatività dei parametri: quello che oggi è terrorismo può domani, in forza del mutato contesto socio-politico, diventare lotta di liberazione. Il Comitato ad hoc costituito dalla risoluzione 51/210 del 17 dicembre 1996, nel suo rapporto del 30 marzo 2005, non ha potuto che registrare le continue divergenze tra gli Stati membri e la conseguente impossibilità di finalizzare questo testo, limitandosi a rinviarne la discussione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Su impulso soprattutto degli Stati Uniti, l’Assemblea generale verrà chiamata a compiere un ulteriore tentativo di infondere nuova vita al progetto di Convenzione globale. Nonostante l’impegno verbale, tuttavia, le prospettive non si annunciano favorevoli a questo ennesimo tentativo.
L’era del terrorismo internazionale e la gli strumenti della lotta alla sua diffusione globale
Per uscire da questa contraddizione, rinviando a tempi migliori la ricerca di una categoria generale del terrorismo, ci si è accontentati di una lettura più riduttiva, volta a stabilire cosa si debba intendere per “atto terroristico”, lasciando da parte la questione di come e se esso si inserisca in una dimensione strutturata più ampia. Anche tale lettura si è scontrata con non pochi problemi (il rischio di confusioni concettuali fra “atto” e “movimento” o “fenomeno” è evidente) ed è rimasta anch’essa lungamente trascurata, ma grazie all’emergere della nuova dimensione globale del terrorismo internazionale dopo l’11 settembre ha potuto compiere significativi passi avanti. Davanti a una minaccia a un tempo globale e non riferibile a un campo di interessi o a un ambito istituzionale definito, la ricerca di categorie logiche universali perde di importanza, perché qui non si tratta più di definire – attraverso di esse – il confine fra confronto ed eversione, fra repressione e ordine pubblico, bensì di affrontare, nello specifico e senza riferimenti nazionali identificabili in anticipo, una minaccia che coinvolge indistintamente la società internazionale, prescindendo da schieramenti, logiche politiche e ideologie riconosciute a livello degli Stati nazione.
Per un momento, è sembrato che l’attacco alle Torri gemelle di New York potesse far superare anche la difficoltà di fondo nella definizione del terrorismo: la nuova minaccia era per la prima volta autenticamente “globale” e ignorava gli steccati esistenti. E tuttavia, ancora una volta, la risposta è stata univoca sì, ma puntuale e non tale da superare le contraddizioni di fondo dell’analisi. Fra la Cecenia e al-Qaida vi sono differenze profonde: il primo è sostanzialmente un terrorismo “tradizionale” e può essere affrontato con metodi legati alla dinamica e alla dignità degli Stati – fra cui il rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà del cittadino – assai meglio di quanto non si possa fare per il secondo, dove la ricerca di un’intesa su metodi di risposta comune passa attraverso un terreno così profondamente diversificato da risultare a volte quasi impercorribile. Il risultato è che, tanto nella definizione come nei mezzi di contrasto al terrorismo, la società internazionale non può fare altro che adattarsi a vivere con questa contraddizione e ricercare forme di risposta che, inevitabilmente, affrontano le conseguenze ma non possono risalire alle cause.
L’attacco terroristico dell’11 settembre ha colpito in primo luogo gli Stati Uniti, e ciò ha determinato una ulteriore complessità. Da un lato, infatti, il colpo inferto alla potenza mondiale egemone ha fatto comprendere senza possibilità di equivoci come la nuova minaccia, che si era andata in modo così spettacolare manifestando, coinvolgesse la società internazionale tutta intera, colpita nel suo punto di maggior forza intrinseca anche per mostrarne la sostanziale impotenza. Dall’altro, ha introdotto una sorta di poison pill nella presa di coscienza collettiva: con il passare del tempo alla solidarietà senza aggettivi si è andata affiancando una valutazione per così dire più “nazionale”, alimentata dal sentimento antiamericano a vario titolo presente in molti paesi. L’ambiguità concettuale dell’equazione lotta al terrorismo/lotta per la democrazia, nella sua accezione afgana ma soprattutto in quella irachena, ha dato ulteriore corpo alla tendenza a deuniversalizzare la minaccia e a ricondurla entro canoni interpretativi per così dire tradizionali. Tale aspetto, tuttavia, è rimasto in larga misura allo stato embrionale e non rappresenta – allo stato attuale – una componente decisiva della reazione istituzionale al terrorismo internazionale: un fattore complicante forse, ma proiettato nel medio periodo.
Gli strumenti posti in essere dalla comunità internazionale dopo l’11 settembre hanno fatto passare in secondo piano le difficoltà che avevano reso praticamente impossibile la messa a punto di una piattaforma comune. Le Nazioni Unite hanno affermato la loro centralità come luogo necessario per una risposta globale ad una minaccia globale: affrontando il fenomeno dalle sue manifestazioni operative, anziché da una base concettuale astratta, esse hanno recuperato una efficienza nella quale gli Stati membri si sono rapidamente riconosciuti, salvo pochissime eccezioni.
Il contrasto al terrorismo internazionale in ambito ONU si è concentrato sugli aspetti finanziari, di individuazione e congelamento delle risorse ascrivibili ad organizzazioni o individui facenti capo ad attività terroristiche. Ciò ha dato vita a critiche da parte di quanti hanno ritenuto che misure del genere riuscissero, al massimo, a scalfire una realtà che, per sua definizione, restava insondabile e che, quindi, non potevano arrecare alcun danno di sostanza all’attività dei terroristi. Critica in parte fondata, ma che ignora l’aspetto fondamentale, e cioè che, attraverso le Nazioni Unite, la comunità internazionale è riuscita a dare una risposta politicamente univoca alla minaccia terroristica: la risoluzione 1373/2001 ha per la prima volta stabilito l’obbligo per gli Stati membri di colpire il terrorismo in tutte le sue forme e ha, fra le altre cose, creato un Comitato ad hoc, il Comitato contro il terrorismo (Counter-terrorism committee, CTC), con il compito di monitorare il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi assunti, anche attraverso la presentazione di rapporti annuali. La risoluzione 1373/2001 si pone come un seguito logico delle risoluzioni 1267/1999, 1333/2000, 1390/2002 e 1455/2003, con le quali il Consiglio di sicurezza ha stabilito le misure di contrasto ai Talebani in Afghanistan. A differenza di queste tuttavia, la risoluzione 1373 colpisce il terrorismo senza distinzioni di luogo o di finalità e, in aggiunta al congelamento, obbliga gli Stati membri ad astenersi da azioni anche indirette di appoggio alle attività di terroristi, a prevenire la perpetrazione di atti terroristici, a negare safe haven ai terroristi, a perseguirli giudizialmente e ad adeguare i propri sistemi legislativi e la propria prassi interna. Il CTC ha il compito di vegliare sul puntuale rispetto di tali obblighi attraverso il meccanismo dei rapporti attuali, come anche quello di porre a disposizione degli Stati in difficoltà strumenti più adeguati di contrasto al terrorismo.
Il ruolo e l’azione delle organizzazioni internazionali e dell’Unione europea contro il terrorismo
Allo stesso tempo, notevole impulso è stato dato al processo di ratifica delle 12 convenzioni in materia di lotta al terrorismo – che languivano da tempo – e il numero degli Stati che ne fa parte è considerevolmente aumentato. Accogliendo l’appello formulato dal segretario generale nel suo rapporto “In larger freedom”, il 14 settembre 2005 è stata aperta alla firma degli Stati membri la Convenzione sulla repressione degli atti di terrorismo nucleare, completando così un processo negoziale durato molti anni.
Anche se in assoluto le cifre sottratte alla disponibilità del terrorismo internazionale sono risultate modeste, è nel contrasto finanziario che – come si diceva – la comunità internazionale si è riconosciuta praticamente senza eccezioni, se non altro sul piano del metodo e della priorità degli obiettivi. Da qui il ruolo crescente assunto dal Gruppo di azione finanziario internazionale (GAFI) nato da un’iniziativa del G7, alla Lotta al riciclaggio di denaro sporco: esso ha ampliato progressivamente il suo raggio d’azione al finanziamento del terrorismo in generale, cercando di colmare il vuoto dovuto all’inesistenza di un organismo societario attivo in tale ambito.
Il G7/G8, in virtù del particolare ruolo giocato nella scena internazionale, ha adottato stringenti piani d’azione, impegnandosi a porre standard di riferimento a livello internazionale. In uno sforzo di outreach, esso ha anche messo a punto un sistema di sostegno economico e finanziario degli Stati terzi maggiormente bisognosi di aiuto nella lotta contro il terrorismo, costituendo il Gruppo d’azione antiterrorismo (Counter-terrorism action group, CTAG). Questa iniziativa, a vocazione universale, ha mostrato tuttavia i limiti di intraprese operate a favore del Terzo mondo da uno specifico gruppo di Stati cui non tutti i paesi in via di sviluppo riconoscono il ruolo di leadership.
Tra le organizzazioni universali, vanno citate anche l’International civil aviation organization (ICAO) e l’International maritime organization (IMO), le quali, nei settori di rispettiva competenza, hanno adottato piani d’azione tendenti ad accrescere la sicurezza nel campo del trasporto aereo e marittimo che – come riscontrato purtroppo in occasione di numerosi attentati – rappresentano un elemento privilegiato dell’azione dei terroristi.
L’Unione europea (UE) ha reagito con tempestività, grazie all’adozione da parte del Consiglio europeo, all’indomani dell’attentato dell’11 settembre, del Piano d’azione contro il terrorismo. Esso contiene un’ampia serie di misure da adottare nei vari settori cruciali della lotta al terrorismo, che comprende svariati ambiti quali Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, sicurezza dei trasporti, controllo delle frontiere e sicurezza dei documenti, lotta al finanziamento, dialogo politico e relazioni esterne, difesa contro attacchi biologico-chimico-radiologico-nucleari, ecc. Il sistema ricalca da vicino quello delle Nazioni Unite anche se, data la particolare natura dell’Unione, la sua efficacia cogente per gli Stati membri è risultata maggiore. L’UE ha dato applicazione alla risoluzione 1373/2001 attraverso il regolamento 2580/2001 e la posizione comune 931/2001, applicate rispettivamente ai terroristi internazionali e ai cosiddetti terroristi “endogeni”. Analogamente a quanto avviene in ambito societario, esse si basano su un meccanismo “per liste”, che individua nominativamente persone e organizzazioni oggetto delle sanzioni. L’UE si è anche dotata di strumenti comunitari di attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che riguardano individui e gruppi terroristici legati alla galassia di al-Qaeda e dei Talebani (posizione comune 402/2002 e regolamento 881/2002). Il Consiglio europeo straordinario del 25 marzo 2004 ha adottato una importante Dichiarazione sul terrorismo, con una specifica Dichiarazione sulla solidarietà contro il terrorismo, che, anticipando le disposizioni dell’articolo 42 del Trattato sulla Costituzione europea, stabilisce un obbligo di assistenza, «con tutti gli strumenti disponibili, incluse risorse militari», a uno Stato membro colpito da un attacco terroristico.
Come il Piano è oggetto di una costante integrazione, così anche il Consiglio europeo ha via via adottato nuovi atti, dalla Dichiarazione sul terrorismo (marzo 2004), alla Strategia UE contro il terrorismo (dicembre 2005), che si basa su quattro pilastri fondamentali: la prevenzione del fenomeno terroristico; la protezione dei cittadini, delle infrastrutture, dei trasporti, con il necessario rafforzamento delle strutture di sicurezza; il perseguimento, inteso come il tentativo di impedire ai gruppi o singoli terroristi di comunicare, muoversi liberamente e pianificare attacchi, attraverso lo smantellamento delle loro reti di supporto e di finanziamenti; la risposta, intesa come la capacità di gestire e minimizzare le conseguenze di possibili attacchi terroristici in un’ottica di cooperazione e solidarietà.
Nell’ambito del terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), dedicato alla cooperazione nel settore della giustizia (v. anche Giustizia e affari interni), sono state istituite “squadre multinazionali ad hoc”, composte da investigatori dei paesi UE ed operanti nel momento “pre-giudiziale” dell’indagine di polizia. L’Unione europea ha inoltre definito una serie di strumenti in materia di controllo delle frontiere, di scambio di informazioni e di cooperazione giudiziaria e di polizia. In particolare, dal 1° maggio 2005 è divenuta operativa l’Agenzia europea per le frontiere esterne (Frontex).
Sono numerosi anche gli strumenti legislativi adottati nel quadro della cooperazione giudiziaria penale e di polizia. Si possono ricordare le decisioni quadro sul Mandato d’arresto europeo; sulle squadre investigative comuni; sulla lotta al terrorismo; sull’istituzione di Eurojust (organo dell’Unione competente per indagini e azioni penali concernenti almeno due Stati membri e relative a forme gravi di criminalità); sul riciclaggio, sequestro e confisca degli strumenti e proventi di reato; sulle misure specifiche per la cooperazione giudiziaria e di polizia nella lotta al terrorismo; sul reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca. In tale contesto vanno poi ricordati la Convenzione del maggio 2000 sulla mutua assistenza in materia penale tra gli Stati membri e i tre protocolli aggiuntivi che hanno emendato la Convenzione istitutiva di Europol (Ufficio europeo di polizia). Grazie alle misure adottate, l’UE ha conseguito sul piano interno un livello di Armonizzazione legislativa prima inesistente (basti pensare che nel 2001 solo una minoranza degli Stati membri, segnatamente quelli che avevano vissuto l’esperienza del terrorismo come Italia, Francia, Germania, Regno Unito, disponeva di una specifica legislazione in questo settore (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni).
L’Unione europea ha fatto del terrorismo uno degli elementi cardine del suo dialogo politico verso gruppi regionali e paesi terzi. Una clausola antiterrorismo è prevista in accordi di Associazione e cooperazione, e in strumenti analoghi delle relazioni esterne. Particolare attenzione è stata dedicata all’esame del fenomeno della radicalizzazione violenta e del reclutamento da parte di organizzazioni terroristiche.
A livello regionale, ogni gruppo ha adottato il suo piano d’azione antiterrorismo, dall’Unione africana all’Organizzazione degli Stati americani, a quella dei paesi islamici, all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) al Consiglio d’Europa. Citare in maniera dettagliata tutte le iniziative poste in atto dopo l’11 settembre richiederebbe la redazione di un lungo catalogo di attività. Certo è che nessuna organizzazione internazionale si è sottratta all’esigenza di emanare dichiarazioni politiche e stilare programmi operativi di lotta al terrorismo. Se forse un rilievo si può fare, è proprio relativo alla proliferazione di iniziative che non hanno sempre avuto il pregio della coerenza.
Riflessioni conclusive
A prima vista, può colpire la relativa lentezza con cui la comunità internazionale ha reagito agli attacchi e la macchinosità del suo processo decisionale; d’altro canto, la natura stessa del fenomeno terroristico non lo rende catalogabile su base dei criteri che si applicano agli attori statuali. Congelare i fondi di un’organizzazione richiede controlli e procedure elaborate, mentre aprire o spostare un conto presso una banca compiacente (per non parlare del sistema hawala) richiede al massimo una telefonata; modificare un regime di visti presuppone un passaggio legislativo o – nel caso di Schengen – un negoziato multilaterale non facile, mentre varcare una frontiera da clandestini e assai meno difficile, e così via.
La risposta della comunità internazionale si è basata su un consenso politico piuttosto che su un fondamento pattizio giuridicamente sanzionato: le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono state adottate ai sensi del cap. VII, e sono quindi direttamente vincolanti, ma non a caso manca in relazione ad esse la previsione di sanzioni esplicite e dirette (per l’UE il caso è in parte diverso, ma qui il fondamento dell’azione sta nel riconoscimento che è la sopravvivenza stessa dei valori comuni di civiltà dell’UE a essere chiamata in causa, per cui è assai più forte in essa la motivazione di autodifesa). Questo consenso rimarrà forte sino a quando sarà largamente determinato dall’emergenza ma, come si diceva all’inizio, esso ha nella sua globalità una delle principali cause di potenziale fragilità.
La caratterizzazione islamica del terrorismo internazionale è, almeno quantitativamente, un dato di fatto: una ulteriore deriva degli attuali focolai di crisi potrebbe aprire crepe difficilmente sanabili e mettere a nudo contraddizioni che, oggi, nessuno ha interesse a sottolineare. C’è poi l’atteggiamento, giustificato da considerazioni di sopravvivenza politica interna, di quegli Stati che si servono più o meno cinicamente della minaccia terroristica per invocare un impegno della comunità internazionale contro estremismi, fondamentalismi, movimenti eversivi religiosi e non, che ne pongono in discussione la legittimità interna e la credibilità internazionale. La distinzione fra terrorismo e movimenti di liberazione nazionale, che già tende a rientrare in una zona dagli incerti confini, si fa in questi casi ancora più confusa e non mancano le situazioni in cui l’invocato rispetto dei principi democratici viene utilizzato per avallare la repressione di forme di opposizione violenta, che è a volte difficile ritenere automaticamente terroristiche.
Che fare dunque? Non certo abbassare la guardia e rinunciare ma, forse, cercare di privilegiare una strategia a due direttrici; l’una, di breve periodo, di contrasto forte anche militare, l’altra di medio-lungo periodo, volta a creare le basi di un consolidamento democratico associato a un più equilibrato sviluppo economico-sociale. La globalizzazione delle economie ha imposto un modello produttivo e un sistema economico unico e vincente, quello delle democrazie liberali dell’Occidente, ma non ha per questo comportato l’automatica globalizzazione della democrazia, né l’accettazione non formale delle sue istituzioni e dei suoi obblighi.
Consolidare la democrazia vuol dire soprattutto creare istituzioni accettate e credibili: quello dell’institution building è uno dei compiti fondamentali della lotta al terrorismo. Esso coinvolge in prima battuta i paesi più industrializzati, che sono i soli in grado di fornire ad un tempo esperienza e mezzi a quanti devono ancora completare il cammino. A parole, nessuno dubita di questa priorità e le stesse risoluzioni delle Nazioni Unite mettono decisamente l’accento su tale aspetto; nella pratica, il discorso si fa più complesso. Da un lato, l’Occidente deve evitare di dare esca alla strumentale – ma non per questo meno sentita e pericolosa – denuncia di imperialismo culturale e di “neocolonialismo di ritorno” da parte dei paesi in via di sviluppo. Dall’altro, deve impegnarsi concretamente a mettere a disposizione la propria expertise, ma soprattutto risorse economiche aggiuntive per programmi di formazione e assistenza: l’institution building non è un’operazione a somma zero. Alla lunga, la coesione internazionale nella lotta al terrorismo richiederà un forte sforzo dei paesi più ricchi per attrezzare meglio quelli più poveri, non solo e non tanto sul piano degli strumenti di polizia e giudiziari ma, più in generale, su quello del consolidamento di istituzioni credibili: uno sforzo che dovrà avere per quadro di riferimento le Nazioni Unite e che dipenderà in maniera decisiva dalla volontà politica e dallo sforzo finanziario delle democrazie, e in primis dell’Occidente.
Antonio Armellini (2008)