Monnet, Jean
L’esperienza “funzionale” di Jean Monnet: Prima e Seconda guerra mondiale
M. ha avuto il merito storico di saper proporre l’avvio del processo di integrazione europea in forme che sono state ritenute politicamente ed economicamente vantaggiose dalla più parte dei politici dei paesi dell’Europa occidentale. Dagli anni ’50 fino alla metà degli anni ’70, egli ha svolto un’azione costante a sostegno del processo di integrazione europea, basandosi su un metodo definito “Funzionalismo”. Per comprendere l’origine del metodo, come si evolse la sua visione delle relazioni internazionali nonché la formazione delle sue reti di rapporti e conoscenze, è necessario risalire alle sue esperienze di lavoro in diversi organismi internazionali durante e tra le due guerre mondiali.
M. nasce nel 1888 a Cognac, nella Francia centro occidentale. Dopo aver lasciato gli studi a 16 anni, si impegna nell’azienda familiare di commercio di acquaviti. Questo lavoro lo porta, fin dai primi anni, ad assumere numerosi contatti internazionali e a spostarsi per lunghi periodi nel mondo anglosassone – Gran Bretagna (V. Regno Unito), Canada, Stati Uniti –, nonché in Scandinavia, in Russia e in Egitto.
Durante la Prima guerra mondiale, alla quale non partecipa come soldato essendo stato riformato per ragioni di salute, M. si pone il problema dell’efficienza del coordinamento dei rifornimenti di beni di prima necessità e di armamenti tra Francia e Gran Bretagna: egli ritiene che migliorare tale coordinamento rappresenti un contributo essenziale allo sforzo bellico. Per ovviare alla scarsa efficienza dimostrata in questo ambito dai due paesi alleati, contatta direttamente i vertici politici francesi; in particolare convince un avvocato amico di suo padre a introdurlo presso il presidente del consiglio René Viviani. Questo modo di procedere – accostare direttamente l’uomo al potere in grado di realizzare le sue idee – si dimostra efficace e rappresenterà anche in seguito un caposaldo del suo metodo. Attivata una proficua relazione con Viviani, M. parte per Londra per lavorare nei servizi del ministero francese del commercio. Si occupa in particolare di negoziare con la Hudson Bay Company un contratto di fornitura di cereali, metalli, filo spinato e battelli che, secondo un rapporto parlamentare del 1919, si sarebbe rivelato di particolare importanza per l’economia francese di quel periodo.
Nel 1915 M. diventa il rappresentante personale a Londra del ministro del commercio Étienne Clémentel, che concepisce l’idea di mettere fine al disordine imperante nel sistema di approvvigionamenti degli Alleati attraverso la creazione di un organismo interalleato dotato di vasti poteri e composto da tre direttori: un inglese, un francese e un italiano. Alla fine del 1916 nasce il Wheat executive, in cui Monnet è nominato rappresentante permanente per la Francia, e che rappresenterà il modello per tutti gli altri consigli esecutivi alleati creati per l’acquisto di prodotti necessari all’economia di guerra. Nel 1918 egli rappresenta la Francia anche nell’organo dirigente dell’esecutivo permanente del Consiglio alleato dei trasporti marittimi.
L’esperienza maturata durante la Prima guerra mondiale spinge M. a misurarsi con la dimensione mondiale dei problemi che la Francia deve affrontare e a maturare nuove idee sul modo di farvi fronte. In primo luogo, si rafforza in lui la convinzione che, nel XX secolo, non sia più possibile per un paese vivere isolato economicamente e politicamente e che, pertanto, lo sforzo di mantenere la pace debba necessariamente fondarsi su di organizzazioni sovranazionali. In secondo luogo, l’esperienza sviluppata negli organismi internazionali insegna a M. l’efficacia dell’integrazione tra i servizi dei differenti Stati e l’utilità che questa integrazione venga estesa a più settori dell’economia.
La sua carriera di alto funzionario continua presso la nuova Società delle Nazioni (SDN), dove assume la carica di vice segretario generale. Crea i servizi tecnici della SDN e gioca un ruolo importante nel regolare la controversia tra tedeschi e polacchi a proposito dell’Alta Slesia nonché nel risanamento della situazione finanziaria dell’Austria. Agli occhi di M., tuttavia, la SDN si rivela come un luogo in cui vengono espresse buone intenzioni, redatte risoluzioni e raccomandazioni, senza che però vi sia la possibilità di prendere misure concrete di collaborazione a causa dei veti e delle forme di ostruzione provenienti dai vari governi nazionali. Nelle sue memorie, M. attribuisce all’esperienza presso la SDN l’acquisizione della consapevolezza degli enormi ostacoli che si ergono tra gli Stati quando si tratta di siglare compromessi che toccano i loro interessi economici immediati.
M., dunque, torna a lavorare nel settore privato, ma rimane a contatto con le realtà internazionali. A partire dal 1923 si dedica nuovamente alla cura degli affari dell’impresa di famiglia, quindi diventa direttore di una succursale parigina della banca di investimenti Blair; infine nel 1929 vicepresidente della Bancamerica Blair. Durante questi anni partecipa a operazioni finanziarie di alto livello: la stabilizzazione della moneta polacca, nel 1927; il consolidamento di quella romena, l’anno successivo; la liquidazione del crac Kruger nel 1932. Tra il 1933 e il 1935 svolge un ruolo nella costruzione della rete ferroviaria cinese: allo scopo di raccogliere i finanziamenti necessari a quest’opera, crea la China finance development corporation. All’inizio del 1936 riparte per New York, dove fonda la società M.-Murnane.
In questi decenni, dunque, si creano e si rafforzano le sue reti di relazioni, che si riveleranno assai fruttuose dopo la Seconda guerra mondiale, quando queste reti gli forniranno contatti diretti con i vertici politici di quasi tutti i paesi occidentali. René Pleven è il suo assistente personale durante l’operazione di salvataggio della moneta polacca; nella stessa occasione John Foster Dulles è il suo avvocato. Anche René Mayer e Félix Gaillard, futuri presidenti del Consiglio francesi, sono stati suoi assistenti. Negli Stati Uniti la lista dei suoi amici è particolarmente lunga: Felix Frankfurter, Philip Graham, Oscar Cox, John McCloy, Harry Hopkins, Georges Ball, Dillon padre e figlio, David Bruce, Donald Swatland, Tommy Tomlinson. La possibilità di fare affidamento su queste reti di conoscenze si rivelerà ancora più preziosa dopo il 1955, quando M. ritornerà a vita privata e non godrà di un ruolo istituzionale per sostenere la propria visione della costruzione europea.
Nel 1939, convinto della debolezza dell’armamento francese, in particolare dell’aviazione, davanti all’imminente pericolo tedesco, M. riesce a incontrare il presidente del Consiglio francese dell’epoca, Edouard Daladier, per esporgli il problema. Daladier lo incarica di negoziare l’acquisto di aerei dagli Stati Uniti. Nonostante le sue relazioni dirette con il presidente Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano), M. si scontra però con l’opposizione degli ambienti isolazionisti americani e alla fine gli aerei saranno consegnati alla Francia in quantità insufficiente a fronteggiare l’attacco nazista. Dopo l’inizio delle ostilità nel settembre 1939, M. è nuovamente incaricato di presiedere il comitato di coordinamento franco-britannico a Londra. Nel giugno del 1940 è tra quanti vorrebbero continuare la guerra contro il Reich; per questo, il 18 giugno si reca a Bordeaux per cercare di convincere il nuovo governo del maresciallo Pétain a rifugiarsi in Africa del Nord e a continuare la guerra dai territori dell’impero francese.
Durante la guerra le vicende di M. si intrecciano con quelle di Charles de Gaulle, con il quale condivide l’intento di proseguire la guerra fino alla vittoria. Nel giugno del 1940 si trovano entrambi a Londra e de Gaulle approva, assieme a Winston Churchill, il progetto di unione franco-britannica ideato da M. Il progetto non ha però seguito a causa della scelta opposta operata da Pétain di chiedere l’armistizio ai tedeschi. Dopo di che, mentre il Generale si propone di proseguire la lotta in Gran Bretagna come capo della “Francia libera”, M. parte per gli Stati Uniti ritenendo che solo l’America abbia le risorse necessarie per sconfiggere l’Asse e che sia pertanto necessario sfruttarne mezzi e potenzialità. Nell’agosto del 1940 è nominato dal governo britannico vicepresidente del British Supply Council a Washington. Nella capitale americana utilizza le proprie reti di conoscenze per spingere l’amministrazione Roosevelt ad aumentare il programma di riarmo e a sostenere lo sforzo di guerra della Gran Bretagna.
Alla fine del 1942, su richiesta di Roosevelt, M. si reca ad Algeri, dove nel frattempo sono sbarcati gli Alleati, per occuparsi dei problemi delle forniture americane, ma anche per fungere da consigliere del generale Giraud, allo scopo di portarlo verso posizioni più compatibili con la democrazia. Tuttavia, contrariamente ai propositi prevalenti nell’amministrazione americana, egli finisce per appoggiare l’idea di costruire l’unione dei francesi attorno alla figura di de Gaulle, di cui auspica l’arrivo in Africa del Nord. Gioca pertanto un ruolo di primo piano nel processo che porta de Gaulle alla testa del Comitato francese di liberazione nazionale (CFLN). M. entra nel CFLN come Commissario all’armamento incaricato dell’equipaggiamento dell’esercito con materiale americano. In tale funzione negozia importanti accordi tra il CFLN – poi trasformatosi in Governo provvisorio della Repubblica francese (GPRF) –, e gli Stati Uniti, senza riuscire però a ottenere il riconoscimento del GPRF da parte del governo americano, come de Gaulle gli domanda.
Nel corso di questi anni M. approfondisce la propria riflessione sulle cause della conflittualità tra le nazioni europee, arrivando alla conclusione – come si evince da una sua nota del 5 agosto 1943 – che il pericolo più grande per la ricostruzione dell’Europa e della pace sia la «credenza che, attraverso il nazionalismo e la sovranità nazionale affermata in tutte le sue forme, politiche ed economiche, le ansie dei popoli potranno essere placate e i problemi del futuro risolti». Ben al contrario, a suo avviso, non vi sarà pace in Europa finché non saranno raggiunti due obiettivi: il ristabilimento di regimi democratici in tutti i paesi; l’organizzazione politica ed economica di un’“entità europea”. Quest’ultima condizione è essenziale, da un lato, per non ripetere gli errori commessi nel primo dopoguerra, quando gli Stati si sono ricostruiti sulla base prevalente della sovranità nazionale e hanno perseguito politiche di prestigio e di protezionismo a livello economico, ricadendo nella corsa alla costruzione di vasti eserciti; dall’altro lato, è essenziale ad assicurare «la prosperità che le condizioni moderne rendono possibile e di conseguenza necessaria»: solo la costituzione di un mercato europeo e la liberazione delle risorse dalle necessità di difese strettamente nazionali porteranno alla soddisfazione delle nuove domande di benessere provenienti dai popoli europei. Tuttavia, M. è consapevole che non sarà possibile raggiungere tale risultato europeo immediatamente e che, al contrario, sarà necessario un lasso di tempo assai lungo; contemporaneamente egli diffida dei vaghi ideali europeisti, come a suo avviso erano stati quelli alla base della Società delle Nazioni.
Alla fine del 1945 il governo presieduto da de Gaulle decide di dar vita a un Consiglio per il piano di modernizzazione e di rifornimento del paese e a un commissariato generale. Li affida a M. sotto la diretta responsabilità del capo del governo. Si tratta non solo di ricostruire un paese in rovina, ma di modernizzarlo e di introdurvi metodi di concertazione fino ad allora sconosciuti. Per questo M. cerca di correggere gli eccessi della centralizzazione e di sviluppare il dialogo con i partiti politici e le organizzazioni sociali, allo scopo di far tornare la Francia per la fine del 1948, al livello della produzione che aveva nel 1939.
L’antitesi alla ideologizzazione della questione “Europa”: il secondo dopoguerra
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale il continente europeo vive un cambiamento radicale della propria condizione: le distruzioni generali causate dal conflitto toccano tutti i paesi, che hanno ora bisogno di un ingente aiuto esterno per ricostruire le proprie economie; nessuna nazione europea – nemmeno quelle vincitrici – possono più ritenersi delle “grandi potenze”. Anche se ci vorrà del tempo per acquisirne la consapevolezza, l’equilibrio riposa ormai sulla preminenza di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Di fronte a questi stravolgimenti del panorama internazionale, in Francia si confrontano due visioni opposte dell’Europa. Da un lato, vi sono quanti ritengono che la nazione rappresenti un orizzonte invalicabile lo Stato nazione è da sempre, e lo sarà anche in futuro, la realtà politica fondamentale; esso può concludere trattati con altri Stati nazione e cedere alcuni segmenti della propria sovranità, ma deve trattarsi solo di singole e specifiche cessioni, attentamente definite ed esplicitamente sottoscritte dallo Stato.
Partono da assunti opposti, invece, gli “europeisti”, per i quali le due guerre mondiali hanno costituito la prova della distruttività insita nel mantenimento di rigide concezioni statalistiche. Inoltre, essi ritengono che nessuno dei grandi problemi che l’Europa e la Francia devono affrontare nella seconda metà del XX secolo possano essere risolti senza una qualche forma di organizzazione dell’Europa. L’idea dell’Europa appare dunque come l’unico modo, per i paesi del vecchio continente, di ricostruirsi e di mantenere relazioni pacifiche, una volta superata l’assolutezza della concezione insita nei nazionalisti. Gli europeisti, però, formano una costellazione assai variegata, alla quale appartengono uomini provenienti da retroterra politici molto differenti e sostenitori di proposte divergenti. In Francia, come più in generale in Europa anche se con modalità differenti da paese a paese, si delineano due tendenze opposte, che emergono chiaramente al Congresso dell’Aia nel maggio 1948: una tendenza federale, che sostiene la necessità di un governo europeo centrale dotato di veri e propri poteri autonomi, e una tendenza unionista, che si limita a proporre un’unione, ossia un’associazione o forme di cooperazione, tra Stati sovrani. Quest’ultima tendenza, capeggiata non a caso dai conservatori britannici, ha in realtà molti punti di contatto con la famiglia dei nazionalisti, poiché non prevede alcuna cessione di sovranità ad autorità europee sovranazionali e concepisce l’organizzazione dell’Europa come un mezzo per la ripresa economica e il salvataggio politico delle nazioni del vecchio continente.
M. condivide la diagnosi degli europeisti più radicali: è convinto che il mantenimento degli Stati nazione abbia portato alle due deflagrazioni mondiali. Condivide anche il loro orizzonte politico: in un futuro non molto lontano, le sovranità nazionali si fonderanno in una sovranità europea unica e, per andare in quella direzione, le sovranità delle nazioni dovranno essere progressivamente smantellate. Tuttavia, a differenza dei federalisti, egli parte da una analisi realista e da un metodo pragmatico, che lo portano a opporsi a ogni forma di ideologizzazione della questione europea. La constatazione realista è che l’opinione pubblica non è né può essere freno o motore dell’organizzazione dell’Europa, in quanto non esiste alcun tipo di sentimento patriottico a livello continentale. L’organizzazione dell’Europa non è mai stata né è priorità nell’agenda dei governi delle democrazie europee. Pertanto, diversamente dall’accento posto sull’opinione pubblica da molti federalisti, egli ritiene invece più importante lavorare sui governi “dall’interno” o attraverso i leader dei partiti; concentrarsi sull’establishment, sugli alti burocrati dello Stato e delle sue agenzie, così come sulle lobby industriali e sindacali. In questa prospettiva, M. sfrutta ampiamente le proprie reti personali costruite negli anni precedenti alla guerra.
Il suo metodo è stato definito “funzionalista”. In altri termini, come già altri prima di lui, egli sostiene l’idea di cominciare la costruzione dell’Europa facendo emergere progressivamente gli interessi comuni che esistono tra gli uomini e portandoli ad avere una visione condivisa dei problemi per arrivare a soluzioni globali accettate da tutti. Concretamente, ciò significa sviluppare l’integrazione in alcuni settori limitati – in particolare nei settori economici chiave – attraverso autorità europee in grado di modificare le regole del gioco e di far evolvere progressivamente il comportamento dei protagonisti. Attraverso questa fusione progressiva di interessi si creerà una solidarietà di fatto in alcuni settori economici, che in seguito potrà essere estesa ad altri settori e quindi all’insieme dell’economia, dimostrando alle popolazioni europee i benefici dell’integrazione e portando alla luce il comune interesse alla collaborazione. Ciò creerà, infine, le condizioni non solo economiche ma anche psicologiche, per costruire una struttura politica che rappresenti il coronamento della costruzione.
La visione che M. ha sviluppato si basa sulla consapevolezza della nuova posizione dei paesi dell’Europa occidentale sullo scacchiere internazionale. Come scrive a Robert Schuman, presidente del Consiglio francese, il 18 aprile 1948, egli è particolarmente inquieto a proposito della dipendenza economica, finanziaria e militare dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Tale dipendenza rende ancora più necessaria l’esistenza di una federazione dell’Europa occidentale, unica prospettiva che potrà salvare l’Europa, permettendole di rimanere se stessa, contribuendo così in modo fondamentale a evitare una nuova guerra. L’Europa, anche grazie all’inserimento della Germania occidentale in una struttura che possa contenerne la volontà di potenza, potrà giocare un ruolo moderatore tra Stati Uniti e Unione Sovietica e contribuire alla distensione internazionale. D’altra parte, M. non è neutralista e ritiene fondamentale la solidarietà tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti: un’associazione dei popoli liberi che comprende gli Stati Uniti, non esclude affatto la creazione di un’Europa unita.
Diversamente dai federalisti, spesso tentati dalla concezione dell’Europa come “terza forza”, egli non pone l’accento su istituzioni politiche comuni come primo passo dell’integrazione; nondimeno, l’unione politica come obiettivo finale è probabilmente nella mente di M. già prima del 1950. Alla fine degli anni Quaranta, però, egli ritiene che i tempi siano ancora immaturi per una sua affermazione nelle agende dei governi europei e che, pertanto, tentare di imporla a tutti i costi avrebbe potuto arrestare un più graduale processo di integrazione. Contro logiche massimaliste e a dimostrazione della sua volontà di deideologizzare la questione europea e della sua convinzione che ciò che conti sia il movimento verso l’obiettivo ultimo, egli è pronto a sostenere qualunque iniziativa, anche se di importanza minore, che vada nella direzione desiderata.
Tuttavia, le istituzioni europee create nella seconda metà degli anni ’40 si rivelano di debole efficacia al fine di legare tra di loro i paesi dell’Europa occidentale, in quanto fondate sul principio della cooperazione intergovernativa: l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) non è neppure lontanamente in grado di realizzare un’integrazione economica dell’Europa occidentale; il Consiglio d’Europa risulta ancora più deludente sul piano politico. Per questo M. segue solo da lontano gli sviluppi del Movimento europeo e del Consiglio d’Europa, che ai suoi occhi sembrano ripetere gli stessi errori della SDN. Indirizza invece i propri sforzi verso il tentativo di dar vita a un’Europa economica a base franco-britannica: nel 1949 negozia segretamente con Edwin Plowden, capo del servizio della pianificazione a Londra, al fine di creare un coordinamento tra la pianificazione francese e quella britannica con l’obiettivo di formare un nucleo economico franco-britannico da estendere poi al resto d’Europa. Il governo laburista non si mostra però interessato al progetto, non essendo disposto a spingersi oltre la semplice cooperazione intergovernativa.
Di fronte all’indisponibilità del governo britannico, M. decide di puntare su un’Europa a base franco-tedesca, rinvenendo nelle numerose aperture del cancelliere Konrad Adenauer delle opportunità da non lasciar cadere. Negli anni seguenti la fine della guerra, la posizione delle potenze occidentali verso la Germania muta profondamente per l’innescarsi della Guerra fredda. I governi occidentali, infatti, concordano sulla necessità di difendere la Repubblica Federale Tedesca (RFT) sia per dare profondità strategica alla difesa della parte occidentale del continente, sia per evitare che un’eventuale conquista da parte dell’URSS possa consentire ai sovietici di utilizzare il potenziale umano e industriale dell’RFT contro l’Occidente. Alla fine degli anni Quaranta, di fronte all’aggravarsi della tensione tra i blocchi il problema della difesa dell’Europa occidentale diventa sempre più impellente e la posizione francese – che proponeva lo smembramento e la sorveglianza internazionale della Germania – appare sempre più debole. Per questo, dall’inizio del 1950 gli Stati Uniti premono fortemente per spingere gli europei a cooperare e incoraggiano la riconciliazione franco-tedesca.
La fine dell’illusione del ritorno a un mondo policentrico, si trova, dunque, alla base non solo delle convinzioni di M., ma anche della disponibilità di gran parte della classe politica francese a modificare la posizione verso la RFT. Nondimeno, mentre per la gran parte dei politici francesi, sulla scelta di integrare la RFT in un insieme europeo occidentale pesa anche la volontà di trovare una soluzione che non restituisca allo stato tedesco la pienezza delle sue prerogative a livello internazionale, per M., invece, vi è la convinzione che il gioco diplomatico condotto attraverso incontri al vertice tra i quattro Grandi (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) rafforzi la posizione di subordinazione dei paesi europei alla politica di Usa e Urss per la situazione di inferiorità in cui versano Francia e Gran Bretagna. Per modificare questo trend, a suo avviso, la questione tedesca deve trovare una soluzione all’interno dell’Europa attraverso una piena partecipazione della Germania stessa.
Nell’aprile del 1950 M. presenta al Ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, un progetto in cui si propone un’integrazione di due settori di base, il carbone e l’acciaio, tra Francia e Germania ed eventuali altri paesi europei come passo iniziale di un’integrazione più ampia. I settori messi in comune devono essere gestiti da un’autorità che assicuri il gioco della concorrenza, elimini le discriminazioni e orienti gli investimenti. Questo progetto, di cui Schuman assume la responsabilità politica, permette di risolvere numerosi problemi che si pongono al governo francese: favorisce la riconciliazione franco-tedesca e allo stesso tempo assicura forme di controllo sulla produzione tedesca di carbone e acciaio; rilancia l’iniziativa diplomatica sul terreno dell’organizzazione europea e nel più generale contesto dell’organizzazione dell’Occidente e, al contempo, pone un antidoto al pericolo di un ritorno del nazionalismo tedesco.
Nelle sue memorie M. scrive che in questo frangente la sua preoccupazione principale è quella di inventare forme politiche nuove e trovare il momento utile per cambiare i dati del problema europeo. Come afferma la breve dichiarazione iniziale letta da Robert Schuman il 9 maggio 1950, si tratta di trasformare completamente le condizioni europee in modo da rendere possibili altre azioni comuni, fino a quel giorno neppure concepibili. Il “Piano Schuman” permette infatti di superare le opposte visioni dei liberali e degli “interventisti”. In esso convivono aspetti interventisti, come l’applicazione delle regole a due soli settori dell’economia, i poteri conferiti all’Alta autorità della Comunità da usare in caso di crisi nonché le regole che essa può imporre sui prezzi. Al tempo stesso, però, il Piano presenta aspetti liberali: un mercato comune, almeno nel contesto europeo di quel periodo, ha infatti un connotato liberale; inoltre, la proprietà rimane privata e sono previste misure anticartello. Tuttavia, l’aspetto che maggiormente interessa M. riguarda il carattere sovranazionale dell’Alta autorità: l’idea di organizzare l’industria di base non è certo nuova, ma le precedenti proposte hanno sempre pensato a istituzioni di tipo intergovernativo; M. stabilisce in questa occasione una distinzione molto chiara – che nelle memorie sfumerà – tra l’integrazione e la cooperazione, ritenendo che la prima si distingua nettamente dai modelli di cooperazione internazionale del primo dopoguerra, e non ammette che si tenti di occultare la differenza fondamentale che intercorre tra le due concezioni.
Nel giugno del 1950 l’offensiva comunista in Corea e la minaccia di un conflitto “caldo” che sembra pesare sull’Europa occidentale pongono come impellente la necessità di riarmare la RFT, eventualità questa sostenuta in particolare dal governo americano. Nell’analisi di M. la forma che sarà data al riarmo tedesco influenzerà decisivamente anche la sorte dell’integrazione europea. Egli ritiene infatti che la volontà di integrazione politica del governo tedesco sarebbe sfumata nel caso la ricostruzione del suo esercito fosse avvenuta su base essenzialmente nazionale. Per questo, per risolvere il problema della necessità di una difesa tedesca, egli appoggia risolutamente la realizzazione di una soluzione sovranazionale europea (con preminenza della Francia), anziché puntare sull’incorporazione di un esercito tedesco nella NATO. Il 22 ottobre 1950 M. propone al presidente del Consiglio René Pleven la bozza di un progetto che è il risultato di ampi approfondimenti e scambi di opinione; questa bozza, in seguito adottata dal governo e dall’Assemblea nazionale francese, prevede che la Francia si faccia promotrice di trattative al fine di dar vita a un esercito europeo, collegato a istituzioni politiche europee, nel quale saranno incorporate truppe tedesche al livello dell’unità più piccola possibile (Comunità europea di difesa, CED).
Nel contempo M., consapevole che la proposta di dar vita a un esercito europeo avrebbe toccato il cuore stesso del potere statuale e, pertanto, avrebbe inevitabilmente incontrato numerosi ostacoli, dà la precedenza ai lavori sul Piano Schuman, ancora in corso, avendo come obiettivo la creazione di uno stretto legame tra esercito europeo e Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Egli il 10 agosto 1952, viene prescelto come primo presidente dell’Alta autorità della CECA.
Nei primi tempi M. è impegnato indirettamente nelle trattative sulla CED, grazie alle posizioni chiave occupate da due suoi ex collaboratori, Hervé Alphand e Étienne Hirsch. Dal settembre del 1951, come membro del Temporary council committee, istituito dalla NATO, egli si occupa in prima persona della valutazione dei carichi finanziari legati al funzionamento della CED. Rimane però deluso dalla veste finale dell’accordo sull’esercito europeo: ai suoi occhi il solo aspetto tangibile dell’avanzamento del processo d’integrazione consisterà nell’“uniforme comune”. Non per questo ritira il proprio sostegno al progetto, nella prospettiva di poterlo modificare in seguito attraverso una fusione progressiva delle competenze nazionali, e si schiera contro le modifiche dell’accordo chieste dal presidente del Consiglio francese Pierre Mendès France, che, a suo dire, avrebbero ridotto a niente il significato reale della Comunità.
La bocciatura della CED da parte dell’Assemblea nazionale francese e la soluzione atlantica al riarmo europeo rappresentano una svolta per i metodi d’azione di M. Egli ritiene che gli stati dell’Europa occidentale stiano operando un ritorno indietro verso un sistema di alleanze classico, ossia basato su relazioni bilaterali senza trasferimenti di sovranità. Per questo, con la decisione resa pubblica il 9 novembre 1954 di non voler chiedere un rinnovo del proprio mandato come presidente dell’Alta autorità della CECA, esprime la propria volontà di dissociarsi dalla direzione intrapresa dalla cooperazione europea. Riacquisendo la propria libertà d’azione, M. pensa di poter influire più efficacemente sull’evoluzione del processo d’integrazione europea.
Allo stesso tempo, per attutire il rischio che un trattato europeo sia nuovamente bocciato da un parlamento nazionale, il 13 ottobre 1955 M. crea il Comité d’action pour les Etats Unis d’Europe (Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, CAEUE), nel quale siedono i rappresentanti dei partiti politici e dei sindacati europei che condividono la prospettiva sovranazionale per l’Europa. Esso è concepito come uno strumento di pressione al fine di spingere i dirigenti dei partiti e dei sindacati rappresentati al suo interno a difendere nei rispettivi paesi i progetti e le linee d’azione fissati in comune. È importante sottolineare, in particolare, l’adesione al Comitato della SPD tedesca, fino a quel momento piuttosto ostile ai progetti europei in quanto escludenti la parte orientale della Germania.
M. gioca un ruolo essenziale nel “rilancio” dell’integrazione europea nella seconda metà degli anni Cinquanta. Già all’inizio del 1955 M. pensa che sia possibile far riprendere il cammino al processo d’integrazione europea grazie alla creazione di un’autorità europea indipendente per la messa in comune dei combustibili nucleari (Euratom) e, in modo ancora più audace, attraverso un’autorità europea degli armamenti, istituzioni da affiancare all’Alta autorità della CECA e da porre in contatto con il Consiglio europeo dei ministri (v. Consiglio dei ministri) e con l’Assemblea comune. In quegli anni M. ritiene che l’energia atomica possa giocare un ruolo fondamentale per il rilancio europeo poiché, essendo ritenuta la fonte di energia che promette i maggiori sviluppi, essa può divenire il viatico per rendere all’Europa l’indipendenza energetica e quindi per spingere i diversi Stati europei a realizzare in comune investimenti e processi di regolazione e controllo.
Questa proposta è al centro del documento con il quale il ministro degli Esteri belga, Paul-Henri Spaak, rilancia l’evoluzione dell’integrazione europea alla Conferenza di Messina del giugno 1955. Oltre a essa, Spaak propone agli altri cinque membri della CECA la fusione progressiva dei mercati nazionali e la creazione di un’autorità comune con competenze negli ambiti dei trasporti e dell’energia convenzionale. Nei mesi successivi alla Conferenza di Messina le energie di M. si concentrano sul progetto dell’Euratom, la cui realizzazione egli ritiene più probabile rispetto al progetto del Mercato comune. Grazie ai suoi legami con il segretario di Stato John Foster Dulles, convince l’amministrazione americana a sostenerlo lungo questo percorso.
Il disegno di M. per l’Euratom si scontra però con diverse difficoltà. La principale riguarda la limitazione a fini civili dell’uso dei combustibili nucleari. Nel suo progetto, infatti, le istituzioni europee avrebbero dovuto assicurare l’uso esclusivamente pacifico dei materiali nucleari dei paesi aderenti alla Comunità al fine di garantire l’uguaglianza di diritti tra i membri, inclusa la Germania che, a seguito della guerra, ha dovuto rinunciare a possedere armamenti nucleari. Questa disposizione, qualora accettata, avrebbe impedito alla Francia di divenire una potenza atomica. D’altro canto, M. è personalmente convinto che l’unificazione dell’Europa sia più importante per la Francia del possesso di un armamento atomico indipendente. Inoltre, ritiene che l’attribuzione a un’autorità europea del monopolio nel rifornimento e nella distribuzione dei materiali fissili avrebbe permesso a questa di essere percepita dagli Stati Uniti come un partner affidabile e, per questo, avrebbe rappresentato la migliore garanzia per puntare a un eventuale trasferimento di tecnologia da parte del governo americano. L’ipotesi di una rinuncia unilaterale alle armi atomiche non incontra però il favore della maggioranza degli ambienti politici francesi né di una parte di quelli tedeschi e il governo di Guy Mollet, durante i negoziati per l’Euratom, propone di riservare alla Francia la possibilità di sviluppare le applicazioni militari delle ricerche sull’energia atomica.
Le proposte di M. e Spaak, ampiamente rielaborate al tavolo delle trattative tra i governi dei sei paesi coinvolti, portano alla stipula dei Trattati di Roma nel marzo del 1957.
Il rapporto tra il funzionalismo di Monnet e il nazionalismo di de Gaulle
Le conquiste di M. previste da questi trattati sembrano però essere rimesse in discussione dal ritorno al potere di de Gaulle, nel giugno del 1958. Di questa svolta della politica francese M. non è certo entusiasta, eppure pragmaticamente ritiene che la costruzione europea possa progredire anche grazie al Generale. M. non esita dunque a offrire la propria collaborazione a de Gaulle attraverso Jacques Chaban-Delmas, che nell’estate del 1958 incontra più volte il presidente del Comitato d’azione. In settembre, dopo aver esitato per alcune settimane, M. decide di dare la propria approvazione al progetto della Costituzione della V Repubblica, che permetterà a suo avviso, da un lato, di rafforzare l’autorità, la durata e l’efficienza del potere esecutivo nei confronti del legislativo; dall’altro, proprio grazie a questo rafforzamento, di chiudere l’emergenza algerina e di poter perciò riprendere con più vigore la strada dell’integrazione europea.
La fine degli anni Cinquanta vede il Generale e M. alleati nella volontà di far crescere una “comunità di interessi di fatto” tra i Sei. Nel 1958-1959, infatti, i progetti di entrambi evolvono in una direzione comune. L’ex presidente dell’Alta autorità della CECA, sia per la pragmatica constatazione dei suoi limiti, sia per l’opposizione malcelata dei governi francese e tedesco, decide di sacrificare la sua prima creatura e puntare tutto sul Mercato comune. Dopo aver in un primo tempo visto nella proposta britannica di Zona di libero scambio un modo per associare la Gran Bretagna al continente, nella seconda metà del 1958 M. cambia idea e vi scorge il cavallo di Troia per indebolire la novità di una tariffa esterna comune e, con essa, la dose di sovranazionalità insita nelle istituzioni e procedure previste. I trattati di Roma danno alla commissione del Mercato comune il potere di negoziare con gli Stati membri per quanto riguarda il commercio con l’esterno. M. cerca di sfruttare questo potere per promuovere trattative commerciali tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Comunità economica europea: ai suoi occhi, il fatto che la Commissione parli con una sola voce a nome dei sei paesi membri della CEE permette di superare lo sterile dialogo in merito alla Zona di libero scambio e, soprattutto, di avviare una nuova forma di integrazione tra i sei paesi membri.
Sulla scelta di M. influisce sicuramente l’evoluzione della posizione del Generale: alla fine del 1958 de Gaulle decide di non denunciare i Trattati di Roma, si convince di poterli utilizzare nell’interesse della Francia e li difende contro l’ipotesi di dissolvimento del Mercato comune nella Zona di libero scambio. Al Generale l’Europa appare ora una convenienza “nazionale”. In primo luogo, su un piano politico, un’Europa organizzata, di cui la Francia assumerebbe la guida, contribuirebbe ampiamente a restituire a quest’ultima il ruolo di grande potenza, perso nel dopoguerra a causa dell’affermarsi progressivo della decolonizzazione. La Francia infatti non può più contare sull’impero che le aveva permesso di essere presente nella guerra e poi di partecipare alle sue ultime fasi dalla parte dei vincitori. In secondo luogo, come la storiografia recente tende a sottolineare, de Gaulle comprende le ricadute positive che la costruzione del Mercato comune avrebbe per l’economia francese, attraverso lo sviluppo di una politica agricola europea e di tariffe doganali comuni.
La collaborazione tra M. e de Gaulle prosegue per un certo tempo sul progetto di unione politica per l’Europa. Nell’estate del 1959 M. scrive a de Gaulle per suggerirgli un atto politico sulla scena europea: impegnarsi affinché gli europei creino, attraverso l’associazione, una nuova entità che permetta loro di pesare nuovamente nelle questioni mondiali. Questo passo in avanti deve risiedere, per M., nella formazione di un consiglio comune della politica estera tra Francia e Germania, alla cui unione potranno aderire anche gli altri paesi del Mercato comune. Pragmaticamente M. vede nel «concerto organizzato regolare di governi responsabili» proposto dal presidente francese nel settembre del 1960 un’apertura che avrebbe consentito di promuovere un progetto, in grado poi di evolvere verso forme maggiormente sovranazionali. Anche contro alcune resistenze presenti nel suo Comitato d’azione, egli si impegna a valorizzare gli elementi di progresso presenti nella proposta del Generale: la realizzazione di istanze istituzionali in cui i Sei avrebbero iniziato a organizzare la loro cooperazione politica, seppure a livello dei capi di Stato. Data la situazione di stallo in cui versa l’Europa, la cooperazione è dunque concepita da M. come una tappa necessaria; un progresso sulla via di una più organica organizzazione europea.
Tuttavia, emergono ben presto gli elementi di profondo disaccordo tra le due prospettive. Sia de Gaulle sia M. ritengono che l’organizzazione dell’Europa sia indispensabile al mantenimento della pace, allo sviluppo democratico della Germania, al progresso economico, al recupero di un certo grado d’indipendenza da parte degli europei rispetto alle superpotenze americana e sovietica. Tuttavia, le loro concezioni divergono su un punto fondamentale: la centralità dello Stato nazione nella vita internazionale. Diversamente da M. che, come si è detto, ritiene indispensabile inserire elementi sovranazionali nel processo di costruzione europea e non intende rimettere in questione la continuità dell’integrazione economica già intrapresa secondo i nuovi metodi delle Comunità europee, per il Generale la sovanazionalità comporta la negazione della realtà fondamentale della vita internazionale, la nazione, al cospetto della quale ideologie e regimi rivelano la propria contingenza. Per lui la nazione si organizza in Stato, unica istituzione legittimata a condurne l’azione esterna e a farlo in nome della difesa dell’interesse nazionale. Questa concezione non esclude il riconoscimento della necessità della cooperazione internazionale, a causa di alcuni fenomeni caratteristici del XX secolo (interdipendenza economica, progresso tecnico delle comunicazioni, cambiamenti nella tecnica militare, formazione di grandi insiemi geografici), ma questa cooperazione deve svolgersi tra Stati sovrani, attraverso accordi liberamente assunti, senza creazione di alcuna autorità sovraordinata. L’Europa politica che vuole il Generale deve subordinare alla cooperazione intergovernativa anche le istituzioni europee già esistenti; in altri termini, il Presidente della Repubblica francese non ha alcuna intenzione di sviluppare l’Europa politica sulla base delle Comunità esistenti; tutt’al più, queste possono costituire terreni per sperimentare la cooperazione tra gli Stati.
Sono emblematiche della visione franco-centrica e stato-centrica di de Gaulle le parabole rovesciate del Mercato comune e dell’Euratom. Mentre il governo francese lascia che il secondo si svuoti di significato, dopo aver cercato di capire cosa la Francia possa ricavarne per il proprio programma nucleare civile e militare, al contrario decide di lubrificare e incentivare il meccanismo del Mercato comune nella convinzione degli effetti benefici di questo per l’economia francese.
La concezione nazionalista di de Gaulle comporta una seconda divergenza fondamentale rispetto alla visione di M. All’inizio degli anni ’60, anche alla luce del contrasto tra URSS e Cina che si profila all’orizzonte, il Generale si convince che è giunto il momento per scardinare l’innaturale divisione del mondo in due blocchi attraverso una politica estera della Francia più indipendente dai legami atlantici. La visione di M. si basa, invece, sull’idea della persistenza di una spaccatura tra i blocchi e di una sostanziale convergenza di interessi tra Europa occidentale e Stati Uniti. Si tratta piuttosto di sviluppare la cooperazione transatlantica, la “partnership tra pari” che egli propone all’amministrazione Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e che sembra trovare un’accoglienza favorevole: la creazione di un’Europa unita avvicinerebbe le due sponde dell’Atlantico rendendo possibile un’associazione su un piede di uguaglianza. Per questo è necessario che l’Europa si allarghi alla Gran Bretagna, per avere un peso sufficiente, e che cominci il percorso verso l’unificazione politica. Il 26 giugno 1962 il Comitato d’azione adotta una dichiarazione che sostiene la necessità di stabilire una relazione paritaria tra gli Stati Uniti e l’Europa unita, entità distinte ma ugualmente potenti, relazione che non deve stabilirsi solo a livello economico ma che deve estendersi rapidamente agli ambiti militare e politico. Inoltre M. continua a battersi, per tutti gli anni Sessanta, per un’ammissione rapida della Gran Bretagna alle istituzioni comunitarie.
Secondo M., de Gaulle nel fondare la politica estera della Francia sulla persistenza dell’elemento nazionale dimostra di non comprendere la portata del fenomeno comunista. Questa incomprensione avrebbe spinto il Generale a perseguire una politica estera opposta a quella da lui auspicata, come scrive nelle sue note, perché la visione di de Gaulle dell’Europa dall’Atlantico agli Urali spinge inevitabilmente gli Stati Uniti fuori dal vecchio continente e favorisce il controllo sovietico anche sulla parte occidentale di esso.
Sebbene fin dal giugno del 1958 sia entrato nei piani di M. un elemento difensivo – egli sa di “aver perso l’iniziativa”, di non poter più contare sul “fuoco politico” – è il veto di de Gaulle all’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune a segnare la “rottura”. Dopo la conferenza stampa del Presidente francese del 14 gennaio 1963 non si tratta più di scendere a patti con lui per compiere un tratto di strada in comune, ma di condurre contro di lui una guerra di trincea. Il rapporto tra il funzionalismo di M. e il nazionalismo di de Gaulle funziona finché imperversa la Guerra fredda e il mondo è allineato in blocchi contrapposti, ma quando la Guerra fredda si allenta, inevitabilmente sorgono divergenze incompatibili, sia sul fronte del processo d’integrazione europeo sia su quello del rapporto transatlantico.
È l’intera concezione gollista dell’Europa a entrare ormai in conflitto con la visione di M., per il quale il futuro dell’Europa e quello della Germania sono strettamente legati: per lui l’integrazione europea deve essere la chiave per il futuro della Germania. Viceversa, la politica di de Gaulle sembra diretta verso un tandem franco-tedesco autonomo rispetto all’Europa e che consenta alla Francia di acquisire più distanza dagli Stati Uniti e dalla comune solidarietà occidentale. Monnet si impegna alacremente per contrastare le mosse di de Gaulle e, in particolare, il Trattato franco-tedesco firmato nel gennaio del 1963. È tra coloro che ispirano la stesura di un testo interpretativo del trattato, poi trasformato in preambolo e come tale votato dal Bundestag nell’aprile di quell’anno, che ne svilisce il contenuto interpretando gli impegni nel quadro di più ampi accordi multilaterali. Michel Debré e Maurice Couve de Murville individueranno in M. l’autore stesso del preambolo, indicandolo come principale oppositore della politica di de Gaulle e bollandolo come “tecnocrate senza patria”.
Negli anni successivi M e il CAEUE sostengono altre importanti iniziative, tese a contrastare la politica di de Gaulle: nel 1964 appoggiano la forza atomica multilaterale, proposta dagli Stati Uniti; nel 1965 cercano di ricucire i rapporti tra la Francia e gli altri membri della CEE durante la “crisi della sedia vuota”; nel 1967 sostengono una risoluzione da portare alla discussione di tutti i parlamenti europei a favore dell’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune.
L’inconciliabilità tra le due posizioni sfocia nella radicale opposizione di M. a de Gaulle al momento delle elezioni presidenziali del 1965. Diversamente dal 1958, quando M. ha appoggiato la riforma costituzionale, nel 1965 non solo egli annuncia di votare contro de Gaulle, ma è tra quanti cercano di trovare un candidato centrista da opporgli al primo turno (figura che viene individuata in Jean Lecanuet) e poi dichiara di sostenere François Mitterrand al secondo turno. Anche i contatti regolari che fino ad allora M. mantiene con il ministro degli Esteri Couve de Murville, a partire da quell’anno, si interrompono.
Il ritiro di de Gaulle nel 1969 appare a M. l’occasione per un revival dell’integrazione europea: dopo anni in cui egli ha vissuto una specie di esilio interno (da anni le riunioni del CAEUE non si tengono più a Parigi ma in Germania o in Belgio) e in cui l’iniziativa gli è sostanzialmente venuta a mancare. Durante gli anni ’60, il suo Comitato d’azione non solo non si è spento, ma ha anche aumentato il numero dei propri membri: nel 1967 vi entrano i Socialisti italiani, seguiti l’anno successivo dai Repubblicano-indipendenti di Valéry Giscard d’Estaing. Un primo successo è colto con l’entrata della Gran Bretagna nel mercato all’inizio degli anni ’70, vicenda nella quale M. gioca un ruolo importante anche grazie alla sua amicizia personale con il primo ministro Edward Heath, ma nella quale è essenziale la volontà del nuovo presidente francese Georges Pompidou.
Tuttavia, a fronte di questo successo, l’influenza di M. e del CAEUE sui leader europei e americani comincia a declinare. Nella prima metà degli anni ’70 M. cerca di portare avanti tre progetti. Utilizzando gli studi dell’economista Robert Triffin, egli propone il fondo europeo di riserva, che obbligherebbe i governi dei paesi membri a organizzare insieme una parte delle proprie riserve monetarie e in seguito li spingerebbe a concertare le proprie politiche economiche, in vista di una vera unione economica. I tedeschi si oppongono a questa proposta ritenendo che si possa pervenire all’unione monetaria solo dopo la convergenza delle politiche economiche dei paesi membri. Il secondo progetto, proposto dopo lo shock petrolifero del 1973 al ministro delle finanze tedesco Helmut Schmidt, parte dall’idea che i paesi membri del Mercato comune fissino un piano comune per allocare il petrolio. Francia e Gran Bretagna decidono però di agire unilateralmente, ignorando i propri partner europei.
L’unica proposta che ha un seguito riguarda l’incontro regolare dei capi di governo: sebbene il suo obiettivo ultimo sia la creazione di un’Europa sostanzialmente federale, pragmaticamente egli pensa che la cooperazione intergovernativa possa essere un acceleratore che avrebbe potuto consentire la ripresa della dinamica europea. Questa proposta, in un primo tempo derubricata da Pompidou in incontri regolari per discutere della cooperazione politica, è ripresa invece dal suo successore, Giscard d’Estaing, al quale M. la sottopone nel settembre del 1974. Sottoposta in dicembre agli altri capi di stato, da essa prende le mosse il Consiglio europeo.
Quest’epilogo può essere letto come una metafora che racchiude l’intera opera di M. I suoi ultimi fallimenti e lo stesso successo di una ripartenza della cooperazione intergovernativa attraverso il Consiglio europeo, rivelano i limiti intrinseci della visione monnetiana: non solo essa sottovaluta l’“autonomia del politico”, per cui il suo metodo può portare a una dispersione di sovranità in diversi organismi e al conseguente primato del momento “tecnico” su quello politico, ma il suo metodo non annulla l’interesse nazionale, che alla fine si rivela essere il vero motore dell’integrazione europea e ritorna costantemente come contraddizione insuperabile.
Indebolito dal peso degli anni, non potendo più intraprendere viaggi per ragioni di salute, il 9 maggio 1975 M. scioglie il suo Comitato e si ritira nella sua proprietà di Houjarray, dove si dedica alla scrittura delle memorie, aiutato dal suo fido collaboratore François Fontaine. Si spegne il 16 marzo 1979.
Gaetano Quagliariello (2012)