Manifesto di Ventotene
L’appello Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto (più noto come Manifesto di Ventotene) venne scritto nel 1941 da due confinati antifascisti, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.
Rossi, militante di Giustizia e libertà, economista, liberale, in carcere dal 1930, aveva cominciato a riflettere sul problema dell’unificazione europea nel corso del 1936, sollecitato a ciò dagli avvenimenti internazionali che sembravano minacciare una nuova guerra. Nell’anno successivo approfondiva l’argomento con varie letture (Rossi aveva il permesso di poter corrispondere e ricevere letteratura economica dal suo maestro Luigi Einaudi) e metteva a punto una sorta di primo, ipotetico, programma d’azione. A partire da quel momento sempre più la federazione europea gli si presentava come un mezzo adeguato per superare i pericoli di guerra e affermare i principi liberali e democratici, come un obiettivo da perseguire prioritariamente allorquando si fosse profilata la possibilità di una ripresa della vita politica libera.
Trasferito al confino di Ventotene dal novembre del 1939, Rossi vi conobbe Spinelli, che si trovava colà da giugno. Spinelli, arrestato nel 1927 come attivista comunista, dal 1937 aveva lasciato il partito e stava rimeditando criticamente la propria esperienza politica.
L’incontro tra i due suscitò reciproci stimoli e sollecitazioni per uscire dall’isolamento e progettare future iniziative, fra le quali la creazione di una federazione europea acquistò ben presto un’importanza centrale.
Spinelli si appassionò all’argomento e cominciò a leggere la letteratura federalista posseduta da Rossi, in particolare lesse gli articoli che Luigi Einaudi aveva pubblicato tra il 1918 e il 1919 contro la Società delle Nazioni e a favore di una federazione europea, raccolti l’anno successivo in un volume intitolato Lettere di Junius, e il libro di Lionel Robbins sulle cause economiche della guerra (che Spinelli avrebbe successivamente tradotto). Inoltre, lesse anche il volume di Friedrich Meinecke sulla ragion di Stato.
Oltre alle letture e alle riflessioni solitarie, però, il tema della federazione maturava in accanite discussioni fra loro, discussioni che si allargarono poi ad altri confinati, coinvolgendo Eugenio Colorni, Ursula Hirschmann, Enrico Giussani, Dino Roberto, Giorgio Braccialarghe. Presumibilmente verso la fine del 1940, quando Rossi scrisse alla madre pregandola di mandargli una serie appunti sulla organizzazione degli Stati Uniti d’Europa stesi tre anni prima, i due amici decisero di preparare un documento politico da rendere pubblico.
La stesura del testo fu preceduta da lunghe conversazioni tra Rossi e Spinelli, che misero a punto con precisione gli argomenti da svolgere, la loro successione e spesso anche la formulazione vera e propria. Pensato in comune, il testo fu redatto asimmetricamente. La gran parte fu stesa da Spinelli, mentre Rossi scrisse la prima parte del capitolo terzo. Tuttavia nell’insieme il Manifesto rispecchiava una piena identità di vedute.
Una prima versione era pronta a giugno. Il testo venne fatto circolare tra i confinati, che proposero osservazioni e modifiche. I due autori procedettero quindi a una revisione che teneva conto della mutata situazione internazionale. Dopo l’attacco tedesco del 22 giugno 1941 l’URSS non era da considerare più come alleata dei nazisti, e le critiche ad essa formulate andavano espunte. Questa seconda versione fu preparata nell’agosto successivo. Il testo, portato in continente da Ursula Hirschmann, che in quanto moglie di Colorni e non confinata poteva viaggiare liberamente, circolò in varie forme (dattiloscritto, ciclostilato) prima di venire stampato nel primo Quaderno del Movimento federalista europeo a conclusione del convegno costitutivo del movimento tenutosi nell’agosto del 1943. La versione definitiva del Manifesto, però, sarà edita all’inizio dell’anno successivo a Roma da Eugenio Colorni, che vi appose anche una prefazione. Colorni operò una ulteriore risistemazione del testo, che passò da quattro a tre capitoli. Non si trattò però di una riscrittura: a parte pochi tagli (relativi alla politica dell’URSS e al Concordato del 1929) l’originario quarto capitolo fu diviso in due parti, che furono inserite rispettivamente nel corpo del secondo e del terzo capitolo. Tale versione fu approvata dagli autori ed è quella maggiormente diffusa e conosciuta.
Il Manifesto rispecchiava anzitutto la personalità e il sentire dei suoi autori in quella particolare temperie storica. In carcere Rossi aveva ripensato, alla luce della crisi economica, i fondamenti della teoria neoclassica e aveva ipotizzato un superamento di quelle che gli parevano le insufficienze dell’approccio tradizionale, che salvaguardasse però l’efficienza del mercato. La prospettiva europeista gli pareva offrire l’orizzonte necessario per uno sviluppo economico non inficiato dalle politiche autarchiche e protezioniste. Spinelli, per parte sua, trovò nella teoria federalista e nella meta della Unione europea una concezione politica e un ideale che erano di eguale suggestione rispetto alla teoria e all’ideale comunista, ma che non potevano degenerare nell’oppressione ideocratica. A questo ideale egli si mantenne sempre fedele nel corso della sua successiva attività pubblica.
L’analisi contenuta nel Manifesto era largamente influenzata dagli avvenimenti recenti. Il testo era un atto di accusa contro l’idea di nazione che da faticoso prodotto della storia era stato divinizzato, fino a diventare un Moloch implacabile a cui si sacrificavano le più indispensabili esigenze di libertà e di giustizia. Questa degenerazione nazionalistica trovava la sua esemplificazione massima nei regimi totalitari. Se il fascismo e il nazismo erano accomunati nella condanna, l’analisi era modellata, in primo luogo, sull’esperienza politica italiana. Da qui la denuncia del corporativismo come di un falso ideale, incapace non solo di risolvere i problemi della crescita economica ma foriero di un aumento dei privilegi e delle rendite parassitarie. Più in generale, però, il totalitarismo era descritto come una forma di civiltà reazionaria intrisa di dogmatismo autoritario, di militarismo aggressivo e di menzogna sociale organizzata.
Tuttavia, rispetto alla crisi della società moderna che questo regime rivelava, anche l’auspicabile ritorno alla libertà e alla democrazia, che si aspettava alla conclusione del conflitto, sarebbe risultato insufficiente se fosse rimasto all’interno dei quadri nazionali. La dimensione statal-nazionale era produttiva di guerre e non garantiva più né la crescita delle libertà democratiche né il loro ordinato svolgimento. Sotto questo profilo il testo – come riconoscerà anni dopo lo stesso Spinelli – era scritto in una prospettiva ancora eurocentrica, nella quale era prioritaria la necessità di scongiurare i pericoli di guerra che il tradizionale equilibrio europeo non era più in grado di contenere, perché corroso dallo spirito nazionalistico.
Fatta la tara degli elementi contingenti e personali, il Manifesto conteneva, però, una sostanziale novità. Esso non solo poneva l’unificazione europea come un obiettivo prioritario da perseguire in tempi ravvicinati, ma ne faceva il discrimine ultimo dell’universo politico. I partiti politici andavano giudicati progressisti o reazionari non in base a una maggiore o minore propensione democratica, bensì a seconda che accettassero o meno «come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale». Solo all’interno di questa nuova cornice sovranazionale si sarebbe potuto mettere mano a riforme efficaci anche dal punto di vista economico e sociale. A tal proposito il Manifesto enunciava un insieme di obiettivi auspicabili (lotta ai monopoli, eguaglianza dei punti di partenza, riforma agraria, minimo vitale da garantire a tutti) che dovevano realizzarsi in un quadro di consolidata libertà economica, non disgiunta, però, «da un forte senso di solidarietà sociale». Il Manifesto, inoltre, metteva in luce la nuova «linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari». Questa demarcazione non si pone più «lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire» all’interno dello Stato nazionale, ma «lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine […] la conquista del potere politico nazionale […] e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale».
Il Manifesto era animato da uno spirito prometeico che sfociava in un atteggiamento giacobino. La fine della guerra avrebbe portato a una crisi rivoluzionaria nella quale sarebbe stato possibile imporre rapidamente, sulle macerie delle nazioni distrutte, una soluzione federalista. Per questo fine sarebbe stato necessario forgiare un partito rivoluzionario che Spinelli tratteggiava con accenti che echeggiavano il modello di partito di rivoluzionari di professione di cui aveva una diretta esperienza. Tuttavia queste asprezze si spiegano con la condizione da statu nascenti che percorre il documento, ma non ne inficiano il grande valore innovativo. Tant’è vero che il Manifesto resterà come motivo ispiratore dell’azione federalista, e in generale europeista, anche quando, a guerra conclusa, la costruzione dell’Unione europea prenderà strade molto diverse.
Maurizio Griffo