Martino, Gaetano
M. (Messina 1900-Roma 1967), proveniente da una famiglia di tradizioni liberali, si laureò alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Roma (1923), specializzandosi in istituti e cliniche di Berlino, Parigi, Francoforte e Londra e avviandosi a una brillante carriera scientifica. Dal 1930 al 1933 insegnò Fisiologia umana negli atenei di Asunción in Paraguay e di San Paolo in Brasile e dal 1934 fu nuovamente a Messina come docente di Chimica biologica e poi di Fisiologia umana. Dell’Università di Messina fu rettore dal 1943 al 1954. Nel 1957 passò a insegnare all’Università “La Sapienza” di Roma dove diresse l’Istituto di fisiologia umana e nel 1966 venne eletto con voto plebiscitario rettore della stessa università. Con la sua attività di ricerca, realizzò innovativi studi nel campo della neurofisiologia, dando vita, tra l’altro, a una ricca produzione scientifica.
L’ingresso di M. nella vita politica si colloca nell’immediato dopoguerra, con l’elezione a deputato all’Assemblea costituente (1946) nelle liste dell’Unione democratica nazionale. Iscrittosi nel 1947 al Gruppo parlamentare liberale della Camera, entrò a far parte del primo Parlamento repubblicano (1948) e venne rieletto per tutte le legislature successive fino alla sua scomparsa. Ricoprì le cariche di vicepresidente della Camera (1948-1954) e di presidente della VI Commissione Istruzione e belle arti (1948-1953). Nominato ministro della Pubblica istruzione nel governo presieduto da Mario Scelba (1954), lascerà questo incarico nel settembre dello stesso anno per sostituire Attilio Piccioni al ministero degli Affari esteri. Verrà poi riconfermato in questa carica nel luglio 1955 da Antonio Segni, insediatosi alla guida del governo, e la manterrà fino al maggio 1957.
In qualità di ministro degli Esteri, M. si trovò a operare in un contesto internazionale segnato, a metà degli anni Cinquanta, da un lato dall’avvio del disgelo successivo alla morte di Stalin e, dall’altro, dalla battuta d’arresto dei progetti di unificazione europea seguita al fallimento della Comunità europea di difesa (CED). Convinto che il fine ultimo della politica estera italiana restasse l’unità dell’Europa, egli si adoperò innanzitutto per dare forma e concretezza a questo obiettivo. Il contesto generale europeo costituiva infatti, a suo avviso, l’ambito nel quale andavano inquadrati i problemi specifici dell’Italia, nella certezza che la soluzione di questi ultimi sarebbe stata possibile solo in condizioni di solidarietà e di collaborazione internazionale. Pertanto, all’indomani dell’insuccesso dei tentativi di creare un’unione europea sovranazionale, M. fu tra coloro che si sforzarono di cercare forme diverse di accordo per riavviare il processo di integrazione europea in una direzione diversa rispetto al passato (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).
L’elaborazione di un progetto alternativo a quello della CED, che permettesse ai paesi europei di superare le reciproche diffidenze e arrivare a un’intesa, venne discussa nella conferenza di Londra del settembre-ottobre 1954. Questo incontro vide riuniti, oltre ai ministri degli esteri dei sei paesi membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), anche il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Canada. Consapevole delle difficoltà che avevano impedito la realizzazione della CED, M. svolse, in tale occasione, soprattutto un’opera di mediazione tra le diverse posizioni che si fronteggiarono.
Il risultato della conferenza, che segnò la nascita dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), costituiva per il ministro un progresso effettivo sulla strada della cooperazione. Egli non escludeva, infatti, che la nuova organizzazione, al di là della sua natura di mera alleanza difensiva, potesse svolgere una funzione propulsiva dell’integrazione. In un momento di cauta ripresa del dialogo, era importante soprattutto trarre insegnamento dalle cause del fallimento della CED, «una delle soluzioni più anticipatrici dell’avvenire che espressive del presente» e «ricercare una nuova forma di organizzazione della solidarietà occidentale […] che, a differenza della precedente, potesse avere il consenso di tutti i paesi interessati» (v. Martino, 1977, vol. I, p. 425).
La nuova organizzazione, inoltre, restituendo alla Repubblica Federale Tedesca la propria sovranità e concedendole il diritto a disporre di forze militari limitate, aveva compiuto un atto di pacificazione e di garanzia della sicurezza collettiva. M. aveva sempre sostenuto, infatti, in interventi al Parlamento italiano e alle riunioni del Consiglio atlantico, la necessità di inserire la Germania nell’alleanza dei paesi occidentali, affinché essa potesse contribuire alla difesa comune. La limitazione concordata degli armamenti creava, inoltre, le condizioni per una Riunificazione tedesca, essenziale in quanto la divisione della Germania costituiva un pericoloso fattore di instabilità per l’Europa.
Infine, sempre in sede di dibattito parlamentare, alle critiche di quanti vedevano nella neutralità una possibile soluzione ai problemi di sicurezza dell’Italia, egli rispondeva che un isolamento del paese avrebbe significato la fine non solo della sua partecipazione alla vita politica internazionale, ma anche della sua indipendenza. L’adesione alla UEO avrebbe dunque contribuito a consolidare la posizione internazionale dell’Italia.
Oltre che per queste ragioni, la conferenza di Londra si era conclusa positivamente anche per la soluzione del principale problema lasciato aperto dal trattato di pace, quello del ritorno di Trieste all’Italia. Nonostante il loro carattere transitorio, M. considerava gli accordi sottoscritti a Londra come un «effettivo contributo alla costruzione della pace» in quanto consentivano di chiudere la «triste contabilità della guerra» (ivi, pp. 433-434).
La ripresa del dialogo sull’unità europea si concretizzò, di lì a poco, nella decisione di convocare una riunione dei sei paesi membri della CECA per discutere la possibilità di un rilancio politico dell’Europa partendo dall’integrazione economica. Il progetto, basato sul memorandum del Benelux (presentato nel maggio 1955), prevedeva la creazione di un mercato comune dell’economia europea e di un organismo per il controllo e l’utilizzo pacifico dell’energia atomica. M. propose e ottenne che tale incontro si svolgesse nella sua città natale, nella certezza che esso costituisse un’occasione importante per un rinnovamento della politica europeistica. Rispetto alle due tendenze che si confrontarono alla Conferenza di Messina (1-3 giugno 1955), quella favorevole a una graduale integrazione settoriale dell’economia e quella, che prevarrà, favorevole a un’integrazione “orizzontale”, la posizione italiana si delineava in un memorandum presentato da M. il 2 giugno. Esso appoggiava innanzitutto l’idea di un’integrazione economica globale e, rivolgendo lo sguardo ai problemi specifici dell’Italia, auspicava anche un’attiva politica europea in materia di lavoro, la libertà di movimento per la manodopera e la costituzione di un fondo europeo di investimenti per programmi di aiuto – la futura Banca europea per gli investimenti (BEI).
Dopo Messina, il ministro svolse un ruolo primario anche nell’ambito delle trattative che avrebbero portato alla firma dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom). In tali occasioni, egli si adoperò con successo perché si affermassero principi importanti per l’economia italiana e confermò la sua capacità di mediare tra le parti per il raggiungimento di un’intesa.
M. difese, inoltre, in più occasioni i risultati raggiunti a Messina dalle critiche di coloro che guardavano con scetticismo al Mercato comune (v. Comunità economica europea). Poco prima di apporre la sua firma ai Trattati di Roma (25 marzo 1957), egli sottolineò, durante il dibattito parlamentare, il significato rivoluzionario per la storia europea delle due istituzioni che si andavano creando: il Mercato comune e l’Euratom creavano le necessarie premesse di un’Europa comune anche sul terreno politico. A suo avviso, infatti, la costruzione di un’Europa politica che potesse «imprimere il suo sviluppo alla ruota dello sviluppo mondiale» (ivi, vol. II, p. 740) era inscindibile da quella di un’Europa efficiente dal punto di vista economico, come organismo produttivo che sapesse assicurare il benessere dei popoli. Estranea alla sua concezione era poi l’idea di un’Europa come terza forza tra Stati Uniti e Unione Sovietica o neutrale, in quanto «visione arcadica e pastorale […] di una Europa isolata e immobilizzata nella conservazione di un pittoresco costume» (ibid.). In questo modo egli ribadiva anche la necessità dell’appartenenza dell’unione europea al blocco atlantico: «Nel nostro concetto l’azione per l’unificazione dell’Europa non solo non è separabile dall’azione intesa a preservare e perfezionare gli strumenti della solidarietà atlantica, ma ne costituisce il necessario completamento» (ibid.). In tal senso, il processo di integrazione europeo, lungi dall’essere considerato un fine a sé stante, era visto come elemento costitutivo di un processo più ampio.
Infine, per M. la conferenza aveva avuto il merito di lanciare un messaggio che ridesse concretezza all’ideale europeo. Allo stesso tempo, il “rilancio europeo” era uno dei mezzi che avrebbe permesso all’Italia di acquisire la necessaria credibilità sul piano internazionale per poter influire sui futuri negoziati.
Negli stessi anni, intensa fu l’attività del ministro per assicurare all’Italia una presenza attiva anche in altre organizzazioni intergovernative che non fossero solo quelle europee. L’ingresso dell’Italia nell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) del dicembre 1955, obiettivo perseguito dalla diplomazia sin dall’epoca del trattato di pace, fu reso possibile anche dal nuovo clima registratosi all’indomani della conferenza di Ginevra (luglio 1955). M., che anche in questo caso si era attivato per esercitare un’opera di mediazione che portasse a un compromesso, così commentò l’evento al Senato: «L’ingresso dell’Italia nel massimo consesso internazionale consacra dal punto di vista giuridico una situazione di fatto in base alla quale l’Italia era partecipe delle più importanti attività dell’ONU pur non facendone formalmente parte. Noi non possiamo non rallegrarci dell’evento che ha il significato non tanto dell’attribuzione di un diritto troppo a lungo disatteso quanto del riconoscimento della nuova posizione e del prestigio raggiunti dall’Italia nel campo internazionale. Ora, lasciato il passato alle spalle, è necessario guardare avanti» (ivi, vol. II, p. 626).
Tra i compiti precipui dell’ONU, oltre all’azione politica per risolvere pacificamente le controversie, M. annoverava anche un’azione a carattere economico-sociale diretta a migliorare le condizioni di vita dei paesi più arretrati. L’obiettivo della pace era raggiungibile, infatti, solo promuovendo il progresso civile dei popoli. E la rivendicazione del diritto dell’Italia di entrare a far parte di questo organismo era vista come lo sforzo di collaborare al suo potenziamento. La partecipazione ufficiale all’attività delle Nazioni Unite costituiva, inoltre, anche un’opportunità per il paese di esercitare un ruolo di primo piano negli eventi contemporanei. M. riteneva iniquo, infatti, che l’Italia venisse esclusa dalla cooperazione delle potenze occidentali per risolvere le questioni più urgenti che si presentavano in ambito internazionale.
La delegazione italiana prese parte per la prima volta ai lavori dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nell’autunno del 1956, in occasione delle due sessioni straordinarie convocate per discutere le crisi mediorientale e ungherese e nella XI sessione ordinaria. M. parlò per la prima volta all’Assemblea generale nel novembre 1956, riaffermando la sua fiducia nell’operato dell’ONU. Già precedentemente, nell’esporre alla Camera e al Senato le posizioni italiane sulle due questioni, egli aveva dichiarato la piena disponibilità del governo a dare appoggio all’azione delle Nazioni Unite, consapevole che il presupposto del successo di questo consesso internazionale fosse innanzitutto «la solidarietà dei paesi democratici» (ivi, p. 712). Quella solidarietà era stata messa a dura prova, infatti, dagli eventi svoltisi con il riacutizzarsi della tensione in area mediterranea. Pur rivendicando una maggiore incisività del contributo italiano a mantenere la pace con iniziative autonome, era pertanto necessario, a suo avviso, evitare ogni forma di attrito che potesse ulteriormente mettere in discussione la saldezza dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic Treaty Organization, NATO).
Ai fini di un rafforzamento dell’Alleanza, era essenziale innanzitutto un chiarimento dei suoi compiti. M. riteneva, infatti, che la collaborazione militare, pur essendo la prima e più urgente necessità, non sarebbe bastata da sola a garantire la sicurezza dei paesi occidentali. A questo scopo era necessario anche sviluppare la cooperazione economica e individuare strategie che consentissero il progresso e la comprensione tra i popoli. Questo obiettivo vedrà M. impegnato, assieme ai ministri degli Esteri canadese Lester B. Pearson e norvegese Halvard Lange, in un “Comitato dei tre saggi”, da lui stesso proposto al Consiglio atlantico di Parigi nel maggio 1956. Il Comitato era incaricato di formulare proposte dirette ad ampliare la cooperazione degli stati membri dell’Alleanza ai settori non militari, come prevedeva l’articolo 2 del Patto atlantico. Il rapporto sulla cooperazione non militare sarà pubblicato nel dicembre dello stesso anno.
Rilevante fu poi l’attività diplomatica diretta a stabilire nuovi rapporti con i paesi asiatici, verso i quali si dimostrava una maggiore apertura. A questo scopo, M. compì un lungo viaggio che si svolse in due fasi distinte fra il novembre 1955 e il gennaio 1956. La prima tappa lo portò in Giappone, che come l’Italia attendeva di essere ammesso all’ONU, mentre le tappe successive lo vedranno a Hong Kong e Bangkok. In occasione della seconda parte del viaggio, avvenuta subito dopo l’ingresso dell’Italia nell’ONU, egli si recò in Pakistan e in India. Particolarmente significativa venne considerata la visita in quest’ultimo paese, dato il recente peggioramento dei rapporti con esso. L’Italia, infatti, coerentemente con l’interpretazione americana, aveva criticato la scelta di non allineamento compiuta da Nehru in occasione della conferenza di Bandung. Gli incontri tra M. e il leader indiano, che già nel luglio 1955 si era recato in Italia, pur non generando prese di posizione comuni, contribuirono comunque a mitigare il contrasto con l’India neutralista.
Lasciata la Farnesina nel maggio 1957, M. proseguì la sua attività diplomatica anche al di fuori del governo. Fu a capo della delegazione parlamentare italiana alla XV e XVI Assemblea generale dell’ONU (a New York nel 1960 e 1961), affrontando in tali occasioni la questione del ricorso austriaco sull’Alto Adige. Partecipò inoltre ai negoziati sul disarmo che, assieme al dialogo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, egli riteneva assolutamente necessario per la costruzione della pace.
Dal 1962 al 1964 fu presidente dell’Assemblea parlamentare, che modificherà il suo nome in Parlamento europeo. Anche in questo ruolo diede un contributo importante all’edificazione dell’unità dell’Europa, convinto della necessità di un parlamento eletto a suffragio universale per la costruzione delle Istituzioni comunitarie. Si impegnò inoltre a consolidare il dialogo tra il Parlamento europeo e i singoli parlamenti nazionali dei paesi membri, promuovendo incontri tra questi organi istituzionali. Con il primo incontro, che si tenne a Roma nel gennaio 1963, venne proposto di costituire in ogni paese una commissione per gli affari europei e di tenere annualmente dibattiti sullo stato dell’integrazione europea.
Nunzia Guardigli (2010)