Mock, Alois
M. nacque il 20 giugno 1934 a Euratsfeld, un piccolo villaggio a un’ora di distanza da Vienna. Il padre, proprietario di un’azienda di trasporti, morì in un incidente in moto poco prima della nascita di Alois, e la madre sposò in seguito il cognato. M. crebbe in un’atmosfera familiare conservatrice e rigidamente cattolica, e frequentò la scuola a Euratsfeld. All’età di dieci anni si trasferì dapprima alla scuola secondaria e dopo due anni alle medie inferiori del monastero benedettino di Seitenstetten, nel capoluogo di provincia Amstetten. La formazione “monastica” avrà un ruolo determinante nell’Adesione di M. al Partito cristiano-democratico e alla sua concezione “europeista”, che lo porterà a interpretare l’espansione benedettina nel Medioevo come uno dei primi movimenti europei. La ferrea disciplina nel lavoro e l’integrità morale di M. hanno qui le loro radici: rettitudine e onestà, assenza di vita mondana e di avventure amorose, dedizione assoluta al lavoro saranno i principî guida di tutta la sua carriera. Trasferitosi a Vienna per studiare diritto, M. si laureò nel 1957. Come membro dell’associazione studentesca cattolica Cartell Verband (CV) ebbe modo di incontrare molte persone influenti in un’atmosfera distesa.
Dopo aver conseguito il dottorato, M. frequentò la John Hopkins University di Bologna, un’altra esperienza importante che contribuì ad aprire la mente del giovane alla dimensione europea. Dopo un incontro con il ministro Heinrich Drimmel fu assunto al ministero e fece ritorno a Vienna. Sospeso dall’incarico per aver richiesto un’altra borsa di studio per imparare il francese, fu costretto a dare le dimissioni e si trasferì all’università di Bruxelles. Dopo un anno, tuttavia, il ministro dell’Istruzione lo invitò a tornare a Vienna e riprendere il suo incarico, ma M. decise di passare agli Esteri. Alla cancelleria del ministero degli Esteri si occupò delle questioni relative alla Comunità economica europea (CEE) e all’Associazione europea di libero scambio (EFTA), in un’epoca in cui i paesi neutrali Austria, Svezia e Svizzera prendevano in considerazione la possibilità di aderire alla CEE. Nel 1962 M. fu inviato a Parigi, dove lavorò all’ambasciata austriaca per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica). Un anno dopo sposò Edith, insegnante e in seguito direttrice scolastica a Vienna. La coppia si trovava bene a Parigi, ma nel maggio del 1965 un telegramma richiamò M. in Austria, come segretario di Stato dell’allora governo conservatore guidato da Josef Klaus (grande coalizione). Nel 1966 le trattative nella nuova colazione tra il Partito popolare Österreichische Volkspartei (ÖVP) e il Partito socialdemocratico Sozialistische Partei Österreichs (SPÖ, cambiato sotto Franz Vranitzky in Sozialdemokratische Partei Österreichs) fallirono, e sotto il nuovo governo conservatore M. divenne capo gabinetto. Nonostante la mole di lavoro, trovò il tempo di studiare per sostenere l’esame di ammissione al ministero degli Esteri, dove entrò nel 1968 (assieme al futuro presidente Thomas Klestil).
M. compì un altro passo importante della sua carriera nel 1969, allorché a soli trentacinque anni divenne il più giovane ministro dell’Istruzione nel governo Klaus, anche se conservò la carica solo per dieci mesi. Le successive elezioni del 1970 furono vinte dalla SPÖ, e Bruno Kreisky formò un governo di minoranza. Sindaco di Euratsfeld per circa due anni, successivamente M. diventò membro del parlamento per la Bassa Austria fino al 1987. Da allora la sua carriera politica a livello nazionale si intrecciò con quella all’interno del suo partito, l’ÖVP, che lo vide capo della associazione operaia Österreichischer Arbeitnehmerinnen- und Arbeitnehmer-Bund (ÖAAB) dal 1971 al 1978. Qui il suo atteggiamento liberare nei confronti della classe operaia gli valse l’accusa di “sorpasso a sinistra” all’interno dell’ÖVP. Nel 1979 Josef Taus si dimise dalla direzione dell’ÖVP dopo che l’SPÖ aveva vinto nuovamente le elezioni con un distacco ancora più ampio di 16 mandati sull’ÖVP.
M. succedette a Taus alla guida dell’ÖVP, che conserverà sino al 1989 (il mandato più lungo nella storia del partito). Tuttavia, la sua carriera nel partito restò all’ombra del suo grande avversario Kreisky, così come in seguito, contro Vranitzky, M. sarà destinato a restare eterno secondo. Sotto la guida di M. l’ÖVP raccolse peraltro importanti successi. Dapprima il partito cercò di guadagnare gradatamente terreno rispetto all’SPÖ, riuscendo alla fine a infrangere la maggioranza assoluta di quest’ultima nel 1983, il che provocò il ritiro di Kreisky. Il distacco tra ÖVP e SPÖ diminuì a tal punto che solo tre seggi dividevano i due partiti nel periodo della piccola colazione tra SPÖ e Partito liberale (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ), sotto il cancellierato di Fred Sinowatz.
Sebbene grazie al sistematico lavoro politico dell’ÖVP l’era di Kreisky si fosse interrotta nel 1983, ponendo termine ai 17 anni di potere socialista, questo successo non fu adeguatamente sfruttato per guadagnare il favore dell’elettorato. Il fatto di non aver ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1986 venne percepito così come una sconfitta anziché come un risultato positivo. M. “perse” il cancellierato a favore del nuovo arrivato Vranitzky, nonostante vi fossero buone prospettive di vittoria visto che il governo Sinowatz-Steger era ormai esausto. Anche l’ÖVP peraltro aveva esaurito le forze, avendo investito tutte le sue energie per fare eleggere Kurt Waldheim, il primo presidente del partito conservatore nella storia della seconda repubblica.
Vranitzky formò il nuovo governo formando una piccola coalizione con l’FPÖ, coalizione che viene sciolta dopo un anno quando la guida del Partito liberale fu assunta da Jörg Haider. Nel 1987 Vranitzky entrò nell’ÖVP e M. assunse un duplice incarico, diventando vicecancelliere e ministro degli Affari esteri (fortemente criticato dal vecchio Kreisky).
Per l’ÖVP il 1988-89 fu un periodo di turbolenze, in quanto i sondaggi di opinione rivelarono che l’ÖVP aveva le stesse preferenze dell’SPÖ. Nondimeno M., alla guida dell’ÖVP, fu criticato all’interno del suo stesso partito dal segretario della Stiria Gerhard Hirschmann. Nelle lotte tra liberali e conservatori per il rinnovamento dell’ÖVP M. non era ritenuto abbastanza forte da determinare un cambiamento decisivo. Alla fine si dimise dalla guida del partito (o subì pressioni in questo senso) e lasciò il vicecancellierato al nuovo capo dell’ÖVP Josef Riegler, ex ministro dell’Agricoltura e sostenitore della corrente conservatrice del partito. Come forma di compensazione, l’ÖVP nominò M. capo onorario a vita. M. si concentrò ora sugli Esteri, e trovò la sua missione nel condurre l’Austria all’integrazione nell’Unione europea (UE), contribuendo a rendere l’ÖVP il principale partito pro Europa dell’Austria.
L’ÖVP aveva preso in considerazione l’idea dell’ingresso austriaco nella Comunità europea (CE) già nel 1985, quando il compagno di M., Andreas Kohl, direttore dell’accademia politica dell’ÖVP, aveva presentato al Consiglio nazionale la richiesta di una risoluzione, auspicando una maggiore cooperazione con la Comunità europea. Inoltre, il Partito popolare aveva elaborato un accordo speciale che prevedeva una forma ad hoc di partecipazione dell’Austria all’Europa unita tale da riconoscere la neutralità perpetua del paese. Già nel secondo Vertice dei ministri per il nuovo governo Vranitzky, nella sua duplice funzione di vicecancelliere e ministro degli Esteri, M. aveva creato un Gruppo di lavoro per l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). L’ÖVP cercò di portare nel nuovo governo le proprie concezioni europeiste. Secondo i commentatori, il 70% del discorso pronunciato dal nuovo governo era di origine conservatrice (v. Mock, Vytiska, 1994, p. 50). La dichiarazione del nuovo governo prevedeva la massima vicinanza dell’Austria alla CE, eventualmente con la partecipazione al mercato comune, escludendo però l’ingresso dell’Austria come membro a pieno titolo.
Nel 1986-1987 l’Europa dei 12 definì e accettò il mercato comune, con conseguenze immediate tutt’altro che positive per l’Austria, fortemente dipendente dal mercato europeo, come risultò evidente quando, ad esempio, la Francia decise di chiedere il visto a tutti i cittadini dei paesi non appartenenti alla CE. Nel 1987 il governo si trovò nella necessità di valutare diverse opzioni per la partecipazione dell’Austria all’Europa dei 12, concentrandosi però soprattutto sugli aspetti economici. Una di queste opzioni era l’accordo speciale con condizioni supplementari proposto dall’ÖVP. La Federazione degli industriali austriaci (Vereinigung Österreichischer Industrieller, VÖI) fu uno dei primi gruppi di interesse della Comunità europea a pronunciarsi per un’adesione immediata. Alla fine fu Jörg Haider a chiedere al ministro degli Esteri di cercare una forma seria di Associazione alla CE, e a esprimere la convinzione che la partecipazione come membro a pieno titolo fosse una necessità imprescindibile per l’Austria.
M. e l’ambasciatore della CE Manfred Chech organizzarono colloqui esplorativi con gruppi delegati in Europa e in patria. La cosiddetta “teoria dell’uvetta” – consistente nel prendere tutti vantaggi economici rifiutando gli obblighi – fu presto fuori questione, e divenne finalmente chiaro che occorreva convincere l’SPÖ della necessità di accettare per l’Austria lo status di membro a pieno titolo della Comunità europea. Nell’incontro del 1988 a Maria Plain, nei pressi di Salisburgo, l’ÖVP, guidata ancora da M., si pose l’obiettivo della piena partecipazione dell’Austria alla CE, proponendosi con ciò come “il” partito dell’Europa. Vranitzky fu messo sotto pressione quando divenne chiaro che anche l’SPÖ doveva prendere le redini della politica europea, e M. riuscì a convincerlo ad adottare una posizione pro Euroa (v. Mock, Vytiska, 1994, p. 55). Nonostante la svolta europeista di Vranitzky, alcune frazioni dell’SPÖ espressero serie riserve in merito all’adesione austriaca alla CE, sollevando la questione critica della neutralità del paese.
Prima dell’estate del 1988 il Gruppo di lavoro sull’integrazione europea presentò i suoi risultati, dai quali emergeva che solo la piena adesione dell’Austria alla CE avrebbe portato i vantaggi desiderati. Di conseguenza, M. e Kohl chiesero la presentazione immediata della domanda di ingresso nella Comunità. Ora però i due partiti procedevano con un ritmo diverso, ed emerse un divario tra l’urgenza dell’ÖVP e la cautela dell’SPÖ, che rispecchiava la divergenza di opinioni esistente anche tra la popolazione. Di conseguenza, il partito dei Verdi guadagnò voti come partito antieuropeo a scapito dell’FPÖ di Haider, all’epoca ancora pro Europa.
Alla fine, il 3 aprile 1989, la posizione di Vranitzly fu accettata nell’SPÖ e il partito decise a maggioranza di perseguire l’adesione austriaca alla Comunità europea, ma poiché Vranitzky aveva insistito sulla priorità della neutralità sulla piena adesione, il rapporto finale del governo al Parlamento incluse le condizioni dell’SPÖ. Si apriva così la strada all’ingresso dell’Austria nella Comunità europea. A giugno i due partiti fissarono la strada per la politica dell’integrazione. All’inizio di luglio del 1989 il Consiglio nazionale, senza i voti dei Verdi, decise di avviare i negoziati con la CE per l’ingresso dell’Austria. Il 17 luglio 1989 M. presentò a Roland Dumas, capo del Consiglio europeo, la richiesta di ammissione austriaca alle tre comunità CEE, Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Forse se l’Austria avesse tardato solo sei mesi a presentare la domanda non avrebbe ottenuto l’ingresso nell’Unione europea nel 1995. In quel momento infatti i profondi cambiamenti politici in atto in Europa calamitavano l’attenzione della CE verso l’unificazione tedesca, le guerre nei Balcani e il Mercato unico europeo.
Nelle elezioni austriache del 1990 tuttavia l’Europa non fu un argomento rilevante, e l’SPÖ si avvantaggiò a spese dell’ÖVP dei successi ottenuti congiuntamente. Mentre i socialdemocratici subirono infatti perdite “accettabili” rispetto al 1986, l’ÖVP perse pesantemente consensi (oltre il 10%).
Molti voti andarono all’FPÖ di Haider, che attaccava le istituzioni consolidate e la deliberata spartizione degli incarichi tra SPÖ e ÖVP. Era in gioco il paesaggio politico austriaco e, con esso, la grande coalizione ormai quasi istituzionalizzata e le sue interminabili diatribe interne. Certamente, l’FPÖ rispetto all’ÖVP prometteva maggiore dinamismo, indipendenza e decisione, restando assai meno indietro all’SPÖ. Di conseguenza, la formazione di nuova grande colazione comportò un ricambio all’interno della ÖVP. Erhard Busek divenne capo del partito e nuovo vicecancelliere, mentre il nuovo ministro dell’Economia fu Franz Fischler. Ora tuttavia, a differenza di quattro anni prima, l’ingresso in Europa divenne il principale obiettivo del nuovo-vecchio governo. I principali problemi che esso dovette affrontare riguardavano la politica di difesa e sicurezza comune e la conciliazione tra il ruolo di paese neutrale dell’Austria e il suo status di membro a pieno titolo della Comunità europea.
Alla fine, grazie anche all’impegno di M., fu trovata una interpretazione della neutralità che soddisfaceva favorevoli e contrari all’integrazione europea. Il governo austriaco intraprese i primi passi concreti, inviando memorie a tutti i paesi membri per propagandare l’adesione austriaca. Nel 1990 Jacques Delors si recò in Austria per uno scambio di idee, e dichiarò che non vi erano problemi per avere all’inizio del 1991 l’avis, al quale venne risposto positivamente in agosto (nel 1992 la CE e l’EFTA firmavano l’atto costitutivo della Comunità economica europea, CEE). Il 1° febbraio 1993 iniziarono i negoziati per l’ingresso di Finlandia, Norvegia, Svezia e Austria. Nel novembre dello stesso anno la CE divenne Unione europea (UE)
I negoziati di Bruxelles (una vera e propria maratona protrattasi per 72 ore), e i risultati estremamente positivi del referendum trasformarono M. da personaggio di secondo rango in un autentico eroe, procurandogli un’immensa popolarità. Le sue cattive condizioni di salute (in un’intervista con Alfred Worm M. confermerà alla fine del 1994 che soffriva di una malattia analoga al morbo di Parkinson: v. Pelinka, 1995, p. 162) all’inizio furono oggetto di compassione, ma la forza con cui sopportava la malattia divenne parte integrante del ruolo di eroe assunto nell’immaginario popolare. M. divenne un mito politico (“l’eroe di Bruxelles”).
Alla fine del febbraio 1994 si svolsero le trattative conclusive tra l’UE e l’Austria. I negoziatori austriaci presentarono i risultati di Bruxelles come traguardi estremamente positivi agli elettori, e al referendum del 12 giugno 1994 il sì vinse con il 66% dei voti. L’accordo di adesione fu firmato il 24 giugno a Corfù, e l’Austria entrò nell’UE il 1° gennaio 1995. M. intendeva continuare a detenere la carica di ministro degli Esteri, ma sino al 1999 restò un “semplice” membro del parlamento. Da questo momento in poi scomparve progressivamente dai media.
Haider salì al potere nel 2000 dopo le elezioni tenutesi alla fine del 1999. Quando i 14 Stati dell’UE decretarono le sanzioni contro l’Austria, M. criticò aspramente questa decisione, giudicandola una violazione dei Trattati dell’UE e del diritto internazionale che andava contro lo spirito dell’Unione, nata come comunità pacifica e solidale. I trattati UE, affermava M., non prevedevano nessun intervento nei processi democratici di uno degli Stati membri, e le sanzioni costituivano una grave violazione del codice di valori della cultura europea, specialmente considerato che all’Austria non era stata data la possibilità di prendere posizione. M. rifiutava le qualifiche dell’Austria come paese fascista, nazionalsocialista, xenofobo o irrispettoso dei Diritti dell’uomo. Le sanzioni erano ingiuste e arbitrarie, e avrebbero dimostrato il loro carattere inappropriato se si fosse cercato di applicarle ad altri paesi. La maggior parte del potere socialista in Europa, secondo M., era stato usato impropriamente per intralciare con metodi discutibili un governo eletto democraticamente, ed egli paragonò la dottrina di Bruxelles alla dottrina brežneviana della sovranità limitata, vietata dal diritto internazionale.
L’operato di M. in qualità di ministro degli Esteri fu caratterizzato da numerose iniziative e visite pro Europa, mentre assai meno frequenti furono le visite ufficiali nei paesi extraeuropei. Rifiutando l’approccio globale di Kreisky, mirato a inserire attivamente l’Austria nella politica mondiale, il quartier generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a Vienna, voluto da Kreisky, fu smantellato come una manifestazione di megalomania austriaca. L’obiettivo dichiarato di M. era l’Europa.
Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, tuttavia, si erano verificati in Europa cambiamenti di immane portata: si rendeva necessario ridefinire il ruolo dell’Austria, che aveva fatto da intermediario tra i due blocchi. L’apertura della cortina di ferro in Ungheria con il ministro degli Esteri ungherese Gyula Horn, il 27 giugno 1989, fu un importante atto simbolico, in quanto costituì la “prima finestra”, per citare le parole di M., nella barriera tra i due blocchi. Tuttavia, mentre la maggior parte degli ex paesi comunisti si orientò pacificamente verso strutture democratiche, il processo di democratizzazione in Iugoslavia fu irto di difficoltà.
Il conflitto iugoslavo divenne una questione fondamentale non solo per l’Austria, ma anche per la CE in procinto di trasformarsi in UE. Il problema della sicurezza si poneva con urgenza soprattutto in Austria, quando la guerra sembrò avvicinarsi ai confini del paese. La presenza di carri armati stranieri nel territorio nazionale e l’invio di carri armati austriaci verso la frontiera iugoslava scatenarono in Austria un nuovo, acceso dibattito sul problema della difesa e della neutralità.
Poiché l’A. era impegnata nei negoziati per l’ingresso nella UE, il problema della sicurezza comune e del ruolo dell’Austria come Stato neutrale nel mutato scenario europeo erano questioni di cruciale rilievo. M. era dell’opinione che l’A. avrebbe dovuto considerare anche l’adesione all’Unione dell’Europa occidentale (UEO) (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 104). Tuttavia, in armonia con l’atteggiamento cauto adottato dall’SPÖ, l’Austria conservò ufficialmente la neutralità sancita dalla sua Costituzione.
Il conflitto iugoslavo iniziò con il discorso tenuto il 28 giugno 1989 da Milošević per la celebrazione dei 600 anni dalla sconfitta nella battaglia di Amselfeld, che può essere considerato l’atto di nascita del movimento nazionalista serbo. L’ordine creato da Tito in Iugoslavia aveva mostrato tutta la sua precarietà subito dopo la morte del capo di Stato, e Milošević ne approfittò per rivendicare un ruolo guida della Serbia nella federazione iugoslava. Fu così abolita l’autonomia di Vojvodina e Kosovo, innescando la catena di eventi che sarebbe sfociata in una guerra caratterizzata da un livello di odio e di violenza impensabile dopo quasi mezzo secolo di pace in Europa.
M. assunse subito una posizione decisa sulla guerra nei Balcani, attirandosi talvolta aspre critiche. Seguendo una interpretazione prevalentemente giuridica, egli sostenne che la guerra non era un conflitto religioso né una guerra civile, ma una chiara aggressione serba. L’Austria, affermò nel Dossier sui Balcani (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 47, 87), si rendeva conto che la confederazione iugoslava non poteva sopravvivere nella sua vecchia forma: un cambiamento si rendeva necessario a seguito degli sviluppi negli altri Stati ex comunisti, della caotica situazione economica e dell’aggressivo nazionalismo serbo. Dopo l’abolizione del governo e del parlamento autonomi nel Kosovo a opera dei serbi e la sanguinosa battaglia di Pristina nel febbraio 1990, l’Austria invocò un dialogo per frenare la violenza. Tuttavia, al peggiorare della situazione, nell’agosto dello stesso anno assieme ad altri Stati mise in moto il primo livello del meccanismo dell’OCSE.
Nel 1991, davanti al Consiglio nazionale, M. ribadì i seguenti punti:
- i singoli Stati della Iugoslava avevano diritto all’autodeterminazione e a un futuro di pace;
- con la scelta dell’indipendenza la Croazia e la Slovenia avevano acquistato il diritto all’autodeterminazione democratica; i nuovi rapporti tra i popoli iugoslavi dovevano basarsi sul dialogo e sul rifiuto della violenza;
- l’Austria era contraria a ogni modificazione dei confini ottenuta con la violenza;
- si rendeva necessario garantire i diritti e la partecipazione democratica di tutti i gruppi (e quindi anche quelli della popolazione serba in Croazia);
- per tutto il popolo iugoslavo occorreva applicare la Carta di Parigi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa (OCSE), che afferma i principi del pluralismo, della democrazia costituzionale e del rispetto dei diritti umani;
- le riforme economiche erano necessarie per la stabilità nella regione.
Le iniziative di M. trovarono in patria il sostegno del segretario generale del ministero degli Esteri, Thomas Klestil, del direttore politico del ministero, Albert Rohan, e dell’ambasciatore presso l’Organizzazione delle nazioni unite (ONU) Peter Hochenfellner (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 14, 53).
Poiché la situazione era in una fase di stallo e Belgrado non si lasciò impressionare, il 29 marzo 1991 l’Austria, questa volta da sola, mise in moto il secondo livello del meccanismo dell’OCSE, e nel maggio dello stesso anno presentò un elenco di 13 violazioni delle richieste dell’OCSE e della Carta di Parigi per una nuova Europa da parte di Belgrado (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 69). M. propose altresì l’istituzione di un Consiglio di saggi, ma la Iugoslavia di Milošević rifiutò l’iniziativa come indebita ingerenza in questioni interne.
Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza, e due giorni dopo la capitale slovena, Lubiana fu invasa dai carri armati. La difesa della Slovenia contro l’esercito serbo scatenò la guerra. Difendendo l’indipendenza appena acquisita e grazie alle forti pressioni diplomatiche europee, a luglio la Slovenia ottenne dalla Serbia un accordo di cessate il fuoco siglato a Brioni, un’isola dell’Adriatico (Accordi di Brioni). Tuttavia, Milošević aveva accettato il cessate il fuoco per beneficiare dei tre mesi concessi per il ritiro dell’esercito dalla Slovenia al fine di riorganizzare i suoi contingenti in Croazia, dove l’aggressione serba continuò indisturbata.
Era impossibile trovare una soluzione rapida e facile tra la Serbia, la Croazia cattolica e la Bosnia musulmana. Per dare al conflitto maggiore risonanza internazionale, il 19 settembre 1991 l’Austria chiese al Consiglio di sicurezza dell’ONU una sessione sull’aggressione serba in Croazia, che ebbe luogo il 25 settembre. Il 19 settembre il Consiglio dei ministri della UE decise per il non intervento, dichiarando quale interesse prioritario l’integrità della Iugoslavia. Tuttavia, poiché si voleva arrivare a una soluzione pacifica, fu istituita una Commissione di arbitrato presieduta da Robert Badinter. Alla fine di novembre la Commissione prese atto del processo di dissoluzione dell’ex Iugoslavia, che venne negato dalle autorità serbe all’inizio di dicembre. Di conseguenza, il 16 dicembre la CE, con l’adesione dell’Austria, impose un ultimatum per il riconoscimento di Slovenia e Croazia come Stati indipendenti. Tuttavia anche all’interno dell’Austria questo passo non fu esente da critiche, in quanto segnava un punto di svolta nelle attività di mediazione per la pace. Specialmente i socialdemocratici caldeggiavano soluzioni più caute. Ma la Conferenza delle autorità regionali austriache aveva già chiesto al governo il riconoscimento dei nuovi Stati indipendenti, e all’Austria non restò altra scelta che aderire alla decisione della CE.
Ribattendo alle critiche, M. affermò che il riconoscimento non aveva comportato una prosecuzione del conflitto, iniziato assai prima di tale decisione, ma aveva anzi fermato l’aggressione serba, portando al cessate il fuoco del gennaio 1992. L’idea che il riconoscimento avrebbe alimentato il conflitto, secondo M., era una fantasia della vecchia Iugoslavia di stampo titoista, e contraddiceva tutti i fatti relativi alle cause, alle conseguenze e alla cronologia del conflitto nei Balcani. Secondo M., i restanti paesi ex iugoslavi cercavano costruttivamente una soluzione per una Iugoslavia comune, soluzione osteggiata dai serbi sin dall’inizio del conflitto.
Nell’autunno del 1991 la Iugoslavia era in via dissoluzione (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 89) e nel luglio dell’anno successivo cessò di esistere nell’assetto che aveva in passato (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 99). Il 21 e 22 dicembre del 1991 M. incontrò George Bush e il segretario dell’ONU Javier Peréz de Cuéllar a Washington per sollecitare decisioni nette, ma gli Stati Uniti si tirarono indietro al pari dei principali partner europei, che non riuscirono a raggiungere il consenso: la Francia era favorevole, il Regno Unito contrario a una missione militare.
Il 10 gennaio 1992 i Serbi proclamarono la Repubblica di Serbia nella Bosnia-Erzegovina, scatenando immediatamente il timore dello scoppio di una guerra in Bosnia. In febbraio Serbia e Montenegro decisero di creare uno Stato comune, e proclamarono la loro unificazione il 27 aprile 1992, senza ottenere il riconoscimento immediato da parte del resto del mondo. Nonostante le aggressioni serbe in Bosnia-Erzegovina, la Repubblica di Serbia fu riconosciuta come Stato indipendente da 72 paesi il 7 aprile 1992. Il giorno dopo il nuovo governo proclamò lo stato di emergenza. Austria e Ungheria misero in moto il Consiglio di sicurezza dell’ONU, e l’Austria richiese l’istituzione di zone protette per la popolazione civile. Il 22 aprile si intensificarono i bombardamenti a Sarajevo, e solo alla fine di maggio il Consiglio di sicurezza dell’ONU decise di adottare misure più incisive con una serie di sanzioni, la più efficace delle quali fu l’embargo. Tuttavia gli sforzi dell’Occidente restarono in larga misura vani. Una memoria austriaca fu inviata nel novembre del 1992 al Consiglio di sicurezza per la costituzione di zone militarmente protette, ma solo nel maggio del 1993 le città di Sarajevo, Tuzla, Zepa, Goražde e Bihac furono riconosciute dall’ONU come tali. Tuttavia, l’esercito dell’ONU non aveva il permesso né di fermare le aggressioni, né di difendersi.
M. affermò in seguito che le iniziative intraprese tra il 1991 e il 1992 furono inefficaci e tardive. La riluttanza del mondo politico a intervenire produsse risoluzioni e ammonizioni del tutto inutili, una montagna di parole e di carte, senza dar luogo ad alcuna azione concreta per fermare Belgrado (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 88, 89, 97). Il 7 gennaio 1992 cinque osservatori della CE persero la vita in un elicottero abbattuto dai serbi, e la CE si limitò a mandare una nota di protesta. In maggio un osservatore dell’ONU fu ucciso e la missione venne sospesa per breve tempo, a tutto vantaggio dell’esercito serbo. Sempre in maggio un membro della Croce rossa restò ucciso a Sarajevo. Per protesta la Croce rossa abbandonò il campo, peggiorando ulteriormente la situazione delle vittime.
L’esperto politico e militare Edward Luttwak fu uno dei tanti a ritenere che il livello culturale dei gruppi in guerra fosse talmente basso che il conflitto avrebbe potuto protrarsi per un altro secolo. Ma altri, come George Kennedy, capo del Dipartimento di Stato USA sino all’agosto 1992, sostennero che la politica mondiale di non intervento portava a ignorare sistematicamente le voci sull’esistenza di campi di concentramento nei territori occupati (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 87), dimostrata nel giugno del 1992 da vari gruppi umanitari bosniaci. La politica di non intervento era diventata puro cinismo. La Croce rossa, ad esempio, intendeva riconoscere l’esistenza dei campi di concentramento solo qualora fosse stata ammessa ufficialmente dalla Serbia.
La decisione di porre l’embargo sulle armi ebbe secondo M. esiti paradossali. Inizialmente favorevole all’embargo, M. si convinse ben presto che esso contribuiva solo a inasprire l’aggressione, e votò a favore della sua sospensione. A suo avviso l’embargo favoriva i serbi, che potevano contare sull’ex esercito popolare, e andava contro il diritto all’autodifesa dei Bosniaci. Nel marzo del 1992 la Forza di protezione delle Nazioni Unite (United nations protection force, UNPROFOR) venne stanziata in Croazia, ma non si riuscì a raggiungere alcuna risoluzione o accordo comune. La situazione peggiorò nel maggio 1933, quando scoppiò una guerra separata tra i musulmani bosniaci e i croati bosniaci, che terminò solo un anno dopo.
Nel marzo 1993 il nuovo presidente degli Stati Uniti Bill Clinton annunciò misure più attive da parte del suo paese. Il 12 aprile, a seguito del sabotaggio di un mezzo della UNPROFOR, gli Stati Uniti decretarono finalmente la revoca del divieto dei voli militari sulla Bosnia-Erzegovina (un anno dopo la risoluzione del Consiglio di sicurezza). Solo il 9 agosto l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (NATO) decise il bombardamento delle truppe serbe in conformità con la risoluzione dell’ONU. Il 5 febbraio 1994 un atroce attentato al mercato di Sarajevo fece strage di civili. Nell’agosto dello stesso anno iniziò il primo raid aereo americano contro i carri armati serbi a Sarajevo, ma il 28 del mese un altro devastante attentato a Sarajevo uccise 33 persone. L’imbarazzante rapimento di un gruppo di soldati dell’ONU nel maggio 1995 e le atrocità commesse a Srebrenica finalmente fecero scattare le azioni decisive contro i serbi, che portarono all’accordo di Dayton firmato il 21 novembre 1995 nell’Ohio e il 14 dicembre a Parigi. Come si legge nel documento della Commissione internazionale sui Balcani (v., 1966, p. 74) «L’accordo di Dayton non può cancellare la vergogna e l’orrore per non aver impedito i fatti di Srebrenica. La responsabilità di questo fallimento è condivisa da molti paesi».
Il 17 aprile 1996 l’UE riconosceva la Iugoslavia come uno dei diversi Stati formatisi dopo la dissoluzione dell’ex Iugoslavia. Questa formula era importante per l’Austria, in quanto annullava ogni obbligo nei confronti del trattato costituzionale.
M. mantenne stabili contatti con gli Stati dell’ex Iugoslavia. La laurea honoris causa conferitagli all’Università di Sarajevo nel 1993 fu per lui un simbolo altrettanto importante quanto la bandiera della Unione europea appesa nel suo ufficio (v. Simboli dell’Unione europea), la conferma di aver fatto la cosa giusta al momento giusto.
Margaret Mantl (2007)