Malvestiti, Piero
M. (Apiro, 1899-Milano 1964), dopo aver completato la propria formazione presso alcuni istituti religiosi, partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale ricevendo la croce di guerra al merito. Al rientro dal fronte, congedato per le gravi lesioni riportate nel corso del conflitto, iniziò a lavorare per la Banca popolare di Milano, riprendendo anche i contatti con le realtà associative cattoliche in cui era cresciuto. Attivo propagandista della Gioventù cattolica milanese, rifiutò di aderire alla sezione locale del Partito popolare sturziano, mantenendo tuttavia rapporti di collaborazione con il mondo sindacale e del lavoro. In particolare, l’attenzione verso quest’ultimo aspetto costituirà un tratto ricorrente del pensiero e dell’attività politica di M. La sua traduzione del riferimento al cattolicesimo nell’impegno pubblico rivelerà la forte influenza delle istanze solidali e sociali della Rerum Novarum di Leone XIII senza tuttavia mai declinare verso quelle tendenze di “sinistra regolare” che, invece, avrebbero caratterizzato altri filoni del cattolicesimo politico organizzato. Sarà, la sua, la ricerca di una soluzione cattolica alle questioni economiche e sociali attraverso l’affermazione della partecipazione alla gestione d‘impresa, della ripartizione degli utili senza penalizzare il sistema produttivo: in altre parole, il tentativo di affermare un modello economico solidale e sociale che non rinnegasse i presupposti del capitalismo, ma mirasse a correggerne gli errori e le inefficienze.
Gli anni tra le due guerre segnarono per M. un passaggio decisivo nella direzione di una riflessione più matura sul ruolo dei cattolici nello Stato. Deciso avversario del fascismo, non rinuncerà a contestare la linea conciliante della Chiesa sancita dalla firma del Concordato nel 1929, promuovendo un’opera di preparazione e crescita politico-culturale dei ceti potenzialmente antifascisti, ma rassegnati ad accettare la volontà totalizzante del regime. In questa direzione avrebbe scelto di fondare, nel 1928, il Movimento guelfo d’azione partendo dalla necessità di combattere il fascismo attraverso la sua condanna come «regime di classe» retto «sul sacrificio e sull’oppressione della classe lavoratrice». Lo slogan della propaganda del gruppo era sintetizzato nella formula «Cristo Re e Popolo-Popolo e Cristo Re», che esprimeva l’aspirazione a un ideale di democrazia identificato con i valori del cristianesimo, tuttavia non orientato a una cristianizzazione delle istituzioni e dello Stato. Il cattolicesimo non era di per sé una forza politica poiché, in quanto realtà spirituale, non in grado di formulare programmi o di identificarsi con un partito. Esso rimaneva, però, un principio cui gli uomini potevano ispirarsi, godendo di quel «punto di vista privilegiato sul mondo» che concedeva loro la possibilità di rispondere meglio di altri alle necessità di una società provata dalla dittatura e dalla guerra.
L’antifascismo cattolico del gruppo di Milano traeva la sua derivazione ideologico-culturale dal duplice richiamo alle tematiche proprie dell’intransigenza ottocentesco da una parte, e del cattolicesimo liberale lombardo di Jacini, Casati, Gallarati Scotti dall’altra. Un connubio originale e, a tratti, apparentemente contraddittorio che tuttavia avrebbe trovato una concreta attuazione nell’apporto che il gruppo avrebbe dato alla fondazione della Democrazia cristiana.
Per M. la collaborazione con Alcide De Gasperi sarebbe stata preceduta dalle persecuzioni subite da parte del fascismo, dalla condanna a 5 anni di reclusione emessa dal Tribunale speciale e dalla partecipazione attiva alla guerra partigiana. L’imminenza della caduta del regime creava le condizioni per dare concretezza a quel discorso ideologico-politico, nelle sue applicazioni di ordine economico e sociale, avviato nella clandestinità del ventennio e pronto per venire allo scoperto.
Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, a Borgo Valsugana, avevano così inizio i contatti tra i neoguelfi e gli ex popolari; nel luglio del 1943, M. diffondeva un documento, il Programma di Milano, che definiva l’impegno programmatico del movimento per la successione al regime. Nonostante l’affermazione del gruppo ex popolare alla guida della DC, M. non rinunciò, almeno fino alla inaugurazione della stagione centrista, a svolgere un ruolo dialettico e di critica concreta alla politica degasperiana. Consigliere nazionale, direttore, insieme a Luigi Meda, di “Democrazia”, periodico del gruppo parlamentare dell’Assemblea costituente, avrebbe messo a disposizione dell’impegno politico tutta la propria esperienza politica e professionale. Sottosegretario alle finanze nel IV governo De Gasperi, sottosegretario al Tesoro nel V e VI governo De Gasperi, ministro dei Trasporti nel VII, avrebbe rinunciato ad assumere dicasteri nell’ultimo esecutivo presieduto dallo statista democristiano per tornare all’Industria e commercio con Giuseppe Pella al fianco del quale si era già schierato negli anni precedenti contro quanti avevano criticato, dall’interno e dall’esterno, la sua linea economica.
Negli anni di governo avrebbe continuato a combattere le battaglie che lo avevano visto strenuo difensore, nelle file della stessa Dc, delle ragioni e dei diritti del lavoro. Nel processo di ricostruzione postbellica le logiche dell’economia capitalistica dovevano cedere il passo all’affermazione di una concreta democrazia economica che, stabilito il diritto costituzionale del lavoro e della difesa della proprietà privata, restituisse a quest’ultima la sua funzione sociale attraverso iniziative che garantissero una concreta libertà di accesso alla proprietà stessa. Diritti e libertà sarebbero stati concetti ai quali avrebbe ispirato tutta la sua attività politica. Anche all’interno del suo partito avrebbe difeso fino alla fine “il partito dei liberi”, degli uomini, delle idee contro gli apparati e le logiche correntizie che sembravano sempre di più incanalare la dialettica democristiana verso forme ed equilibri nuovi e non condivisibili.
Sarà proprio la successione di Amintore Fanfani a De Gasperi e, soprattutto, il successo della strategia politica di una parte della corrente di Iniziativa democratica nell’ascesa di Aldo Moro alla segreteria, a spingerlo ad allontanarsi dalla vita politica italiana e dedicarsi all’Europa.
Con l’entrata in vigore dei Trattati di Roma, avrebbe infatti assunto prima la vicepresidenza della Comunità economica europea (CEE), mantenendola fino al 1959, poi la presidenza l’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), cha avrebbe abbandonato, dimissionario, nel 1963.
L’impegno negli organismi comunitari gli avrebbe permesso di dare un più ampio respiro all’attuazione di programmi già enunciati negli anni precedenti e che lo avevano più volte visto confrontarsi con i problemi della ricostruzione e della stabilizzazione nazionali nella prospettiva di costruzione di un sistema di economie integrate (v. Malvestiti, 1963, pp. 3-42).
L’attenzione per l’attuazione del Mercato comune, la liberalizzazione dei commerci, il disarmo tariffario, l’eliminazione delle restrizioni quantitative non avrebbero fatto altro che confermare quanto la Comunità economica fosse una necessità nella quale non era più soltanto lecito sperare, ma che occorreva, ormai, volere. Unità economica e unità politica, Mercato comune e Comunità nel riconoscimento della prevalenza del lavoro senza compromettere la libertà politica e la libera iniziativa economica, l’Europa come mito di pace, di benessere e di libertà, in nome del quale scuotere le coscienze di popoli assopiti o egoisti per attuare la «vera democrazia» (v. Malvestiti, 1963, pp. 45-77). Nel corso del suo mandato avrebbe difeso più volte lo sviluppo armonioso degli scambi, l’Unione doganale e guardato con interesse a un progressivo coinvolgimento del Regno Unito negli istituti comunitari (v. Malvestiti, 1963, pp. 89-114).
Si tratta di aspetti che avrebbe ribadito, con maggiore forza, nei discorsi pronunciati come presidente della CECA nei quattro anni seguenti. Già nell’intervento di insediamento, il 23 settembre 1959, di fronte all’Assemblea parlamentare europea (v. anche Parlamento europeo), M. sottolineava il contributo determinante e innovativo dell’istituzione del nuovo organismo, evidenziando al contempo la necessità di potenziare il coordinamento tra le Comunità esistenti, prevedendo interventi graduali di riforme di struttura utili a definire le reciproche competenze e guidare lo sviluppo economico in vista di una seconda rivoluzione industriale. Nonostante le resistenze, la realizzazione dell’integrazione europea avrebbe rappresentato un obiettivo al quale egli stesso non avrebbe mai rinunciato (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Le radici della personale difesa dell’Europa, come egli stesso avrebbe più volte ricordato nel corso della presidenza, andavano ricercate in quel primo e comune impegno assunto dai neoguelfi già a partire dalla diffusione del Programma di Milano: impegno a costruire, nel quadro di una rinnovata società delle nazioni – espressione della solidarietà di tutti i popoli – una federazione degli stati europei retti a sistema di libertà (v. Malvestiti, 1959, p. 56-57) (v. Federalismo). Impegno al quale egli sarebbe rimasto fedele, assumendo la difesa dell’integrazione come principale preoccupazione della sua politica europea. In questa direzione, pur non tacendo le brusche frenate impresse all’unificazione, e non negando le imperfezioni tipiche delle opere umane, M. avrebbe sempre guardato con ottimismo alla volontà comune e al comune senso di responsabilità che avrebbe guidato i popoli europei sulla strada dell’Europa unità. Unità le cui premesse fondamentali andavano individuate nel coordinamento economico, condizione indispensabile per perfezionare la creazione di organismi politici, e nel coraggio e nella chiarezza di quanti, a partire da De Gasperi avevano lottato perché quell’obiettivo potesse essere raggiungibile (v. Malvestiti, 1959, pp. 353-361). Intervenendo in occasione del decimo anniversario dell’apertura del mercato comune del carbone e dell’acciaio avrebbe, infine, esplicitato il senso del lavoro per l’Europa: «perché i nostri popoli ritrovino insieme lo slancio verso più alte conquiste civili, in quella “fida cittadinanza”, in quel “riposato viver di cittadini” che Dante sognava» (v. Malvestiti, 1963, p. 369).
E nella chiusura dell’introduzione al volume dedicato alla costruzione dell’Europa, dato alle stampe appena un anno prima di morire, avrebbe espresso un augurio, che suona ancora come un monito: «Vorrei augurarmi che questo libro appartenga alla storia dell’Europa unita, e non resti una voce clamante nel deserto: ma di ciò saranno giudici gli europei di oggi, e soprattutto quelli di domani» (v. Malvestiti, 1963, p. IV).
Vera Capperucci (2012)