Dopo aver partecipato alla guerra e in un primo tempo alla Repubblica di Vichy, M. (Jarnac 1916-Parigi 1996) divenne un dirigente della Resistenza e come tale fu membro del governo provvisorio di Charles de Gaulle all’indomani della liberazione di Parigi nel 1944. Eletto deputato nel 1946, aderì all’Union démocratique et sociale de la Résistance, un partito che aveva come punto qualificante del suo programma la rivendicazione dell’“unità europea”. Due anni dopo, durante i lavori del Congresso dell’Aia, maturò “un grande disegno”: impedire che l’Europa cadesse di nuovo in guerra e trasformare la secolare inimicizia tra Francia e Germania in un’alleanza per far rinascere il vecchio continente. Diventato ministro (dei reduci ed ex combattenti), aderì al Movimento europeo e nel novembre 1948 rappresentò il governo francese al Congresso di Roma dell’Unione europea dei federalisti (UEF), assieme a Eugen Kogon, Hendrik Brugmans, Alexandre Marc e Altiero Spinelli. Nel 1950, come ministro della Francia d’oltremare, cercò di stringere il legame tra le colonie, Parigi e gli altri paesi europei, non facendo mancare il proprio appoggio alle diverse coalizioni governative che prepararono il trattato di Parigi del 1951. Infine, nel 1953 ricoprì l’incarico di ministro delegato al Consiglio d’Europa nel governo guidato da Joseph Laniel.
Quello del M. della Quarta repubblica era un europeismo liberoscambista, favorevole a un rapido abbattimento delle frontiere doganali tra i paesi dell’Europa occidentale. Assai forte era in lui la connotazione filoatlantica, per cui la costruzione europea doveva realizzarsi con la collaborazione strettissima degli USA, sì da fronteggiare il comune nemico sovietico. Il giovane ministro non adottò però posizioni federaliste (v. Federalismo); la sua idea dell’Europa delle nazioni non era in quel momento molto diversa da quella di de Gaulle. Molto tiepido verso il progetto di un esercito europeo, nel 1954 si oppose alla Comunità europea di difesa (CED), scrivendo più tardi che l’approvazione della CED avrebbe creato un’“Europa dei marescialli”. Fu una battaglia che servì anche al suo posizionamento dentro la sinistra di Pierre Mendès France, nel cui governo divenne ministro dell’Interno. Neppure il successivo incarico di ministro Guardasigilli, nel governo guidato da Guy Mollet, lo portò a occuparsi degli affari europei, anche se nell’esecutivo fu uno dei più entusiasti sostenitori dei Trattati di Roma, firmati proprio da Mollet. Negli interventi in Consiglio dei ministri M. insisteva sulla riconciliazione tra la Francia e la Germania e sulla necessità per i paesi dell’Europa occidentale di creare un comune spazio economico. Nello stesso periodo aderì alla Gauche européenne, un gruppo interno al Movimento europeo, presieduto dal deputato socialista Gérard Jacquet, nel cui comitato direttivo sedevano, oltre a M., il socialista André Philip e il radicale Maurice Faure.
Il crollo della Quarta repubblica rischiò per qualche tempo di emarginare M., avversario fin da subito di de Gaulle. Nel diventare oppositore del generale, M. mise in rilievo il proprio europeismo contro la politica estera della Quinta repubblica accusata di nazionalismo. Criticò così come riduttivo l’asse stretto tra il presidente francese e il cancelliere tedesco-occidentale Konrad Adenauer e soprattutto i veti gollisti al Regno Unito; temi che furono toccati anche nella campagna presidenziale del 1965 con la quale M. portò de Gaulle al ballottaggio. A capo della Fédération des Gauches démocrates et socialistes, un cartello che univa socialisti, membri dei club, radicali e democratici di sinistra, si batté per l’Allargamento del mercato comune europeo e per il rientro della Francia nel comando integrato dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO); proposte che rischiavano di turbare i rapporti con il Partito comunista francese (PCF), con cui M. cominciò a dialogare, malgrado l’ostilità dei comunisti all’Europa, giudicata un semplice strumento dell’Alleanza atlantica.
La schiacciante vittoria gollista nelle elezioni per il rinnovo del parlamento del 1968 rese marginali le possibilità di vittoria di M. nelle presidenziali dell’anno successivo, in cui neppure si presentò. Tutti i suoi sforzi negli anni successivi furono dedicati a rifondare il vecchio partito socialista – nel 1971 al Congresso di Epinay – e di allearsi con il PCF nel 1972. Proprio sul tema dell’Europa quest’alleanza rischiò subito di infrangersi, quando nel 1973 il Presidente della Repubblica Georges Pompidou sottopose a referendum l’ingresso del Regno Unito e della Danimarca nella Comunità europea. La posizione di M. e del Partito socialista era delicata, visto che il Px invitò a votare contro, mentre i socialisti, da sempre favorevoli all’allargamento del Mercato comune, non potevano certo permettersi di gettare all’aria più di vent’anni di politica europea in nome di un’alleanza ancora fragile. M. uscì dall’impasse con uno stratagemma tattico che rivelava le sue doti di “fiorentino” (e di ipocrita, secondo i suoi detrattori); rivendicò le proprie convinzioni europeistiche e quelle dei socialisti, ma accusò il referendum di strumentalità e spiegò che il PSF si sarebbe astenuto dal referendum, invitando i francesi a comportarsi allo stesso modo.
Nelle elezioni presidenziali del 1974 M. trovò di fronte a sé un candidato, l’ex ministro delle Finanze Valéry Giscard d’Estaing, sincero europeista e da sempre polemico con de Gaulle per la sua opposizione al Regno Unito. A questo punto, per differenziarsi, l’europeismo di M. dovette caricarsi di tinte ideologiche. Se quella di Giscard era una “Europa dei capitalisti” e delle multinazionali, i socialisti dovevano battersi per istituzioni che favorissero un controllo sull’economia e sulle finanze. Un obiettivo da perseguire attraverso il rafforzamento dei Partiti socialisti dell’Europa occidentale, proprio il compito che M. intraprese dopo essere stato sconfitto di misura da Giscard, iniziando una serie di incontri sempre più frequenti con il cancelliere tedesco occidentale Willy Brandt, il premier svedese Olaf Palme e quello austriaco Bruno Kreisky per costruire un “socialismo europeo”. Questa progetto venne però ostacolato dal nuovo cancelliere tedesco, il socialdemocratico Helmut Schmidt, deciso a rilanciare con Giscard l’asse franco-tedesco che portò prima alla Convenzione di Lomé (v. Convenzioni di Lomé) poi all’istituzione del Sistema monetario europeo (SME) e alle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo.
Per la successiva sfida alle presidenziali del 1981, M. inserì nel suo programma la richiesta di una nuova “costruzione europea” per affrontare le “sfide del XXI secolo”, anche se il tema Europa rimaneva marginale rispetto all’attenzione dedicata soprattutto al rafforzamento della potenza nazionale francese; un “socialismo alla francese” teorizzato dal leader della sinistra socialista, Jean-Pierre Chevènement, ostile a Bruxelles quanto e forse più degli stessi comunisti. Per questo un europeista convinto come Schmidt fece più volte capire durante la campagna presidenziale di preferire la vittoria del conservatore Giscard a quella del socialista M. Non del tutto a torto, visto che i primi passi in politica estera di M. appena eletto all’Eliseo furono piuttosto rivolti a dare un’immagine della Francia in quanto paese difensore dei popoli sfruttati del Terzo mondo, come testimonia la visita del presidente francese in Messico subito dopo la sua elezione. La stessa evocazione di uno “spazio sociale europeo” atteneva alla propaganda più che al registro delle proposte concrete. Una posizione mal tollerata dagli USA, che già avevano protestato contro l’inserimento di ministri comunisti nel governo guidato da Pierre Mauroy. Ma l’antiamericanismo francese del 1981-1982 era più retorico che effettivo: M. era rimasto un atlantista, convinto che durante la “seconda Guerra fredda”, il pericolo principale per la pace e per l’Europa venisse dall’Unione sovietica. Nonostante fosse ancora in secondo piano, la costruzione europea restava un obiettivo costante, anche per il rafforzamento del blocco occidentale.
M. si convinse che l’edificazione dell’Europa comunitaria potesse essere perseguita solo da una Francia e da una Germania solidamente alleate; perciò, nonostante i pessimi rapporti con Schmidt, come di prammatica il cancelliere tedesco fu il primo a essere invitato all’Eliseo dopo l’elezione del presidente. L’asse franco-tedesco si rafforzò però solo a partire dal 1983, quando alla Cancelleria di Bonn salì il cristiano democratico Helmut Kohl e quando le difficoltà sul fronte monetario del governo francese divennero insormontabili. Di fronte alla grave crisi finanziaria del paese, il gabinetto presidenziale e il governo Mauroy si spaccarono al loro interno: la sinistra socialista di Chevènement, i comunisti e il segretario particolare del presidente, Pierre Bérégovoy, proposero l’uscita dallo SME, mentre Mauroy, il ministro delle Finanze Jacques Delors e il primo consigliere di M., Jacques Attali, chiesero di restare nel circuito monetario europeo. Non era una scelta di secondo piano, poiché l’uscita dallo SME avrebbe evitato pesantissimi piani di rigore finanziario colpendo però a morte la costruzione europea. Dopo mesi di tentennamenti, M. decise di mantenere il franco nello SME, non prima di aver raggiunto un accordo con Kohl e con la Bundesbank che fece nascere una strettissima intesa diplomatica.
Fu, quella del presidente francese, una decisione tormentata perché impose drastici piani di rigore che colpirono soprattutto gli elettori della sinistra e bloccarono le riforme promesse nella campagna elettorale nel 1981. Era già entrato in crisi il “socialismo alla francese” con cui M. aveva vinto le elezioni appena due anni prima; la sola grande occasione per far giocare un ruolo internazionale alla Francia consisteva ormai nell’accelerare l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Una volta recuperata l’antica, ma mai sopita, passione europeista, ben anteriore alla sua conversione al socialismo, M. si impegnò affinché le Istituzioni comunitarie allargassero il proprio spazio di manovra, con l’obiettivo di governare il capitalismo; uno spazio che l’economia globale stava ormai sottraendo agli Stati nazionali. L’europeismo mitterrandiano degli anni Ottanta si differenziò così da quello liberoscambista e atlantista degli anni Cinquanta e da quello keynesiano degli anni Settanta. Si trattava ora di costruire un modello sociale europeo come sintesi tra le grandi culture politiche dell’Europa, il socialismo, il cattolicesimo democratico e il liberalismo che, attraverso le istituzioni dell’Europa comunitaria, avrebbe assicurato una regolazione sociale del mercato. Da quel momento M. cominciò a ragionare in termini di istituzioni europee, a considerare l’Europa occidentale un insieme di paesi con comuni interessi in ambito economico e persino militare.
Proprio la difesa dell’Europa occidentale era diventata fondamentale. M. sapeva quanto i paesi della Comunità economica europea (CEE) avessero bisogno degli USA, ma nello stesso tempo era certo che presto o tardi Washington avrebbe smesso di “proteggerli”. Inoltre, una vera e propria politica estera dell’Europa comunitaria sarebbe stata autorevole solo mostrando di avere la capacità e i mezzi di difendersi. Per il momento, tuttavia, era prioritario schierarsi con gli USA a difesa dell’Europa. Già nel 1979, quando l’URSS aveva puntato i missili SS 20, M. aveva vivacemente protestato. Quando poi alcuni paesi europei, tra cui la Repubblica Federale Tedesca (RFT) e l’Italia, decisero di accettare l’installazione sul loro territorio di nuove basi missilistiche, M. approvò con soddisfazione, benché la Francia non fosse toccata dalle decisioni data la sua posizione esterna al comando integrato NATO. Nel 1983 M. rafforzò il legame con gli USA e si fece il promotore del riarmo nucleare in funzione della difesa europea. Nel gennaio intervenne al parlamento di Bonn a favore dell’“equilibrio strategico tra est e ovest” e appoggiò Kohl nella decisione, contestata in quel momento dai socialdemocratici e dai movimenti pacifisti, di installare i missili Pershing. Pochi mesi dopo, in una visita ufficiale in Belgio, fece capire ancor più quali fossero le sue idee quando lanciò la celebre formula «il pacifismo è a Ovest, gli euromissili sono ad Est».
Definito il quadro strategico, M. si impegnò in prima persona per superare le divisioni emerse nel Consiglio europeo di Atene. Dalla nascita dello SME e dalla prima elezione a suffragio universale del Parlamento europeo non si erano fatti grandi passi in avanti, soprattutto per l’ostilità del primo ministro britannico, Margaret Thatcher. Il premier conservatore chiedeva con forza di ridefinire le quote di finanziamento del Regno Unito alla CEE, convinta non del tutto a torto che il proprio paese contribuisse al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) assai più di quanto ne profittasse. Anche sulla questione dell’allargamento alla Spagna e al Portogallo la CEE era del tutto bloccata, sia dalla precedente freddezza di Giscard che dal nuovo governo socialista spagnolo di Felipe González, intenzionato ad aderire alla CEE ma al contempo ad uscire dalla NATO. M. capi che le querelle dovevano essere superate disegnando un profilo forte della Europa in costruzione, rafforzando l’intesa con la Germania e facendo avvicinare a questo asse paesi come l’Italia e la stessa Spagna, un compito facilitato dalla comune appartenenza dei tre leader, M., Bettino Craxi e González, all’Internazionale socialista.
Per risolvere il problema del contributo britannico, M. cercò di isolare il Regno Unito attraverso una serie di incontri bilaterali con i vari leader dei paesi CEE nei primi mesi del 1984. Dopo il fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles del marzo 1984, nessuno poteva prevedere come si sarebbe chiuso il Consiglio di Fontainebleau previsto per giugno (v. Accordi di Fontainebleau). A dispetto dei pronostici negativi e dell’atmosfera del primo giorno, con una Thatcher che confessava ai giornalisti di essere pervasa da “umore nero”, nella reggia cinquecentesca francesi e tedeschi riuscirono non senza fatica a trovare un accordo con i britannici sulla quota di finanziamento alla CEE. Fontainebleau sbloccò (almeno per il momento) l’ostilità di Londra, accelerò il processo di allargamento a Spagna e Portogallo, consentì la formazione di un gruppo di lavoro per nuovo trattato comunitario (la commissione di James Dooge) e impostò un piano di leggi comuni su educazione, sanità e ricerca.
Aveva tenuto l’asse M.-Kohl: grazie a questa intesa, il Consiglio europeo del giugno 1984 gettò le fondamenta delle decisioni comunitarie degli anni successivi. Con Jacques Delors, fortemente voluto da M., alla guida della Commissione europea si accelerarono i piani mitterrandiani di rafforzare il più rapidamente possibile la Comunità dotandola di istituzioni più solide. Al Vertice (v. Vertici) di Milano, nel giugno 1985, tutti poterono rendersi conto dei passi avanti fatti in poco più di un anno, a partire dal Trattato di Schengen sulla libera circolazione firmato pochi giorni prima. Proprio a Milano, Delors e M. esposero il loro progetto: perseguire fino in fondo gli obiettivi del Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) del 1957, istituire un grande mercato unico europeo con una sola moneta; un mercato “sociale”, regolato dalle istituzioni e da una legislazione comunitaria, come previsto dal Libro bianco (v. Libri bianchi) redatto dal Presidente della Commissione europea. Queste proposte trovarono una prima forma nel dicembre 1985, al Consiglio europeo di Lussemburgo, sotto forma di Atto unico europeo. Anche in questo caso la collaborazione strettissima tra M. e Kohl ebbe la meglio sulla esplicita opposizione della Thatcher.
Il tema del “grande mercato europeo” era talmente cruciale per M. che egli lo mise al centro della sua campagna presidenziale dell’88, assieme allo slogan, coniato due anni prima, “la Francia è la nostra patria, l’Europa il nostro avvenire”. Come scrisse nel programma presidenziale, la Lettre à tous les français, la futura moneta unica europea «costituirà con il dollaro e con lo yen uno dei tre poli del nuovo ordine monetario». La rielezione di M. avvenne però in uno scenario in mutamento rispetto a soli due anni prima. La riduzione degli armamenti decisi da Ronald Reagan e da Michail Gorbačëv a Reykjavik fece temere a M. un disimpegno militare americano mentre l’asse franco-tedesco cominciava a incrinarsi di fronte alla diversità di interpretazioni sulle reali intenzioni del nuovo capo sovietico, con il francese fiducioso e il tedesco assai scettico. La difesa europea ritornò così in primo piano, tanto che M. si spinse a proporre un’integrazione tra l’esercito francese e quello tedesco in vista di un futuro esercito europeo; «non si può concepire – disse M. – una Europa solida, se non si sarà in grado di assicurare la sicurezza dei popoli che la costituiscono. A maggior ragione non si può concepire una difesa comune senza l’autorità di un potere politico centrale». Nonostante le incomprensioni crescenti tra i due paesi, M. lavorò per rafforzare l’intesa con Kohl: difese la proposta tedesca dell’armonizzazione fiscale come premessa al Mercato unico europeo, vi aggiunse però elementi di “regolazione sociale” perché, come aveva detto al Consiglio di Hannover del giugno 1988, «l’Europa non può separarsi dai lavoratori». Due imperativi (libero mercato e socialità) rivendicati anche dal rapporto Delors dell’aprile 1989 sull’Unione economica e monetaria, che prevedeva la Libera circolazione dei capitali, la creazione di una banca europea e l’introduzione della moneta unica. La prospettiva della sparizione del marco rese assai prudente il cancelliere tedesco, che si fece però convincere da M. al vertice di Madrid del giugno 1989 in cambio del pieno appoggio francese all’unità tedesca; un tema di cui si era cominciato a parlare fin dall’anno precedente e in particolare era stato dibattuto durante un incontro tra M. e Gorbačëv.
Il presidente francese tuttavia pensava a una Riunificazione tedesca in tempi lunghi, senza passare necessariamente per un crollo verticale e rapido del sistema comunista. La caduta del Muro, pochi mesi dopo, lo trovò invece del tutto impreparato, così come la rapida richiesta di alcuni paesi ex comunisti di aderire alla CEE. Per M. le istituzioni europee erano state concepite per un numero di paesi che sulla breve distanza non sarebbe cresciuto. D’altro canto, non si poteva ignorare la nuova situazione, tanto più che il presidente francese temeva la rinascita dei nazionalismi nell’Europa centrale dopo il crollo dell’impero sovietico. M. propose così la creazione di una Confederazione europea, una sorta di ufficio composto dai paesi CEE affiancati, in un ruolo consultivo e non decisionale, da quelli dell’ex blocco sovietico interessati a far parte della comunità. La sua idea venne però accolta negativamente dagli USA e dagli stessi paesi postulanti, i primi timorosi di essere emarginati dal riassetto dell’Europa orientale dopo il crollo del Muro, i secondi di cadere sotto l’egemonia franco-tedesca. Gli eventi dell’autunno 1989 contribuirono a rendere M. assai più freddo su una rapida riunificazione tedesca; una freddezza che avrebbe portato presto ad una seria rottura nel sodalizio con Kohl, anche se il loro disaccordo non ostacolò il cammino dell’integrazione, arrivata al secondo passo decisivo della sua storia: la costruzione dell’Europa politica.
Nonostante lo scarso entusiasmo degli altri partner, M. riuscì a convincerli a discutere insieme i due temi dell’Europa politica e dell’Europa monetaria. Secondo il presidente francese, nella totalità dei suoi poteri dopo la rielezione, era venuto il momento di intraprende il progetto della moneta unica. Di fronte alle ritrosie del partner tedesco, il presidente francese creò un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei ministri delle Finanze e degli Affari esteri dei Dodici (per la Francia, Jean-Claude Trichet e Pierre De Boissieu) e ne affidò la presidenza a Elisabeth Guigou. Nelle discussioni emerse la volontà mitterrandiana di non separare i processi di unificazione economica, monetaria e politica. Tanto era importante per M. l’obiettivo della moneta unica da battersi per convincere prima Kohl poi gli altri capi di Stato, a istituire una Banca centrale europea e a fissare una data inderogabile per l’inizio dell’entrata in vigore dell’euro, decisioni prese nel Consiglio di Strasburgo del dicembre 1989.
Nell’aprile 1990 M. e Kohl proposero così una conferenza intergovernativa per l’Europa politica da tenersi l’anno successivo a Maastricht. Ancora una volta si trovarono di fronte l’ostilità del Regno Unito, contrario non tanto alle innovazioni istituzionali (che portarono all’aumento del potere del parlamento europeo) quanto all’integrazione, fortemente voluta da M., della Carta sociale europea nel Trattato (v. anche Politica sociale). Si trovò il compromesso in un “Protocollo sulla politica sociale” che fissava norme europee in materia di condizioni di lavoro, di consultazione dei lavoratori, d’eguaglianza tra uomini e donne, di lotta contro l’esclusione. M. si batté anche per l’estensione delle Competenze comunitarie in tema di programmi educativi e di formazione professionale, di sanità, di aiuto ai paesi in via di sviluppo. In linea con i programmi Eureka ed Esprit, il presidente francese infine spinse per l’allargamento del Trattato alla Politica industriale e di ricerca (v. anche Politica della ricerca scientifica e tecnologica), anche se questa parte non ebbe alcun sviluppo legislativo negli anni successivi. Con il Trattato di Maastricht, M. intese inoltre aprire due campi d’azione del tutto nuovi all’Unione europea: la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e l’Armonizzazione delle politiche giudiziarie dei Dodici. Se molto lunga si presentava la strada da percorrere per arrivare anche a una prima tappa di politica estera europea, nell’ambito giudiziario il Trattato di Maastricht fissò obbiettivi che trovarono parziale realizzazione nel Trattato di Amsterdam nel 1997.
Maastricht nacque certo dallo sforzo di tutti i Dodici; è tuttavia innegabile che la spinta politica fu garantita ancora una volta dall’intesa franco-tedesca e che il ruolo di propulsore fu svolto più dal presidente francese che dal cancelliere tedesco. A giusto titolo, M. intese Maastricht come una delle sue principali realizzazioni politiche e lo presentò all’opinione pubblica francese come «l’atto più importante dopo il Trattato di Roma». Per breve tempo venne persino dimenticato quanto l’asse con Kohl, già indebolito dal disaccordo sulla riunificazione, si fosse ulteriormente incrinato di fronte alla guerra civile in Iugoslavia, che segnò anche una divisione netta dei dodici sul riconoscimento di Croazia e Slovenia.
Se l’autorevolezza di M. nella politica europea era andata crescendo negli anni, in Francia invece a dispetto della trionfale rielezione del 1988 la politica del presidente era contestata. Si era intensificato un antieuropeismo che univa l’estrema sinistra, comunista e trockijsta, e l’estrema destra di Jean Marie Le Pen, riscuotendo consensi presso una fetta sempre più ampia dei francesi, toccati dalla disoccupazione e dai piani di rigore messi in atto dai governi socialisti. L’ostilità verso l’integrazione europea, in particolare nei confronti del Trattato di Maastricht, era diventata un’importante risorsa nello scontro politico interno, utilizzata anche da esponenti della destra gollista e giscardiana e da importanti dirigenti del Partito socialista, come Chevènement. Tutto ciò quando il governo socialista di Bérégovoy e lo stesso M. toccavano il minimo storico nei periodici sondaggi che registravano il consenso dei francesi. Il pessimismo del presidente nei confronti del Partito socialista era tale che egli arrivò in privato ad augurarsi, come medicina rigeneratrice, una pesantissima sconfitta elettorale della sua creatura. A M. restava solo una battaglia politica nel presente, dopo la quale si sarebbe dedicato alla costruzione della propria immagine postuma. L’ultima sfida del leader, quella in cui mise tutto il proprio carisma, fu rivolta a far approvare dai francesi il Trattato di Maastricht.
M. non aveva mai amato il referendum. Da oppositore del gollismo aveva sempre criticato l’uso “plebiscitario” a favore dei Presidenti della Repubblica di questo strumento costituzionale. Anche in questo caso il presidente avrebbe voluto far approvare il Trattato dal Parlamento. Tuttavia, secondo il parere della Corte Costituzionale, l’adozione nella legislazione francese delle norme di Maastricht richiedeva necessariamente una revisione della Costituzione, da legittimare attraverso il voto referendario. Nel dubbio, M. si decise ad annunciare il referendum, proprio pochi giorni dopo che con un’analoga consultazione i danesi avevano bocciato il Trattato. Come era già avvenuto in passato, dalla necessità imprevista e indesiderata, M. cercò di raccogliere il maggior dividendo possibile, profittando della divisione del centrodestra di fonte a Maastricht, più accentuata di quella della sinistra. Era anche un’occasione per far incontrare tra loro gli europeisti, quasi a creare un clivage non tra destra e sinistra, ma tra forze responsabili di governo favorevoli all’Europa (i socialisti, i gollisti di Jacques Chirac e i giscardiani) e movimenti antisistema (il Fronte nazionale, i comunisti, l’estrema sinistra varia).
La campagna referendaria fu l’ultima occasione di M. per farsi campione di un’idea e aver dietro di sé un “popolo”. Egli perciò, nonostante le sue precarie condizioni di salute (era affetto da un tumore in fase avanzata) si impegnò per sostenere il “sì” a Maastricht con numerosi interventi pubblici e televisivi, anche coraggiosi, come in occasione di una trasmissione del 5 settembre sulla principale rete francese, dove si fece porre domande da un pubblico scelto di cittadini. Rischiò però di essere delegittimato perché i sondaggi davano i due schieramenti più o meno alla pari. Quando il 20 settembre 1992 il Trattato fu approvato di stretta misura (51,3%) la scelta del referendum non apparve più molto felice: il paese si era spaccato in due, il “sì” era prevalente nelle aree urbane e tra i gruppi sociali più elevati e agiati mentre nelle zone rurali, in quelle depresse e in genere negli strati popolari aveva prevalso il no.
La campagna elettorale diede voce a figure nazionaliste e xenofobe, mostrò una Francia impaurita e ripiegata su di sé, senza produrre un durevole rafforzamento dell’immagine del presidente. Anzi, la vittoria risicata degli europeisti si risolse in uno smacco di fronte agli altri capi di Stato europei, i quali giudicarono pericoloso e persino demagogico il ricorso al referendum che, se fosse andato diversamente, avrebbe bloccato per lunghi anni il processo di integrazione. Fu però la pesantissima sconfitta elettorale subita dal Partito socialista nel marzo del 1993 a rendere sempre meno autorevole, anche in politica estera, il presidente francese, costretto a gestire di nuovo una coabitazione; anche se sulle questioni europee il nuovo primo ministro, il gollista Édouard Balladur, e il ministro degli Esteri, Alain Juppé, erano sulle medesime lunghezze d’onda del presidente, come si vide nelle negoziazioni sull’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) che portarono nel 1995 alla creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio. Resta il fatto che negli anni successivi M. dovette accettare proposte che non lo convincevano fino in fondo, come la decisione del Consiglio europeo di Copenaghen nel giugno 1993 di fissare entro due anni la scelta dei paesi dell’ex blocco orientale che avrebbero potuto aderire all’Unione europea. La sua ritrosia nei confronti dell’allargamento non era mutata; come disse a un giornalista del “Nouvel observateur” nel maggio 1994 l’allargamento rischiava «di alterare le strutture dell’Unione e di privarle di contenuto». Inoltre, il presidente cominciò a sostenere che l’Europa era diventata «eccessivamente liberoscambista». Nonostante le divisioni degli ultimi tempi, gli anni finali della presidenza M. furono tuttavia ancora caratterizzati dallo stesso rapporto con Kohl: entrambi si batterono nei rispettivi paesi per convincere della bontà dell’abbandono delle monete nazionali e per ostacolare quella che M. chiamava la “diluizione all’inglese” del progetto europeo.
Alla fine della sua vita M. aveva contribuito a fare dell’entente franco-tedesca la pietra della costruzione europea e a trasformare una secolare rivalità in un’occasione di pace e di prosperità per il futuro, come ebbe a scrivere nel suo ultimo libro, De l’allemagne et de la France, che terminò poco prima di morire. Egli aveva in larga parte realizzato l’obiettivo dell’Aia nel 1948 «riconciliare i due popoli», francese e tedesco, in linea con coloro (Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Paul-Henri Spaak, Robert Schuman, Jean Monnet) che «hanno sempre rifiutato le catene dell’odio e la fatalità del declino».
Marco Gervasoni (2012)
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