Mancini, Federico
M. (Perugia 1927-Bologna 1999) si laureò in giurisprudenza a Bologna con una tesi di diritto sindacale comparato e proseguì gli studi di diritto in Francia (a Bordeaux e Parigi), in Austria (a Salisburgo) e negli Stati Uniti (a Chicago).
Risale a quel tempo l’annodarsi di una forte ininterrotta amicizia intellettuale con Gino Giugni. I due si conobbero nell’autunno del 1950 a bordo della nave che li portava in America e da allora sarebbero stati fianco a fianco impegnati a dischiudere una nuova stagione del diritto del lavoro in Italia, recidendo quello che era stato, nella storia della disciplina, il legame col corporativismo fascista.
Nel 1951 a Bologna M. fu tra i fondatori della rivista “il Mulino”, del cui nucleo ispiratore avrebbe poi continuato a far parte, riconoscendosi più o meno sempre, se non nelle iniziative, certo nello spirito della rivista. Di qui alcune solidarietà profonde: col socialista Santucci, col liberale Matteucci, col cattolico Pedrazzi e con tantissimi uomini della cultura politica dell’Italia democratica.
Fondamentale nella formazione di M. e nella sua stessa carriera deve considerarsi il rapporto di collaborazione con Tito Carnacini: come assistente in facoltà e ancor più come segretario di redazione della prestigiosa “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, quella dei Bigiavi e dei Redenti. Importante, dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, per lui fu anche l’attività di visiting professor al Bologna Center of advancede international studies della Johns Hopkins University di Baltimora, dove, accanto a un corso di diritto del lavoro comparato, dal 1957 al 1976 M. tenne anche un corso di storia politica italiana dal fascismo all’attualità, quando negli atenei italiani la disciplina “storia contemporanea” ancora non annoverava professori ordinari.
Conseguita nel 1956 la libera docenza, nel 1962 M. vinse la cattedra di Diritto del lavoro all’Università di Urbino. Dopo un breve periodo fra Urbino e Ancona, venne chiamato a Bologna, dove avrebbe insegnato fino al 1979. Eletto dal Parlamento in seduta comune, su indicazione dei gruppi socialisti della Camera e del Senato, fu dal 1976 al 1981 componente del Consiglio superiore della magistratura, ricoprendo per due anni la cattedra di Diritto del lavoro della Università di Roma, per rientrare poi a Bologna nel 1982 come titolare della cattedra di Diritto privato comparato.
Studioso giusprivatista di diritto del lavoro, destinato poi nella esperienza lussemburghese a immergersi come giuspubblicista nel diritto comunitario, M. si dedicò soprattutto ai temi della “responsabilità contrattuale” e del “recesso”. Si trattava di sradicare la materia dalle tradizioni di corporativismo e a M. (come del resto a Giugni) premeva dimostrare rigorosamente, de iure condito non meno che de iure condendo, l’idoneità del contratto a farsi fonte di tutti gli obblighi del lavoratore e di tutte le prerogative dell’imprenditore. Al buon funzionamento dell’impresa e alla sicurezza del patrimonio aziendale, insomma, doveva bastare il contratto, senza bisogno di invocare fedeltà o comunità d’impresa.
Oltre che al corporativismo, M. si opponeva all’organicismo. Diffidava, cioè, della concezione del rapporto di lavoro imperniata sull’inserimento del lavoratore nell’impresa istituzione e, quindi, sul suo assoggettamento a poteri attribuiti dall’ordinamento direttamente all’imprenditore in funzione di un interesse superiore. La sua era una linea di rinnovamento in senso liberale della disciplina, nutrita di cultura angloamericana, vissuta in antitesi alla precedente generazione di studiosi di diritto del lavoro e a suo modo impregnata di valori e aspirazioni riconducibili al mondo del socialismo non marxista. Alla conclusione del contratto, il lavoratore secondo M. doveva essere in grado di vedere la coercizione e l’asimmetria originarie del rapporto con l’imprenditore piegarsi all’apprezzamento razionale dei costi e dei benefici di tale rapporto.
Socialista mai disattento alla realtà dei sindacati, soprattutto della Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (CISL), M. aveva apprezzato nel 1966 la riunificazione dei socialisti di Pietro Nenni con i socialisti di Giuseppe Saragat. Dieci anni dopo allo stesso modo avrebbe guardato con particolare simpatia alla segreteria di Bettino Craxi e al suo programma di socialismo liberale: fino a collaborare abitualmente con l’“Avanti!” e con “Mondoperaio” (la rivista diretta da Federico Coen e da Luciano Pellicani che ebbe allora un significativo rilancio nel dibattito politico nazionale).
Intanto, dall’interno del Consiglio superiore della magistratura, maturava in lui la sensazione di un «arrogante missionarismo» della magistratura organizzata, sostanzialmente condiviso dal Consiglio. Esso finiva così col tracimare ben oltre i propri confini costituzionali e col proporsi come una sorte di “terza Camera”. A M. parve allora necessario ritornare a quello che era stato il suggerimento di Piero Calamandrei alla Costituente: ridefinire più nitidi profili di responsabilità del pubblico ministero per arrivare finalmente a distinguere fra prerogative e carriere di chi giudica (secondo terzietà) e di chi accusa (come parte processuale).
Derivò da qui e si prolungò per otto mesi, fra il 1981 e il 1982, una sorta di estenuante “braccio di ferro” fra quanti in Parlamento – proprio per queste sue posizioni – volevano e votarono M. alla Corte costituzionale e quanti, invece, non lo volevano e non lo votarono (con identiche motivazioni) per almeno sei volte. Poi l’oggetto del “braccio di ferro” si sottrasse per dir così alla presa dei contendenti. Per Craxi e il suo partito, e a suo modo anche per il Parlamento, fu certo una battaglia perduta. Assai meno, anzi per nulla, per M., il quale vide aprirsi la prospettiva di diventare nel 1982 avvocato generale e nel 1988 giudice delle Comunità europee (v. Comunità economica europea).
Iniziò così, grazie al Diritto comunitario, quello che fu per tanti versi una seconda stagione della carriera di M. Come egli stesso ebbe a rilevare, «la cosa più affascinante che possa accadere a un giurista è collaborare alla formazione di un ordinamento giuridico nuovo». Sicché, al modo nel quale già gli era accaduto per il diritto del lavoro, M. pure in diritto comunitario sarebbe stato un innovatore: da provincia del diritto internazionale egli trasformò il diritto comunitario in itinerario obbligato del costituzionalismo democratico.
Da organizzazione internazionale sui generis a Stato federale possibile: questo il cammino lungo il quale per lui l’Europa doveva pensarsi e realizzarsi come grande appuntamento di democrazia (v. anche Federalismo; Funzionalismo). Del resto, proprio dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (CGCE) (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) fu definito il primato del diritto comunitario su quello nazionale, ovviamente nell’ambito delle Competenze trasferite, che è un tipico principio degli Stati federali, e riconosciuta la efficacia immediata non solo dei regolamenti, ma anche delle direttive europee (v. Direttiva), che secondo la lettera dei Trattati vincolerebbero solo gli Stati. Per diciassette anni a Lussemburgo, fino alla morte nel 1999, M. sarebbe stato protagonista della trasformazione della Comunità europea in Unione economica e monetaria e in qualche misura politica.
Costituzionalista, federalista, essenzialmente comparatista, egli aveva avvertito l’aggravarsi del Deficit democratico in Europa. Era come se questo male la Comunità lo avesse in sé fin dalle origini: nata come organizzazione internazionale, anziché come stato federale, la Comunità stentava a farsi meno “diplomatica” e più “democratica”. Dal Parlamento europeo eletto a suffragio universale dal 1979 (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) era venuta assai meno integrazione di quanto si fosse sperato (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della); la giurisdizione poteva far di più e per molti versi fu così. Senza abdicare alla speranza di una Comunità che approdasse un giorno ad una sua Convenzione di Filadelfia e proclamasse gli Stati Uniti d’Europa, M. avrebbe steso o ispirato sentenze che consentirono una Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee in materia di eguaglianza dei diritti che irrobustì il tessuto democratico dell’Europa: perché anche in Europa, per dirla col suo vecchio amico americano Ronald Dworkin, i diritti fossero davvero «presi sul serio».
Un anno prima della morte, alla presentazione dei due volumi di scritti in suo onore nell’aula magna della facoltà di giurisprudenza a Bologna, M. ebbe a ricordare come diritto del lavoro e diritto comunitario potessero dirsi nella sua vita distinti momenti “giuridici” di una stessa trama “giuridica”. “Dal diritto di frontiera al diritto senza frontiera”: questo era stato il suo percorso e questo il titolo di quel suo discorso di congedo (apparso poi in un fascicolo della “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”).
Luigi Compagna (2010)